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Dopo le crisi: Dialoghi sul futuro dell'Europa
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Dopo le crisi: Dialoghi sul futuro dell'Europa

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I più reputano che la crisi economica provocata dalla pandemia abbia finalmente indotto l'Unione europea a cambiare rotta, se non altro perché ha deciso di destinare agli Stati ingenti aiuti finanziati dall'emissione di debito comune. È davvero così?
Con interventi di Marco Baldassari, Aldo Barba, Sergio Cesaratto, Omar Chessa, Carlo Clericetti, Guido Comparato, Marco Dani, Alfredo D'Attorre, Carlo Galli, Vladimiro Giacché, Andrea Guazzarotti, Federico Losurdo, Alessandro Mangia, Luigi Melica, Augustin Menendez, Edmondo Mostacci, Massimo Pivetti, Geminello Preterossi, Francesco Saitto, Fiammetta Salmoni, Alessandro Somma, Antonella Stirati, Luigi Testa.
LanguageItaliano
PublisherRogas
Release dateJul 2, 2021
ISBN9791220819039
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    Dopo le crisi - Alessandro Somma

    Dopo le crisi. Le ragioni di un dialogo - Edmondo Mostacci, Alessandro Somma

    La crisi consiste appunto nel fatto

    che il vecchio muore e il nuovo non può nascere:

    in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati

    ( A. Gramsci, Quaderni del carcere , Torino, Einaudi, 1977, 311)

    Una vulgata molto comune vuole che le crisi costituiscano preziose opportunità per correggere i difetti, rimuovere le contraddizioni, superare i propri limiti: in una parola, per migliorare. Così fosse, vivremmo in un’epoca felice. Dal fallimento di Lehman Brothers la crisi è stata la condizione fondamentale in cui ci siamo trovati a vivere e ad agire: dai subprime alla cosiddetta crisi del debito, fino alle tragiche conseguenze economiche e sociali della pandemia.

    La crisi non è quindi un’opportunità. Tuttavia, la vulgata comune coglie un elemento essenziale: quando la crisi è profonda – tanto più quando tende, come oggi, a cronicizzare – diventa la manifestazione della necessità del cambiamento. Non certo di un cambiamento quale che sia, ma di quelle trasformazioni che siano il frutto di un’analisi franca e spregiudicata dell’origine e delle cause che hanno condotto alle aspre difficoltà odierne.

    Se questa premessa è vera, gli entusiasmi mostrati verso il mutato approccio delle istituzioni europee in occasione della crisi pandemica appaiono una manifestazione ingenua di pensiero illusorio. Non solo il mutamento di approccio è stato tutto sommato marginale, come messo impietosamente in luce dal fiscal divide tra Stati Uniti e Paesi dell’Unione europea (al di là dell’Atlantico il bilancio pubblico ha mobilitato risorse pari ad oltre il doppio dell’ output gap, mentre nel complessivo sistema europeo si arriva a mala pena al 50%), ma i caratteri fondamentali della costituzione finanziaria europea – rigorosa disciplina fiscale, riforme strutturali market oriented, condizionalità – rimangono l’alfa e l’omega della costruzione comunitaria. D’altra parte, un progetto di integrazione sovranazionale destinato a compiersi per mezzo del mercato interno risulta geneticamente allergico a un approccio alla materia economico-politica incentrato su un rinnovato attivismo dei poteri pubblici.

    Questa intuizione primigenia impone di guardare oltre le parvenze disegnate dalle dichiarazioni pubbliche dei principali attori europei e nazionali e di interrogarsi sul futuro possibile del progetto comunitario.

    A tal fine è necessario indagare con un minimo di consapevolezza metodologica i caratteri fondamentali dell’Unione e le iniziative adottate in costanza di pandemia, diverse ma non per questo necessariamente distanti da quelle del passato recente, al fine di comprendere e, quindi, di mostrare a un pubblico più vasto dei ristretti circoli accademici gli scenari ragionevolmente dischiusi dalle attuali contingenze. Sullo sfondo, vi è l’imperativo di contribuire in modo critico e consapevole a quel dialogo partecipativo sul futuro dell’Europa, recentemente promosso dalle istituzioni comunitarie [1] .

    Nello svolgere un’indagine siffatta, l’errore più grave che si potrebbe commettere è quello – purtroppo non infrequente – dell’unilateralismo disciplinare: la complessità del tema è seconda solo alle difficoltà che emergono dall’attuale fase storica e non permette di affidarne l’analisi ad un unico sapere. Al contrario, l’approccio interdisciplinare è l’unico che abbia la possibilità di penetrare nella carne viva di questioni articolate, urgenti e vitali per il futuro delle società in cui viviamo, al fine di dare indicazioni significative sia sui processi in atto e i loro punti di caduta, sia sulle azioni che sarebbe opportuno intraprendere affinché il cambiamento non sia un facile slogan, ma una risposta meditata alle crisi e alle loro determinanti fondamentali.

    La necessaria ricerca dell’interdisciplinarietà si trasforma quindi nell’esigenza di mettere in comunicazione saperi e discipline che parlano ognuna il proprio lessico e che hanno abiti mentali diversi. Il dialogo diviene così la forma essenziale dell’analisi.

    La consapevolezza della complessità del tema e della necessità impellente di un genuino approccio interdisciplinare ci ha portati quindi a organizzare un confronto serrato tra studiosi delle discipline giuridiche, economiche e filosofico-politiche, al fine di condividere non soltanto gli esiti del percorso di riflessioni di ognuno, ma anche la prospettiva da cui le singole analisi hanno preso le mosse, al fine di promuovere una fruttuosa e reciproca contaminazione.

    La discussione sulle crisi e sul futuro dell’Europa che ne è scaturita è il frutto di questo incontro. Tale frutto oggi proponiamo al lettore.

    Genova-Roma, 25 aprile 2021

    [1] Conferenza sul futuro dell’Europa, https://europa.eu/european-union/conference-future-europe_it

    Verso una disunione sempre più stretta - Marco Baldassari

    Ever closer Union (una «Unione sempre più stretta») è l’auspicio con il quale le istituzioni europee hanno portato avanti, storicamente, ogni progetto di rilancio del cosiddetto processo d’integrazione. Tuttavia, l’idea che la governance europea abbia caratteristiche progressive è stata sottoposta ad un più realistico ridimensionamento, riguardo alle aspettative future. Si è ricorsi, così, a nuove concettualizzazioni: dalla multi speed Europe , all’integrazione differenziata, al neo intergovernativismo. La tendenza è quella di abbandonare un approccio one size fits all per abbracciare una più sobria Europe à la carte . Quindi sembra ormai lontana l’epoca in cui l’inarrestabile spill over funzionalista (approfondimento e allargamento a macchia d’olio dell’europeizzazione) – certo con possibili roll-back e indietreggiamenti tattici – avrebbe garantito che gli Stati, obbligati dalle crisi, fossero inevitabilmente portati a posizionarsi nella costellazione post-nazionale, accettando, così, limitazioni della propria potestà sovrana. Posto quindi che le cessioni di sovranità fossero la precondizione per questa sorta di comunità destinale (un’unione di popoli e un’unione di governi, secondo l’idea della democrazia sovranazionale di Jürgen Habermas), sarebbe stato solo grazie al ­ l’avanzamento a piccoli passi, e al pragmatismo, che l’Europa unita avrebbe visto la luce. Ma l’ unità politica è cosa ben diversa da un’ unione di Stati, il cui e ver closer Union rimane oggi, nel ­ l’Europa reale, sottotraccia e un auspicio per pochi irriducibili sognatori. La closeness si è invece manifestata in tutt’altro modo: nella governance economica di una sempre più stringente disciplina di bilancio e di vincoli alla spesa pubblica che in futuro – a seguito soprattutto del Recovery fund e del nuovo quadro finanziario pluriennale – riguarderà anche l’imposizione fiscale e le politiche del lavoro degli Stati membri.

    Una «Unione sempre più stretta», al di là della retorica, ha significato due cose ben precise. In primo luogo un’ integration by stealth (invisibile), cioè la capacità assolutamente performante dell’Ue di poter modificare in modo graduale, sotterraneamente, gli ordinamenti giuridici e il diritto interno degli Stati membri, tanto da apparire quasi impercettibile il restringimento progressivo dei vincoli esterni, di cui le opinioni pubbliche nazionali – ma spesso anche gli stessi governi e gli apparati statali – si rendevano conto solo a giochi fatti, dopo cioè che ormai «tornare indietro» avrebbe comportato costi e sacrifici ancora più alti di quelli richiesti dall’avanzamento. Far apparire una decisione politica come «tecnica», rispetto al­la quale «non c’è alternativa» (il Tina pensiero, there is no alternative) è stata la strategia per imporre scelte obbligate, senza possibilità di porre la questione su un terreno di dibattito minimamente conflittuale. La tecno-politica, spesso stigmatizzata come «pilota automatico», è in realtà un sistema complesso, stratificato, su più livelli, di tipo reticolare ed è difficile sfuggirvi nei sistemi istituzionali con caratteristiche post-sovrane. Alla fine rimane di fatto l’unica forma di intervento ammissibile a livello istituzionale. Una forma di gestione che sul piano amministrativo si determina come public management, e che a livello governativo ha perso ogni capacità di indirizzo in senso democratico sociale. Una cultura amministrativa, tra l’al­tro, in cui gli alti funzionari di Stato, gli apparati, appartengono allo stesso entourage delle tecnocrazie sovranazionali . Non esiste più una politica economica, perché la sua esistenza presupporrebbe che ci fosse un confronto tra approcci e indirizzi diversi. Ma la politica è stata fagocitata dall’economia neoliberale, che non consente «cittadinanza di pensiero» a un diverso modo di intendere il rapporto tra politica ed economia, o tra Stato e mercato. Non si può più decidere su questo rapporto, perché la decisione è già stata presa a monte, per cui non rimane che procedere in modo funzionalista, l’epifenomeno di questa tecno-politica. Non a caso Jean Monnet è stato definito dal suo biografo Louis-François Duchêne il primo «statista dell’interdipendenza», proprio per la sua capacità di aggirare i grandi problemi della Politica, evitando di affrontare i nuclei duri delle sedimentazioni collettive (sovranità, popoli, conflitti ecc.), spostando così l’azione su aspetti tecnici, apparentemente secondari, più nascosti, ma cruciali. Saper ricomporre le tessere del complesso mosaico europeo, e manovrare i fili sottili delle reti commerciali in cui gli Stati sono coinvolti, permette di «mettere le dita negli ingranaggi della storia», ruolo che Weber assegnava ai protagonisti, ai leader della politica. Monnet era un tecno-politico che preferiva, tutto sommato, agire nell’ombra, con la sua squadra di esperti (la piccola équipe de la rue de Martignac), ottenendo, così, risultati concreti, pragmatici, in grado di avvolgere gradualmente gli Stati in una fitta rete di regolazioni, che li avrebbe obbligati de facto a essere «solidali»: un’unione sempre più stretta, appunto.

    In secondo luogo, questa «Unione sempre più stretta» doveva avere anche carattere progettuale. Non doveva cioè limitarsi al pragmatismo. «Integrazione» fu la parola magica per sostituire l’ingombrante «federalismo», che sarebbe stato un elefante nel negozio di cristalli delle fragili sovranità europee. Il sogno che fu venduto e che ha costituito il quadro ideologico dell’Europa, almeno fino a Maastricht – in pratica fino alla svolta neoliberale degli anni Ottanta – si basava sul connubio tra mercato (concorrenza) e coesione. La cosiddetta economia sociale di mercato, o ordoliberalismo. Questo approccio intendeva mettere insieme l’idea di cooperazione sovranazionale (creazione di un mercato comune) e l’Europa sociale (che sarebbe arrivata gradualmente), garanzia per il raggiungimento dell’Europa politica. La cornice giuridica formale che avrebbe assicurato questo processo e trasformato il sogno in realtà era la Rechtsgemeinschaft, la comunità di diritto, un’integrazione quindi attraverso le leggi, attraverso la condivisione di regole comuni [1] . L’Europa è stata, ed è tuttora, Europa del diritto (neoliberale e post-democratico). Qui si spiega, in parte, la svolta delle sinistre rispetto al rifiuto iniziale dell’europeismo. I partiti della sinistra hanno sostituito l’Euro al comunismo, proprio perché vedevano nel processo riformatore, guidato dal diritto (liberale), la strada maestra su cui proseguire la normalizzazione del conflitto redistributivo, passando quindi dalla difesa della democrazia economica ad una democrazia del mercato. La progressiva inclusione dell’europeismo fideistico nei programmi e nelle strategie dei partiti della sinistra portò a trasformarli geneticamente.

    Jürgen Habermas è l’espressione intellettuale vivente di questo fondamentale passaggio teorico-politico: da Marx a Kant. Dalla sovranità alla costellazione post-nazionale. Per comprendere quanto il diritto sia importante per dare spessore a un’e­spressione di per sé molto lasca e generica come «integrazione», basti pensare alle letture dell’Ue come «Stato regolatore» [2] . Testi recenti come The Brussels Effect di Anu Bradford mettono in luce come l’Ue sia una potenza normativa e il suo successo dipenda dall’aver stabilito standard regolativi a livello globale [3] . La regolazione tecnica è diventata quindi l’ideologia sostitutiva del conflitto redistributivo e dell’idea che una qualsiasi regolazione debba passare da scelte di indirizzo stabilite democraticamente e che non possono rimanere appannaggio di strutture tecniche indipendenti (ma che neutre non sono), o di istituzioni sovranazionali che sono legittimate solo in modo indiretto. Perry Anderson ricorda, ad esempio, che l’azione delle istituzioni comunitarie era in realtà fortemente ideologizzata e non consisteva nella semplice applicazione di astratti principi sovranazionali. La Corte di giustizia, per esempio, fu l’istituzione strutturalmente trainante del processo di europeizzazione dei sistemi giuridici nazionali e i giudici che la componevano, così come i giuristi che contribuirono a sviluppare i primi principi comunitari, erano imbevuti di pensiero ordoliberale, antisocialista e fortemente ostile ai principi della democrazia economica di matrice keynesiana. Ciò confermava il fatto che il processo decisionale e normativo europeo fosse, quindi, eminentemente politico. «Le decisioni della Corte mascherano questioni altamente politiche in modo apolitico» afferma Perry Anderson. «La giustizia europea non era mai stata bendata; aveva gli occhi ben aperti, con una benda colorata sul capo coi colori dei partiti dell’establishment dell’epoca» [4] . Certo si trattò di una politica che faceva della spoliticizzazione delle scelte economiche la sua ragion d’essere. Ecco perché è assolutamente fondamentale leggere l’europeismo come ideologia, distinguendolo dal concetto di Europa [5] . Esattamente come gli storici giustamente distinguono la «nazione» dal «nazionalismo». Spesso invece si tende ad accogliere il lemma «europeismo» in modo acritico, dandone per scontato il valore progressista e misconoscendone il suo lato ideologico.

    Per comprendere meglio l’attuale cambiamento di fase, occorre inquadrare criticamente alcune periodizzazioni del processo di costruzione europea nel trentennio neoliberale a cavallo tra i due Secoli. Con «Europa post-Maastricht» possiamo individuare un periodo che va dal 1993 al 2004, cioè dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht – che segna un avanzamento del mercato interno e l’apertura del cammino verso l’Euro – alla bocciatura del Trattato costituzionale. Questo periodo è caratterizzato da un crescente ottimismo nei confronti dell’Ue. È un periodo di «Euforia», che vede la pubblicazione di testi come quello di Jeremy Rifkin, Il sogno europeo, in cui tutte le forze politiche tendono ad appoggiare l’europeizzazione e il processo di avanzamento. La moneta, l’allargamento e la costituzione europea, costituivano il trittico che andava a suggellare il grande progetto federalista. Questi tre eventi vanno letti congiuntamente. Non è casuale che siano progetti scaturiti dalla fine della Guerra Fredda e da quell’evento storico fondamentale rappresentato dal crollo dell’Urss.

    La moneta unica sarebbe stata il coronamento del mercato comune, il complemento necessario per rafforzare l’assemblaggio istituzionale di tipo neoliberale. In realtà l’Euro era ben più di un dispositivo economico: era la chiave di volta di un’intera impalcatura, concepita per ingabbiare i vecchi (falliti) Stati fiscali in un sistema che li portasse a introiettare un regime di disciplinamento della spesa pubblica e di politiche deflattive. La governance europea (basata sull’economia sociale di mercato) doveva, cioè, essere il propellente ideologico della moneta unica, il pungolo per attuare le riforme strutturali, unitamente a una flessibilizzazione del mercato del lavoro. L’Euro era, inoltre, un simbolo che andava ben oltre l’economia, perché, da un punto di vista geopolitico, rappresentava la via per la «germanizzazione» dell’Europa e la garanzia che la perdita della sovranità monetaria tedesca fosse però recuperata – nei suoi fondamentali – a livello europeo. Claus Offe è stato tra i primi politologi tedeschi a parlare di Euro come ideologia: un sistema strutturato di credenze, accettato come un nucleo di verità universalmente condivise. L’Euro rappresenta tuttora nell’immaginario neoliberale una forza modernizzatrice, di carattere irreversibile, una sorta di level playing field che dovrebbe portare a una progressiva convergenza delle economie europee, ma che in realtà ha esacerbato gli elementi divisivi. Offe ha spiegato che il dispositivo ideologico è stato contrassegnato da due fallimenti: il primo nella mancanza del raggiungimento di questo level playing field comune e il secondo nella mancata promessa di portare prosperità e benessere [6] . Il problema, infatti, è che assieme a un deficit democratico ( input legitimacy) è mancato anche un output legitimacy, una legittimazione attraverso i risultati.

    L’allargamento, il secondo elemento del periodo EUforico, o come veniva chiamata allora la «grande riunificazione dell’Eu­ropa», non era nient’altro che il pilastro atlantista di questa costruzione e il suo significato era prettamente geopolitico e di posizionamento strategico nei confronti della vicina Russia.

    La cornice giuridica dell’Euro e dell’allargamento, infine, doveva essere la Costituzione (o Trattato costituzionale). In realtà un processo di «costituzionalizzazione» era già in atto da tempo. Ma certo dare una veste «federalista» all’architettura europea, ancora di natura pattizia, con una vera e propria Carta fondamentale – richiamando, in qualche modo, il federalismo americano – avrebbe significato, almeno a livello simbolico, un certo salto politico e tolto finalmente dall’imbarazzo chi non sapeva come collocare questo ircocervo, questa costruzione sui generis, la cui natura ambigua non era mai stata chiarita. Moneta, spazio continentale e costituzione. Questo il decennio EUforico 1993-2004.

    Il periodo 2005-2011 fu, invece, il periodo contrassegnato da grande incertezza e turbolenza. Furono gli anni della crisi e dei sogni infranti dell’Europa unita. L’ ever closer Union cominciava a vacillare. Il primo arresto fu determinato senza dubbio dai referendum che bocciarono il Trattato costituzionale in Francia e Olanda nel maggio del 2005. I primi pronunciamenti popolari di una lunga serie che mostravano sempre meno adesione, quando non aperta ostilità, al progetto comunitario. Fu detto che il No alla costituzione era un No al «contesto» e non al «testo», nel senso che le critiche rivolte all’Ue erano spesso mal poste e andavano a toccare temi (l’im­migrazione clandestina, l’ingresso della Turchia in Ue, l’Europa delle banche ecc.) che non c’entravano o non erano direttamente collegati con la natura sovranazionale dell’Ue e delle sue reali competenze. Può anche essere vero, ma certo è che l’Ue rappresentò il simbolo di un globalismo regionale che cominciava a mostrare tutte le sue crepe e contraddizioni. Nel giro di qualche anno, 2007-2009, scoppiò la più grande crisi finanziaria dal 1929, che bruciò migliaia di miliardi in pochi giorni e non solo mostrò il fallimento dell’economia di carta e della finanziarizzazione capitalistica, ma segnò anche la fine della stessa narrazione del globalismo neoliberale e del crollo del suo universo simbolico. L’esperimento di globalizzazione regionale di embedded neoliberalism, incarnato nell’Unione, ne fu travolto e il simbolo di questa disfatta fu la Grecia, il cui rovesciamento in positivo dell’affermazione di Mario Monti: «la Grecia rappresenta il più grande successo dell’Euro», ne raffigura la più grottesca messa in scena neoliberale.

    La crisi finanziaria travolse come un fiume in piena il ponte che le élite s stavano costruendo tra le sovranità nazionali e la nuova governance sovranazionale. Si sperava in una convergenza delle economie, ma la zoppia dell’Euro, nel cataclisma finanziario in cui tutti accorrevano ai ripari, puntando su una forte iniezione monetaria delle banche centrali, non aiutò certo questo processo. Tanto più che le ricette «austeritarie», che caratterizzarono quel periodo, e la «politica dei due tempi», che doveva prevedere rigore e crescita (nel gergo europeista «stabilità»), non funzionarono. La Bce capì presto che avrebbe dovuto fingere di essere una banca federale e in qualche modo camuffarsi da «prestatore di ultima istanza», sebbene il suo rigido statuto lo vietasse. Il whatever it takes di Mario Draghi significò questo cambio di rotta e presto si comprese che l’ au ­ sterity, oltre che dannosa, era del tutto inutile. Lo stesso FMI lo riconobbe anni più tardi. Ne seguì quel che si può chiamare periodo «Eufobico» e di forte ostilità che contrassegnò l’arco temporale che va dal 2012-2020. Alcuni identificano questo periodo come «momento populista». Gli episodi più eclatanti furono senza dubbio la crisi greca del 2015 e la Brexit, con il referendum del luglio 2016 e le complesse vicende che seguirono l’accordo per l’uscita della Gran Bretagna dal­l’Ue. Furono gli anni della disgregazione. Anni di cui abbiamo testimonianze molto interessanti come i diari di Yanis Varoufakis, che rimarranno un esempio di memorialistica europea di grande importanza storica, soprattutto se confrontatati con le biografie di altri protagonisti delle vicende europee del passato come quelle di Jean Monnet e Jacques Delors, per esempio, più ottimistiche nei riguardi della costruzione europea.

    La crisi pandemica del 2020 che ha colpito il mondo ha rappresentato una svolta epocale e non c’è dubbio che siamo entrati in una nuova fase dell’Europa neoliberale post-Maastricht. Siamo, a mio avviso, usciti dal periodo Eufobico, senza che questo significhi un ritorno al periodo Euforico. Quello che si sta cercando di fare è ricostruire un nuovo discorso retorico, cercando di puntellare l’edificio neoliberale con nuove parole d’ordine. Tecnologia ed economia verde sono i nuovi temi verso cui le istituzioni europee stanno spostando l’attenzione. «Green», «digitale» e «resilienza» hanno sostituito le parole chiave del fallito momento federalista: «moneta», «allargamento» e «costituzione». L’Ue cerca di tornare a un approccio pragmatico, ma abbandonando la strategia ever closer Union, poiché la fine del consenso permissivo e l’impatto che le politiche europee hanno sui cittadini comportano un rischio troppo alto per giustificare un rilancio politico dell’Unione e, quindi, chiaramente le grandi narrazioni non sono possibili in questa fase. Le élite s europee intendono anzitutto scongiurare ogni tipo di confronto popolare (che viene sublimato con succedanei della democrazia quali l ’accountability e la trasparenza, il dialogo partecipativo con i cittadini , la consultazione delle parti sociali ecc.) e al contempo cercano, in qualche modo, di far convergere le scelte politiche nazionali verso un «estremismo di centro» [7] , che annulli eventuali disallineamenti da parte dei governi degli Stati membri.

    Questa «convergenza obbligata» è stata cercata in diversi modi: attraverso esplicite minacce ai governi che adottavano scelte sgradite alle élite s transnazionali (vedi caso Grecia e abdicazione di Tsipras al memorandum della troika); attraverso dispositivi giuridici come il Semestre europeo, che obbligavano gli Stati membri a sottoporre i propri documenti di programmazione economica e finanziaria ad uno stretto controllo e timeline della Commissione, e quindi a contenere le loro previsioni di spesa; last but not least, attraverso «commissariamenti dissimulati». Il caso del governo Monti nel 2011 e, dieci anni dopo, del governo Draghi sono gli esempi più calzanti. La «convergenza forzata» verso l’estremismo di centro è la strategia politica con cui attualmente l’Ue sta cercando di gestire la crisi e la sopravvivenza della stessa Europa. Alfredo D’Attorre ha parlato a tal proposito, criticandolo, di un «sistema di neutralizzazione della discrezionalità politica deviante», come unica possibilità «per garantire quel processo di convergenza accelerata dei sistemi economico-sociali dei diversi Paesi» [8] . Far diventare l’Ue una sorta di «comunità di destino involontaria», espressione di D’Attorre, è ormai l’obiettivo di una politica consensuale che di fatto non ammette altre alternative. La strada è tracciata e deve essere percepito come sconveniente l’abbandono, che significherebbe incamminarsi nei sentieri accidentati in cui la sovranità è solitudine, un inganno, secondo Mario Draghi.

    Certamente la crisi pandemica ha costituito una cesura ed è stata l’occasione per imprimere una svolta nella costruzione unionista (scelta obbligata, in realtà, perché un’ulteriore indecisione o stato amletico dell’Europa avrebbe portato probabilmente l’intera architettura al collasso). La pandemia, si è detto, ha rappresentato un’accelerazione e una chiusura di un’e­poca, contrassegnata dalla cieca fiducia nella globalizzazione liberista, il cui primo colpo fu assestato dalla crisi economico-finanziaria. Probabilmente le nuove misure dell’Ue lasciano presagire che una riforma della costituzione economica sia in atto (la rimessa in discussione di alcuni tabù, come il divieto del finanziamento del debito, alcuni aspetti riguardanti un’in­giustificata rigidità prociclica nella politica monetaria della Bce). Tuttavia, credo che l’attenzione per la disciplina fiscale ritornerà non appena l’emergenza Covid sarà rientrata. L’insistenza crescente a cui stiamo assistendo, per esempio, sulla distinzione tra «debito buono» e «debito cattivo» è una conferma di come le istituzioni europee non abbiano abbassato la guardia. L’attrito con i cosiddetti Paesi «frugali» (in primis l’Olanda) sul tema delle risorse è destinato a perdurare e rimarcare le divisioni all’interno dell’Ue [9] . I Trattati, del resto, sono rimasti immodificati e il diritto primario di matrice ordoliberale determina anche la legislazione secondaria. Questo è il momento della socializzazione delle perdite. È il momento in cui il lupo neoliberale, nell’ovile della società, deve vestire i panni dell’agnello keynesiano, per non rischiare che tutto salti.

    Venendo più nello specifico al tema del Recovery Plan, alcune osservazioni possono essere formulate. Non è questa la sede per ricostruire il dibattito che ha portato alla decisione del Consiglio del 17-21 luglio 2020, che è stata definita «svolta storica». Chi scrive tende piuttosto a sottolineare una continuità, anche se indubbiamente alcuni passaggi evolutivi ci sono stati. Vorrei qui richiamare l’attenzione piuttosto su due problemi: il primo riguarda la valutazione della sospensione del Patto di stabilità e crescita (Psc) e del divieto di indebitamento degli Stati. Si tratta di una parentesi? Tutto tornerà come prima? Se, al contrario, non si tratta di una mera sospensione, ma di una vera e propria modifica paradigmatica della governance dell’Ue, di che tipo di rinnovamento si tratta? Se prendiamo il Regolamento europeo che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza [10] – una delle dotazioni principali del nuovo pacchetto finanziario – si chiariscono quali sono i traguardi (i risultati qualitativi) e gli obiettivi (i risultati quantitativi), ma soprattutto quali sono le condizionalità al fine dell’ottenimento dei finanziamenti. All’art. 10 si legge: «la Commissione presenta al Consiglio una proposta di sospensione totale o parziale degli impegni di pagamento qualora il Consiglio decida che uno Stato membro non ha adottato misure efficaci per correggere il disavanzo eccessivo», da cui si evince che se lo Stato membro ricevente i fondi non adempie al programma di aggiustamento economico stabilito dalla Commissione andrà incontro a una sospensione totale o parziale dei pagamenti. Viene, quindi, esplicitato che la priorità è nel rafforzamento della competitività e della sostenibilità finanziaria. Qui la «resilienza» si traduce nella capacità di adattamento ai piani di aggiustamento macroeconomico che, presto o tardi, la Commissione sarà tenuta a far rispettare. Inoltre, i «freni di emergenza» che sono previsti lasciano ampio spazio agli Stati membri di intervenire nel

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