Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Donna dalla A alla Zoccola
Donna dalla A alla Zoccola
Donna dalla A alla Zoccola
Ebook207 pages3 hours

Donna dalla A alla Zoccola

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Donna dalla A alla Zoccola. Il dizionario romanzato e leggero che gioca a stanare pregiudizi pesanti. Romanzo di Paola Russo "Barbara era una bambina maschiaccio, è una cosa normale e frequente in questa nostra cultura patriarcale: come molte primogenite femmine soffriva per aver deluso i genitori di non essere nata col pisello." Questo dizionario romanzato semiserio è un alibi per raccontare la sua storia, e la sua storia è un pretesto per smascherare credenze, pregiudizi e comportamenti frutto di un linguaggio che le donne per prime (e forse senza accorgersene), utilizzano e autorizzano. Alfa (nel senso di maschio capobranco), ma anche Milf, Patata e Pisello, Sorellanza, Tette, Vagiaina, e naturalmente Zoccola. Queste sono solo alcune delle 21 voci del vocabolario che si inseriscono con ironia e leggerezza nella linea narrativa di questa women's fiction, con lo scopo di portare l'attenzione sulle parole e il loro effetto. Perché se il linguaggio sviluppa il pensiero, le parole avariate creano idee tossiche.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 17, 2021
ISBN9791220341981
Donna dalla A alla Zoccola

Related to Donna dalla A alla Zoccola

Related ebooks

Contemporary Women's For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Donna dalla A alla Zoccola

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Donna dalla A alla Zoccola - PAOLA RUSSO

    Alfa

    Alfa, nel senso di maschio capobranco. È il suo momento, non si parla d’altro nei webinar di crescita personale, nei corsi di leadership, nei magazine di economia e in quelli di costume. E nei racconti di noi donne. Che spesso e volentieri confondiamo l’alfa col troglodita. O, peggio ancora, critichiamo e disprezziamo l’uomo aspettandolo al varco. Piene di pretese. E vuote di dolcezza.

    Pirla è scritto tutto maiuscolo proprio sopra la sua testa, sul muro della scuola. Lui è già là che mi aspetta, seduto con quella sua faccia di bronzo sul panettone di cemento. È un dissuasore della sosta anche lui, giuro che non ho nessuna voglia neanche di avvicinarmi, figuriamoci di baciarlo, con quella sigaretta sempre in bocca. Si piega in avanti per spegnere il mozzicone, e allora ecco che da dietro esce la scritta completa. Pirla chi legge, il graffito dei graffiti, anzi, la madre di tutti i graffiti accarezza impietosa la testa di mio marito.

    Ma sì, dai, tutto sommato resta un bell’uomo, Federico. Sempre uguale, con quell’aria sana da velista un po’ figlio di puttana, con quei denti che non si capisce come fanno a essere così bianchi visto che fuma. Sì, è vero, adesso divento fastidiosa come una nonna Abelarda con tutte queste critiche silenziose, mute, ciondolanti qua dentro di me, dietro le quinte, dietro questa mia faccia impassibile come un sipario chiuso.

    Non siamo mai riusciti a litigare perché abbiamo sempre pensato che niente fosse importante quanto noi, niente tanto grave.

    A parte il non litigare. Quello non è grave, è letale. In quei silenzi, per salvare il noi, lo abbiamo ucciso. L’abbiamo tenuto in una camera iperbarica, sotto una campana di vetro come faceva Michael Jackson con quel suo corpo che alla fine era diventato una maschera asettica, sintetica, repellente. Come il nostro amore.

    - Amore! - Mi chiama mio marito, con un sorriso mascherato da sorriso.

    Che tristezza, tutta questa civiltà.

    - Sì, ciao, eccomi. Cos’è successo, stavolta? -

    - Ma niente di che, Barbara, vedrai. Bah, la tipa della segreteria è stata molto misteriosa e anche un po’ sadica, al telefono, sai come quando ti chiamano i carabinieri in ufficio e a te ti viene un colpo, ma è solo per chiederti se vuoi comprare il loro calendario. In ambu, invece, senti questa… -

    Intanto che saliamo le scale della scuola di nostro figlio e aspettiamo il nostro turno al colloquio con la professoressa (che ci ha pur sempre convocati d’urgenza, eh!), Federico mi racconta che oggi al suo ambulatorio è arrivata una paziente con un coniglio nella borsa e allora bla e bla. Bleah. Mi hanno sempre fatto tanto ridere le sue storie ma adesso ho come la nausea. Mi sembra sterile e inutile tutto questo buonumore così ostentato, questa distanza emotiva da tutto, questi sentimenti così bene educati. Ah, tutta ‘sta forzatura mi fa girare le palle, ma poi mi passa un flash e mi ricordo improvvisamente di un’uscita geniale di mio fratello da piccolo. Si chiama Federico anche lui ma è l’opposto: selvaggio, cavallo pazzo, nato suonato, sempre alla rovescia. Occhi azzurri e boccoli biondi, un angioletto meravigliosamente indemoniato. Meravigliosamente ingestibile. Avrà avuto tre anni, una signora lo guarda, si innamora, gli fa: diiio che bel bambino, come ti chiami?, lui con un sorriso di dentini strepitoso risponde: rutto.

    - Signori, prego… - ci chiamano, ci alziamo, e prima di entrare nell’aula insegnanti così, lì per lì, ho un’illuminazione.

    Realizzo che devo fare qualcosa, subito!, devo tentare una rianimazione del mio matrimonio, presto!, respirazione bocca a bocca!

    Afferro il braccio di questo bel dottore brizzolato, mezzo dentista e mezzo velista, mezzo marito e mezzo migliore amico, lo guardo fisso negli occhi e gli faccio buuurp!

    - Cosa? Fumavano a scuola? Ma qua siamo al vaneggio, lo zietto si deve troppo ripigliare - fa Marty, mio figlio grande, infilandosi in bocca una forchettata abnorme di pasta al ragù, con quell’aria di sufficienza che si può avere solo a 17 anni e poi per fortuna mai più. - Mio fratello è troppo un coglione. -

    - Martino, non esagerare per cortesia - lo riprende Federico. Marty diventa Martino sempre quando lo riprende Federico.

    - Sì, scusate. Mio fratello è troppo un demente. -

    - No, non intendevo in quel senso. Non esagerare con la reazione. Cosa vuol dire fare il moralizzatore, Martino, cos’è, tu non hai mai fatto cazzate a 14 anni? - lo incalza il padre.

    - E che ne so, era una vita fa. È la mamma la memoria storica della famiglia, mi pare. -

    Lo guardo mentre asciuga le patatine fritte che ha preparato, anzi carbonizzato per noi (ci vuole qualcosa di buono, oggi, per risollevare gli animi, ha detto) e penso a quando faceva le pozioni magiche sul seggiolone mescolando le peggio cose nel bicchiere. Mi emoziono, e mi intristisco, perché Zeno dopo ‘sta storia delle sigarette nei bagni della scuola non è tornato a casa a mangiare e non risponde al telefono. Lo capisco e mi si stringe il cuore. Zeno è ombroso, complicato, emotivo, intenso. Così diverso dal fratello e da tutti noi. Da chi avrà preso, non lo so.

    Marty non molla: - Dai, è allucinante, sono dei pirla, farsi beccare dalle prof nei cessi a fumare. Cioè, ma sei fuori? Io non farei mai una roba del genere, ma sai che alito ti viene, e dopo come cacchio fai a baciare le tipe! -

    Non so com’è ma su questa frase ci giriamo tutti e due a guardare Federico, che ci fa un gestaccio mentre con la mano libera compone un numero sul cellulare borbottando: - Cià che chiamo mio figlio, va’, che è l’unico che mi capisce. Zeno? Sono papi. Sì, no, stai calmo, sì, sì, ti passo la mamma. -

    - Amore. -

    Marty e Federico mi guardano come se avessi sparato a un bambi.

    Allontanando il telefono per non farmi sentire, li fulmino con un:

    - Embè? Cos’è, smette di essere il mio amore proprio adesso che è in difficoltà? Sparecchiate, piuttosto. -

    - Amore, sì, eccomi. Sì, siamo andati a parlare con la Glavina, no, papi è ancora vivo e non è arrabbiato è solo che non… ah, te lo passo. No? Ma non ti preocc… sì, dai, vengo a prenderti ché piove, parliamo dopo. Sì, amore, ti voglio tanto bene anch’io. -

    Parte un rutto da oktoberfest dietro le mie spalle, mi giro e c’è Marty che indica suo padre, con fare innocente. Federico senza dire niente si volta verso il figlio e gli strizza la spugnetta dei piatti in testa. Sembrano Stanlio e Ollio in una delle loro peggiori gag.

    Eccolo. Sotto la pioggia chissà da quanto, con lo zaino ancora in spalla zuppo d’acqua da cui esce il mozzicone di una riga da disegno, sempre senza ombrello o cappello, perché è più da randa. Sì, è nato randagio, Zeno. Un po’ figlio di nessuno come tutti i secondi, come tutti i secondi ha dovuto arrangiarsi, imparare a stare al mondo lottando per un territorio che non sarà mai suo. Stare là con un fratello maggiore sempre tra le palle che fa il capobranco, che fa il maschio alfa anche senza esserlo. Stare là, beta a vita, scodinzolante intorno al despota ad aspettare gli avanzi.

    Una goccia di pioggia scende giù dal ciuffo di capelli che ha sulla fronte, scende giù, sul naso, e disegna il profilo perfetto di questo mio figlio così tormentato, così tumultuoso, così sofferente. E lo capisco così tanto, lo sento così tanto che devo aspettare un attimo a suonare il clacson per richiamare la sua attenzione, perché mi esplode nel petto un gavettone di roba bollente e pesante, una colata densa, lenta, che va in giù e si appoggia sullo stomaco, ma va anche in su, nella gola, nelle orecchie e nelle guance, e fa di tutto per farmi credere che non è niente, che sono solo lacrime.

    Ma mi trattengo, devo, sennò piangerei senza ritegno per questo mio figlio adolescente e per tutti i figli adolescenti di tutti i tempi, me compresa.

    Dopo una giornata così, non mi va di leggere. Decido di andare a letto dove trovo quel bel dottore che ho sposato, quel velista bello anche così stempiato, bello anche con gli occhiali rossi da lettura, anzi ancora di più. E che ormai da una vita fa finta di essere un parente, ci manca solo che mi dia il bacio della buonanotte sulla fronte. Mi monta su un nervoso ma mi controllo, perché sono campionessa mondiale di emozioni abortite.

    - Federico, scusa, cosa hai detto a Zeno? Spero niente ramanzine, lo sai che non funziona, che ottieni solo una chiusura, poi c’è già Marty che lo tartassa e… -

    - Oi! E fammi parlare no? - Mi sfiora la punta del naso e mi sorride, e io che speravo di infastidirlo, e magari buttare in rissa e far su un putiferio e poi far pace come tutti i maschi e le femmine del mondo, eccheccazzo, ma come fanno le altre coppie a tenere alta la temperatura erotica? Le ho provate tutte, ma lui è come se non vibrasse più su questo piano, è come cieco, e sordo, pure se ho su la più frusciante delle sottovesti in raso di seta. Più è frusciante, e più è frustrante.

    - Barbara? Aspetta prima di guardarmi con quel disprezzo là, come se io fossi un cardinale dell’Inquisizione, aspetta di sentire cosa gli ho detto, no? Allora, sì, gli ho detto che non si doveva preoccupare, che essere sospesi a scuola sì è grave ma non è la fine del mondo, che ha fatto una grossa cazzata ma che io lo capisco, perché ne ho fatte così tante anch’io nella vita e tante ne ho ancora da fare, che non dovrà mai avere neanche il dubbio di perdere il mio appoggio. Gli ho detto che deve venire da me a chiedere aiuto senza paura perché sarò il suo papà sempre, anche quando sarà grande. E che la mamma rompe da morire, stai calma…, e si altera che sembra in fattanza come dice Marty ma solo per le cose piccole, come il mettere a posto la stanza e i compiti e i piatti sporchi, perché sulle cose importanti è lucida e tranquilla come un pilota di charter. O almeno così è nel mio immaginario, visto che prendo più aerei che aspirine. -

    Ecco, adesso sei ancora più bello. Brutto stronzo. Adesso mi hai dato il colpo di grazia, la mia frustrazione è addirittura aumentata, se questo è possibile. Mi sembra di essere dietro al vetro di una pasticceria e tu sei una Sacher che non posso più avere. Buonanotte. Meno male che domani è mercoledì. Domani ho tango, che non è proprio proprio una torta al cioccolato ma insomma, un bel succedaneo. Un sostituto del pasto accettabile, dai. Il tango è una barretta energetica consigliata in un regime dietetico ipoerotico.

    In effetti in quel momento sui maschi non è che avessi tanto le idee chiare. Anche per questo, per approfondire la tematica, avevo deciso di iscrivermi a tango. Ma comunque una cosa sul loro conto la sapevo e la so anche adesso, per certo: che siano alfa, beta, analfabeti, spiritualmente evoluti, con un femminino sviluppato o trogloditi, artigiani o intellettuali, tutti indistintamente avvitano troppo stretto la moka quando fanno il caffè. E quindi quando devi svitarla, o ti fai saltare la giugulare per lo sforzo o ti sottometti e chiedi il loro aiuto. Come vuoi che poi, a noi donne, non stiano sui maroni.

    Balle

    Il cellulare suona quando sei alla cassa del supermercato o quando lo lasci di là e vai in bagno, nel 60% dei casi. L’altro 40 % è mentre stai facendo una retro per parcheggiare.

    Se maestra Alice mi chiama già alle 8 e 32, vuol dire che c’è un disastro in asilo. Con l’auricolare che mi cade, un SUV che mi suona e un paletto arrugginito che mi rifà la fiancata, rispondo:

    - Oi, sto arrivando, eh. Che succede? -

    - No, cioè, tu non puoi capire, la mamma di Pierantonio, che due balle, oggi è arrivata con una richiesta che non lo so, guarda, non so cosa fare decidi tu, sei tu il capo. Ma se decidi che è sì, io stavolta mi licenzio, cioè, scusa, è che… -

    - È che adesso intanto ti calmi. Sono qua fuori, apri che ho pure i rotoli di cartoncino e mi cade tutto. -

    Con il gomito abbasso la maniglia della porta, mollo tutto sulla mia scrivania, lancio le scarpe sotto la sedia, sgancio il cancelletto anti-bambino che separa il mio ufficio dalla zona nido e lo richiudo veloce alle mie spalle come un domatore che entra nella gabbia. Pronti, via. Scivolo su un pennarello e allora già che ci sono mi butto in ginocchio, apro le braccia e, come ogni mattina, aspetto di essere travolta dai miei uccellini. E non so se sono più una Biancaneve di Disney o una Tippi Hedren di Hitchcock. In un coro di risate e urla i bimbi dell’asilo mi corrono incontro impazziti, mi abbracciano facendomi il solletico con quel piumaggio incredibile che hanno sulla testa, poi mi stendono a terra e mi camminano sopra ricoprendomi di baci e di bava. È un rituale che amo. E che le maestre odiano, perché interrompe le attività didattiche e eccita i bambini. Faccio un po’ come fanno le nonne, quando ammazzano i nipoti di gelati e caramelle fregandosene delle regole di mamma e papà.

    Maestra Alice arriva al trotto. Si siede sul tavolino celeste piccolo piccolo e appoggia i piedini numero 35 con tanto di calzine antiscivolo a righine rosa e rosso su una seggiolina gialla piccina picciò, e anche se è un topolino di 46 chili sembra enorme, come un’Alice nel paese delle meraviglie.

    - Barbara, devo chiamarla entro 6 minuti per dirle se possiamo farlo o no, e io ti giuro che mi viene da vomitare, io non lo faccio, io… -

    - Alice, calma! Dai, dimmi cosa cavolo vuole stavolta questa mamma. Ou però, è sempre lei, eh, che se ne esce con le richieste più assurde. Dai, allora? -

    Arriva Camilla, l’altra maestra, con un bambino sulle spalle dal quale scende un filo di moccio. Giù dritto e splendente nei favolosi capelli biondi della mia favolosa educatrice. - Sì capo, che schifo, senti questa. -

    Alice attacca, isterica: - Aah! Guarda! Mi ha portato questi contenitori per la coprocoltura, sai cos’è, no?, l’esame delle feci, uuuuh!, bleah!, mi ha chiesto se al momento del cambio del pannolino possiamo aaaaah!, raccogliere un po’ di cacca di Pierantonio… e tu sai com’è la cacca di Pierantonio… ahahhahahah! scusa rido perché sono esaurita, e metterla nel contenitore e consegnare il tutto a lei, alla mamma intendo, a fine giornata. -

    - Ma aspetta, non è finita! - mi fa Camilla passandomi il bimbo che, girando di scatto la testa mi dà una frustata col moccio di prima, il moccio più lungo mai visto in un asilo nido. - E dato che fa già un po’ caldino, indovina dove vorrebbe che tenessimo il vasetto pieno, fino a stasera? Eh, indovina? -

    Guardo verso la cucina, lancio un urlo, le maestre e tutti i bimbi dietro, in un delirio collettivo ormai ingestibile. Facciamo partire una specie di trenino di capodanno cercando di ricomporre la classe di bambini e mentre ci dirigiamo verso i tappetoni morbidi perché adesso basta, si va a fare l’appello, dico alle mie ragazze: - Seeh, pensa se arriva un controllo dell’Asl e trovano nel frigo, in mezzo ai vasetti di yogurt, il barattolino con la produzione di Pierantonio. -

    - Siiiiiiiiiii, veniamo a portarti le arance a San Vittore! -

    - Ecco. Chiama la mamma, e dille che il tuo capo ha detto no. -

    È una vita che sono un capo. Lo ero che avevo ancora le lentiggini e le bionde trecce, quando lavoravo in pubblicità. Ero un art director formato tascabile ma con due balle così, facevo correre gli assistenti che parevano i topini di Cenerentola anche se erano dei marcantoni pieni di tatuaggi. Come quel Ciofanni (era un Giovanni che chiamavamo così perché aveva l’aria del soldato austriaco e perché eravamo un reparto creativo di ventenni dispettosi e goliardici e in effetti c’era un po’ di nonnismo, come in caserma. Lui, Ciofanni, era l’ultimo arrivato quindi gli toccava subire). È stato mio assistente per qualche mese poi ha gettato la spugna, ma non tanto perché avevo scoperto che era daltonico (boh, in fondo Beethoven era sordo, quindi gli avevo scritto

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1