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Hacker Attack
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Ebook299 pages3 hours

Hacker Attack

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Le immagini che fluiscono attraverso gli occhi di Adriana Meis aprono uno squarcio sul percorso che dagli anni '70 conduce ad un inesorabile 2020 ed alla sua distopia. Tratti di colore talvolta abbaglianti ed affondi decisi, paradosso, sentimento e nostalgia, sarcasmo e feroce ironia. Sulla strada che porta ad Est ed attraversa i Balcani ci si accorge che il "Re è nudo" e si ride amaramente della deriva che segna la scomparsa dell'Italia e di quel mondo incantato degli anni '70 che attraversano l'infanzia di Adriana. Sarà possibile scongiurare il futuro distopico che si affaccia alla porta? È possibile immaginare una via di uscita per quella che sembra essere la malattia del tutto simile a quella che provoca la misteriosa sparizione di pezzi di "Fantasia" del celebre romanzo di Michael Ende?
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 17, 2021
ISBN9791220339995
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    Book preview

    Hacker Attack - Adriana Meis

    Indice

    Introduzione

    Umiliati e offesi… Rapinati e vilipesi

    Il Blog di Adriana Meis

    -Non c’è più tempo-

    Sgozzare...? Ma sarà o no femminicidio?

    Polenta a colazione

    La morte e la fanciulla

    E adesso beccatevi questi

    Il terremoto

    La nascita dello Stato secessionista di -Gorgonzuela-Pecorone-

    Camion e Motori

    Altolà – Chi va là – Fermo o sparo!

    Criminali

    Mamma, ho perso la guerra

    Sinistramente disagiati e sepre più mono-neuro-euro-fusi

    UOMO AVVISATO, MEZZO SALVATO

    Hacker Attack

    Adriana Meis

    Titolo | Hacker Attack

    Autore | Adriana Meis

    ISBN | 9791220339995

    © 2020 - Tutti i diritti riservati all’Autore

    L'Autore detiene ogni diritto dell’opera in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6 - 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    DISCLAIMER - LIBERATORIA

    Ogni riferimento a cose, fatti o persone è puramente casuale trattandosi di un libro costituito da racconti non in relazione gli uni con gli altri ed esclusivamente frutto della fantasia, ogni altra considerazione presente nell’opera è puramente speculativa o paradossale, del tutto quindi astratta ed avulsa dalla realtà ed a questa pertanto non riconducibile.

    Introduzione

    Benché costituite da una raccolta di scritti indipendenti l’uno dagli altri, le narrazioni di Adriana Meis si raccolgono attorno ad una nota comune che accompagnerà chi legge attraverso più racconti accomunati dall’analisi dell’evoluzione di un modo di essere e di un sentimento che, partendo da un Amarcord degli anni ’70, ci conduce sino ai giorni di quello che sembra un fatale 2020.

    Descrizioni e racconti, talvolta dal piglio disincantato e canzonatorio ed in altre occasioni, spietati e ferocemente sarcastici, non trascurano però l’umanità del sentimento e della nostalgia, ora denunciando e talvolta dipingendo ciò che eravamo e quello che siamo diventati.

    I pochi tratti di colore o gli affondi decisi che trovano spunto dalle situazioni fantastiche più disparate, non possono che essere anche un momento di analisi e di riflessione dove, pur ridendo del presente con amara rassegnazione non si rinuncia alla fine, a concludere con un messaggio di speranza.

    Sarà davvero un futuro distopico quello che ci attende?

    Ben vengano denunce e dure critiche: aiutano ad aprire gli occhi, ma guai a chi dimentica che provare almeno ad immaginare una via di uscita è sempre un dovere nei confronti di tutti gli altri.

    Слађана Драгичевић

    (Slađana Dragičević)

    L’autore:

    Adriana Meis nata e vissuta a Milano sino all’età di ventisette anni, si laurea all’Università degli Studi nel ‘93. Una volta lasciata la sua città natale, iniziano per lei le peregrinazioni che la porteranno più tardi ad approdare in Serbia dove vive ormai da lungo tempo e dove si occupa di traduzioni e corrispondenza in lingua estera.

    Umiliati e offesi… Rapinati e vilipesi

    Tra i mariuoli e lo Stato chi salvereste?

    Ragioniamo per assurdo ed immaginiamo di vivere in un paese in cui reati come il furto non fossero puniti poiché, nell’ipotesi, non costituirebbero affatto illecito.

    -Come!?- direte voi

    -Non punito!?-

    Eh sì… uno ruba e lo Stato… niente; semplicemente è la legge che non prevede sia punito il furto, sic.

    Anzi, immaginate solo per un attimo di torcere un pelo ad un signore che, sacco sulle spalle, si accinga ad uscire dalla vostra proprietà… Apriti cielo!

    D’altra parte potreste immaginare da soli il resto della favola per vostro esercizio di fantasia o per mancanza di originalità da parte mia.

    La legge, nel mio modello immaginario, in sostanza non direbbe proprio se sia o non sia reato rubare ma direbbe che, semplicemente partendo dall’assunto dell’onestà quale valore universale e che l’uomo sia per sua natura fondamentalmente onesto, si sarebbe tenuti a confidare nelle buone intenzioni del prossimo…

    Cioè, in virtù di questo postulato e persuasi dello stesso, verrebbe detto che il fatto di essere derubati sarebbe il frutto del caso, di una sfortuna o di un incidente di percorso rarissimo quanto improbabile ed imponderabile, oppure colpa unicamente vostra per non essere stati avveduti.

    Suvvia non prendetevela, cose che capitano!

    Ma voi confidate pure nel prossimo, andrà tutto bene.

    Beh in sostanza si direbbe proprio che siate nelle mani degli altri ed una volta incrociate le dita, l’arbitrio a cui sareste soggetti in fondo sarebbe pur sempre quello di una persona onesta, se di arbitrio e di onestà si trattasse.

    In una società così concepita finirebbe per esserci una distinzione tra gente che ruba e gente che non ruba, semplicemente sulla base di convinzioni e volontà personali e non per precise indicazioni contenute in un codice scritto.

    Quelli che rubano poi, si sentirebbero autorizzati a pensare che quegli altri siano dei fessi e con il tempo si svilupperebbe nella loro mente un pregiudizio discriminatorio sui, diciamo, non ladri, che successivamente esiterebbe in un assunto.

    L’assunto è quello ben noto nella società reale da me definito e denominato come: quello della presunzione dell’imbecillità altrui.

    Certo che, una volta capito il sistema, sarebbe ingenuo limitarsi a confidare e forse un minimo di prevenzione non guasterebbe, non sarebbe forse così?

    Ma torniamo al mondo reale dove il furto è invece considerato reato:

    I ladri?

    Fanno il loro mestiere: cioè rubano.

    È forse cosa di cui stupirsi?

    Questi che rubano tengono forse lezioni di morale o di filosofia? A volte forse sì (di questi tempi), ma piuttosto giudicherei normale che la loro preoccupazione principale e professionale fosse piuttosto quella di non farsi acchiappare… altrimenti sarebbero professori e non ladri, non vi pare?

    E come giudichereste chi li lascia fare senza batter ciglio?

    E nell’ipotetico Sistema da me immaginato?

    L’intellighenzia di un tale Sistema sarebbe sicuramente tutta impegnata ad istruirvi sulle maraviglie del proprio costrutto, non abbiatene dubbio.

    D’altra parte, ciascuno svolge al meglio la propria occupazione e quella del Signor ladro è attività ben riconoscibile e descrivibile. Vi stupireste del postino che consegna la posta o del fornaio che sforna il pane?

    No di certo!

    Allora torniamo al dubbio iniziale:

    Il Ladro o il Sistema?

    Io sarei sicuro nel dire chi salverei, voi?

    E mi raccomando, ricordate: tutto naturalmente nell’interesse esclusivo del Bambino....

    Il Blog di Adriana Meis

    Avrai visto che a Kraljevo ci sono due fiumi, l’Ibar ed il Morava… lo sai perché nell’Ibar hai pure fatto il bagno.

    Quell’acqua che hai visto scorrere viene da lontano e la riva piena di sassolini dove sei stato è quella del giorno fatto, quella del caldo di Agosto e di quando sei andato tu con gli altri bambini ed hai visto tanta gente sulla spiaggia ed acque fresche e pulite proprio accanto a Краљево (Kraljevo).

    Più indietro vi sono altre spiagge, boschi, curve ed anse più larghe dove il fiume rallenta, quasi a formare un lago; lì albeggiava ma, lontano dalla spiaggia dove sei stato tu, non si distinguevano ancora bene gli alberi curvi sull’acqua, con le loro sagome scure, mentre grossi pesci aspettavano sotto le foglie. L’acqua ne sapeva qualche cosa passando di là con il suo pigro ribollire ed un pescatore osservava dalla riva il più vicino formarsi di tanti piccoli cerchietti.

    Chi sa quanto si sono guardate allo specchio tutte quelle ragazze che la sera scorrono per le vie del centro…

    L’inverno scorso gli occhi chiari e slavati del mio compagno si illuminavano sornioni quando, la sera, tra le volute di fumo di una sigaretta ed appena nascosto dal bicchiere di birra, lui diceva compiaciuto e con fare sarcastico:

    -Vedrai, vedrai… verrà l’estate ed allora tutti saranno là fuori, lungo il fiume e per le strade…  a giocare per la strada vedremo anche tanti bambini…-

    …Che in questo paese triste non ci sono o che stanno serrati in casa per la paura o per la malfidenza dei genitori o viaggiano chiusi in macchina ben protetti e sicuri sui loro seggiolini per raggiungere fantastiche mete od appuntamenti scrupolosamente predeterminati, pianificati.

    Tutto questo mi sembrava lontano e di una realtà paesana tutto sommato poco interessante e comunque ben più forte era la foga impiegata nel tracannare birra e Kebab.

    Fuori era freddo, buio ed il caffè che avrei bevuto in un sorso poco dopo, era quanto mi separava ancora dalla pausa successiva prima di pagare il conto ed uscire in strada, poi subito a casa ad acquattarmi nel letto per non pensare troppo al futuro ma piuttosto a quel torpore rassicurante, come sarebbe stato in quella piccola nicchia senza tempo.

    Quando ero bambino io ed avevo giusto la tua età, i seggiolini per auto non esistevano ancora ed avevamo una bellissima giardinetta verde scuro con due fanali che sembravano due occhioni e noi bambini dietro, perché così era più sicuro, che giocavamo a ribaltarci ad ogni curva; noi eravamo i bambini del palazzo e bastava così poco per imbucarci ora sulla macchina dell’uno ora nella casa dell’altro ma, la mia amica del cuore era la Chicca: io e lei stavamo sempre insieme; lei era bellissima.

    Quella bambina dai capelli castani, lunghi e lisci era un po’ più grande di me ed aveva sempre voglia di ridere.

    La sua risata contagiosa ci portava a ridere di ogni parola, dei grandi, della cagnolina Carmencita, dei nomi o dei soprannomi come quello di Sisso, l’amico del nonno che immaginavamo parlasse sibilando ed anteponendo sempre a tutto una bella, abbondante e sonora ESSE.

    Le risate erano spesso irrefrenabili e lei aveva il musino allegro della cagnolina Carmencita che forse vidi solo una volta, ma che era ormai divenuta l’icona di tutto quello che di tenero e buffo si potesse immaginare; così era la Chicca con il sole nel viso vispo e negli occhi, mentre imitava la fantastica Carmencita, seduta sulle gambe dietro e con le zampine davanti in posa.

    La vedevo dalla mia finestra incorniciata in quella dell’appartamento di fronte, quando la salutavo, subito le facevo segno di venire da me e quando annuiva, con impazienza attendevo giusto il tempo che attraversasse l’androne per sentirla suonare alla porta.

    Laggiù c’era la patria lontana dei miei compagni e dove il mio amico descriveva esserci una specie di acquario pieno di pesci colorati e che un bel giorno, all’inizio della primavera, si sarebbe rotto riversando per le strade di Краљево (Kraljevo) tutta la sua giovane vitalità femminile.

    Il tempo però allora si era fermato e l’estate, se anche fosse arrivata, a me evocava solo giorni caliginosi tutti uguali e l’idea dell’insofferenza e del rigirarsi fra lenzuola fradicie di sudore.

    Piuttosto pensavo a come si sarebbe concluso l’anno, e… speriamo che tutto vada bene.

    Eh l’estate, il momento della grande liberazione scolastica, l’odiata stagione dell’asfalto líquido e della luce abbagliante bianca e nemica riflessa dal traffico… luce assordante e chiassosa di polveri e gas.

    Ma il tempo è trascorso anche sulle estati dalle giornate lunghe, dalle serate fresche e dalle notti quiete con le finestre aperte: quando avevo la tua età, la nonna mi metteva a letto e nella via le macchine scorrevano sibilando o scoppiettando ovattate e quel suono, là nella strada, a rassicurarmi, si faceva sempre più lontano sino a diventare il sussurro di una voce amica.

    Le mattine d’estate quando mi svegliavo a casa dei miei nonni, al Roncaccio, era una luce d’oro, che filtrando listata dalle persiane, mi avrebbe ricordato che a colazione mi aspettavano per qualche cosa di bello…

    Quella casa era grande come un castello: lunghissimi corridoi e stanze che si aprivano su altrettanti ingressi ed ancora, c’erano camerette lontane e chiuse da tempo dall’odore di legno, resina o di vecchie vernici.

    Là in fondo si celavano antiche abitudini e potevano rivivere, nella mia fantasia, ricordi di altri affanni, premure, entusiasmi e stupori di chissà quali fanciullezze o gioventù; poi, dopo aver respirato quell’aria ritornavo alla luce intensa, calda e bionda che da tanti vetri e finestre di tutte le forme mostrava, ora una grande scala di legno, ora i colori dei tappeti del salone dove i cilindri d’oro del piatto del vecchio giradischi del nonno danzavano a ritmo di musica ed un uomo grande e severo, chino su quella giostra con una fitta chioma di capelli bianchi, era già all’opera.

    Sui tappeti c’erano mille strade tra fiori e foglie colorate ed ancora più in là alte credenze, armadi e vetrine che raccontavano fiabe di antiche campagne e di frutti strani come i melograni o antichi come l’uva od ancora di uomini come il vecchio Pietro, dal linguaggio incomprensibile e misterioso, che sibilava tra i denti scuri forse il futuro o forse antichissimi fatti e storie che solo il nonno, con i suoi capelli bianchi e la sua aria austera e compresa, sapeva cogliere quando lui, Pietro, ansimando si appoggiava al rastrello in un legno tutto nodi, contorto come le sue stesse braccia intorno al manico; il petto, come un vecchio mantice, andava su e giù mentre raccontava con un respirare sonoro, quasi asmatico.

    Sì, sì così dovevano essere tutti i contadini specie quando si appoggiavano al rastrello con una gamba flessa ed un piede appoggiato sulla punta, ricordando il gesto dei cani quando fanno pipì contro le piante.

    Tu non crederai ma pure il vecchio Pietro diceva di avermi visto piccolissimo ma così piccolo che non mi ricordo nemmeno io e che, figurati un po’, ero riuscito a mordere un’orecchio al povero Hippy che avevo soprannominato Lo Zampillante per lo strano modo con cui correva con le sue zampe lunghe e dritte come stecchini che buttava qua e là al trotto…

    Povero Zampillante!

    Pietro mentre diceva tutte queste cose aveva un odore come di selvatico e di vigna… forse perché, casa sua doveva essere un posto collocato dentro un prato vicinissimo ad un lago, forse proprio quello di Sartirana che i nonni nominavano sempre, dove sicuramente doveva esserci una fortissima umidità tanto da costringere il vecchio Pietro, quando pioveva forte, ad andare a letto con l’ombrello: chissà se alla fine gli riusciva di non far bagnare le coperte!

    Mentre lui raccontava tutte queste cose gli occhi scuri e vispi ammiccavano e quasi mi sembrava brillassero su quel volto che mi ricordava le pagnotte di Milano, le profumatissime michette.

    Le pagnotte di Milano, le michette, erano buonissime però i nonni compravano un altro pane e la nonna lo conservava caldo in un cestino dal quale lo prelevava con pinze d’argento dopo averlo messo a scaldare vicino al fuoco del camino in veranda:

    -Questo è il pane francese!- così mi spiegò un giorno la nonna.

    In tutte quelle sale mi sarei perso, se non fossero state piene della musica del nonno e del suono delle voci femminili che riecheggiavano di tutte le esclamazioni garrule della nonna e che riempivano la cucina e si spandevano in tutta la casa come un allegro cinguettio, insieme ai profumi con l’approssimarsi dell’ora di pranzo.

    La cucina era enorme, misteriosa e magnifica, con due armadi a muro altissimi che odoravano di farina quando si fosse aperta una delle due ante lunghe e strette.

    Un giorno ci feci entrare il gatto che si accomodò accoccolandosi sui sacchetti di pasta e così, con le unghie riuscì ad aprirli tutti… lì acquattato guardava facendo scricchiolare i pacchi sotto i polpastrelli delle sue grosse zampe tutto impegnato e con fusa ben sonore, Bartolomeo.

    Nella veranda invece c’era sempre l’odore grato del camino dove il fuoco bruciava puntuale per l’ora di pranzo con le alte vampate delle fascine fatte dalle sarmenti delle viti. Le lingue di fuoco come braccia protese salivano su per la cappa del camino e crepitavano esplodendo in scintille, fino a che la nonna ne raccoglieva le braci per cuocere quanto già aveva sobriamente disposto in un ovale con qualche foglia di alloro e rametto di rosmarino che aveva giusto raccolto la mattina dopo aver reciso anche qualche rosa.

    Quanti mazzolini di margherite di campo e di Non ti scordar di me avevo anche io raccolto per quella mia affettuosa e fragile fatina.

    La veranda aveva un lato tutto vetri e pesanti tende cerate, verde scuro, scolorite dal sole e dal tempo ed un enorme camino dove avrei potuto sdraiarmici dentro bello e disteso; sul fondo annerito in ferro battuto, avevano lavorato dalla fucina di un fabbro, come forse non ce ne sono più e dove uomini con poche unghie nere si aggiravano con occhi sporgenti ed arrossati attorno a grandi ruote di ferro mentre dal soffitto partono tra sibili e ritmici schiocchi larghe cinghie di pelle a farle girare; sotto il maglio, così messo in moto da quelle pulegge, il ferro rosso si sbriciola e si presta alla forma come il caramello negli stampi di rame, forse proprio come quelli appesi al muro di quella cucina avvolta dallo stesso mistero di quelle vecchie e grandi fucine.

    Veniva finalmente il giorno in cui si preparavano gli gnocchi di patate e tu sai bene quanto lavoro serve, come quella volta qualche anno fa quando abbiamo sporcato tutta la cucina, però quelli fatti in casa sono così buoni e profumati di farina e patate come e più del profumo del pane sfornato o del pane carasau, arrostito in forno con sale olio e rosmarino; allora, tutta la mattina cuocevano le patate ma non mi azzardavo ad avvicinarmi a quella fucina se non lungo il corridoio dello scalone di legno sino quasi alla porta, per poi fuggirmene verso la luce del soggiorno all’improvviso, nell’udire il forte sibilo del vapore del vecchio pentolone a pressione.

    Sembrava che la pentola magica delle patate si spazientisse proprio nel vedere avvicinarsi noi bambini, ed allora sì, sì che ci zittiva interrompendo i suoi ritmici sbuffi con quello fortissimo:

    -Ssssssssssh!-

    -"Bambini, Bambini andate via,

    qui si compie una magia, questo è quasi

    il calderone per cucinar Pierino Pierone!"-

    Ma dietro alla porta non c’era certo la voce della Strega Bistrega, ma quella rassicurante e musicale della nonna Nice e della brava Anita che riempivano la cucina con le loro sonore e tinnule esclamazioni.

    Così si arrabbiava anche la pompa del pozzo che sputava fuori l’acqua facendo balzar lontano noi bambini già turbati nel vedere il brutto muso di ghisa tutto allori e labbra spesse della fontana…

    Però prima non era così ed al pozzo si poteva andare con due secchielli che si calavan giù con la catena, quella brava donna della Diva se ne andava giù fin là al trotto, con due secchi vuoti come fanno quelle che hanno le ciabatte nei piedi buttando qua e là le gambe, quasi a voler far compagnia all’andatura del povero Zampillante.

    Così alla fine è arrivata l’estate e anche noi siamo stati sputati fuori a Краљево (Kraljevo) ma la mattina del giorno in cui potevi andare sul fiume a pescare tu eri già in montagna, peccato, e pensare che proprio quella mattina è stato preso un pesce bello grosso, chi sa come ti sarebbe piaciuto.

    Pescare è una abitudine, non uno sport, un’abitudine di tutti quelli che qui hanno del tempo libero, così come altri vanno al bar.

    Pescare è come guardarsi allo specchio, è come aspettare che il tempo dica la sua rivelando ciò che si agita laggiù in qualche profondità lontana e nascosta dalla calma della coltre d’acqua.

    La lenza continuava a scorrere lasca sotto il palmo della mano sino a che con le dita lasciò scattare l’archetto, piombi e galleggiante si conficcarono nell’acqua di velluto con la precisione delle freccette da tiro a segno e con un suono breve, netto, ma pieno e cupo…

    La superficie dell’acqua sembrava immobile e senza increspature, in quel punto quasi non rivelava la turbolenza che, per la corrente del fiume, la muoveva dal fondo verso la superficie ad allargarsi fino a schiudersi come l’ombrello di enormi funghi o teste di cavolfiori.

    In quella verde quiete dietro, ma come venisse da

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