Me ne basta la metà
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Book preview
Me ne basta la metà - Giulia Fucile e Irene Pica
Capitolo 1
Irene
Mio padre è maldestro. Traduzione: incapace, inabile. Incapace a dimostrare affetto. Inabile a parlare. Un anno di terapia da una psicoterapeuta per capire che mio padre è maldestro. Capire che ossessionarmi su cosa mangiare a pranzo e a cena era il suo modo di dimostrarmi quanto tenesse a me e che mi vuole bene. Ma poi perché un padre non dovrebbe volere bene ad una figlia? Eppure me lo sono chiesto. E adesso che ho trovato le risposte, che ne sono consapevole, mi sento quasi in colpa. In colpa per tutte le volte che ho odiato il suo comportamento, il suo non preoccuparsi di dove ero o restavo a dormire quando non rientravo a casa, il suo non fare domande sul ragazzo che frequentavo, di non accorgersi di tutte le volte che piangevo in camera, degli incubi che ho fatto per anni, di non capire che mi sentivo sola, di non parlarmi o chiedermi semplicemente come stavo. Poi ho capito che probabilmente quello che lo avrebbe spaventato di più sarebbe stato proprio sapere come stavo, vedere il vuoto che avevo dentro, diventare consapevole che non avrebbe mai potuto sostituire mia madre. Realizzare che il suo vuoto forse era grande quanto il mio, se non di più. E nel vuoto e nel buio ci si perde e, probabilmente, non era pronto a farlo. Ho capito che avrebbe avuto paura del rancore che provavo per lui, per non averci protetto come avrei sperato, per averci fatto prendere decisioni importanti che non ci spettavano.
Ho capito che ognuno ha il suo modo di reagire al dolore. Ogni giorno interpretiamo il ruolo di qualcuno per la necessità di stare in equilibrio. Qual è stato il ruolo che ho scelto? Beh… sono stata un po’ figlia arrabbiata, un po’ madre indaffarata e un po’ moglie preoccupata. Per poi un giorno mettere da parte ogni ruolo e capire chi sono. Mi chiamo Irene, ho ventinove anni, sono un’infermiera, una donna, un’ex pallavolista e attualmente allenatrice, faccio parte di un’associazione di volontariato, amo il colore giallo, odio chi mente e chi non si schiera mai da nessuna parte, so ascoltare (l’ho capito perché chiunque mi racconta qualsiasi cosa della sua vita). Sono passionale, dico sempre di non volere figli ma non vedo l’ora di diventare zia, piango per un cartone animato ma non sopporto chi si piange addosso. Non credo nei per sempre e nell’amore eterno, gli unici veri amori: mio fratello e mia sorella. E soprattutto ho capito che mio padre è maldestro e che il vuoto che ha lasciato mia madre non lo potrà mai colmare niente e nessuno. Ma quando sei consapevole tutto ha un altro sapore; tutto ha un altro colore. Non ti arrabbi più per una tazzina di caffè sporca lasciata sul piano della cucina. Non puoi perché sai che quando entri nella tua camera ci sono scarpe ovunque (quando qualcuno ti aveva pregato di metterle a posto). Non ti arrabbi più per la spesa presa e buttata a caso sul tavolo anche se, sempre quel qualcuno, poi ti sgrida come da piccola perché giri ancora scalza per casa. Ma quanto è bello il pavimento freddo sotto i piedi bollenti quando esci dal calduccio del letto e poi ci rientri subito dopo con i piedi infreddoliti? Ovviamente tuo padre non può sapere quanto è bella quella sensazione: semplicemente, perché non glielo hai mai detto. Buon uso vuole che non si rientri con i piedi sporchi nel letto pulito. Ma tu continui a farlo, così come continui a mettere a posto la spesa quando la trovi sul tavolo, a pulire la macchia di caffè che ha lasciato la tazzina sul mobile, a non mettere a posto le scarpe perché è più comodo averle tutte lì sotto mano. O sotto piede.
È difficile la convivenza. Con chiunque, soprattutto quando da un giorno all’altro hai avuto paura di dover essere figlia, madre e moglie. Quando hai e hai avuto paura di parlare e di mostrarti per quello che sei. Quando preferisci un sorriso al silenzio assordante di una lacrima che scende dagli occhi. Quando non sapevi chi eri. Ma adesso lo sai. Piacere, io sono Irene.
Nina
Un minuto alle sette. Guardo, senza sorprendermi, l’ora sul display del mio nuovo smartphone. Il cane dei vicini sta già, puntuale, abbaiando. Che strano, gli esseri umani e non alla fine scandiscono il proprio ritmo di vita nello stesso abitudinario modo. Fuori dalla routine siamo solo criceti fuori tempo, fuori ruota, fuori contesto.
Dove è finito?
, penso anche stamattina mentre cerco il mio elastico sul comodino, alzo piano la testa dal cuscino e lego come sempre di fretta i miei capelli spettinati. Uno, due, tre...
. Non ho sonno, ma la voglia di affrontare un’altra ennesima stessa giornata è pari a zero. Se non meno.
On, cialda, tazzina, azione. Il caffè inizia a scendere, il sole a fare capolino nel salotto. E con lui tutti i pensieri che da tempo, troppo tempo, mi porto dietro. Mi sento addosso. Scosto la tenda e guardo la mia vicina annaffiare una camelia giapponese in fiore con la stessa serenità stampata in volto. Beata lei
, penso.
Chissà quando tutto questo è iniziato. Quando la serenità è sparita dal mio viso, prendendosi gioco di me e non facendosi più trovare. Piantandomi in asso da sola con me stessa e mille altre paure. Forse ci sono nata così, o forse no. O forse è stato proprio in quel lontano primo post sbornia, post cuore infranto, che ho rinunciato a vivere e iniziato semplicemente ad esistere. A farmi scorrere tra le dita la vita, a farmi travolgere dagli eventi, a perdermi. A perdermi in una quotidianità scritta dai fatti, scritta dagli altri.
La tazzina intanto si è riempita per metà, la metà che basta. Bevo velocemente, giusto il tempo di finire il caffè e accendere il computer. Ventuno e-mail da aprire: Bene, la giornata è ufficialmente cominciata
.
Come mi ci sono ritrovata in questo angolo di mondo è difficile da dirsi. Io che dormivo solo con il tran tran del traffico, che amavo le vetrine dei grandi stores, i ristoranti con i fiorai dentro, i dolci mangiati al tea room. Quanto mi manca quella folle Nina. L’unica persona con cui viviamo tutta la vita in fondo siamo solo noi stessi. La mia vulnerabilità mi ha sempre preso in fallo, trovata nei momenti sbagliati portandomi a trarre conclusioni affrettate. E a volte impulsive. In appena ventinove anni di vita ho cambiato più uomini di quanti se ne contano sulle dita di una mano, truccato faccia e vita troppe volte. Sono entrata ed uscita dai letti con una leggerezza solo apparente. E anche stavolta è stato un uomo a condurmi qui, con la testa e con il cuore, su una sedia di pelle nera d’ufficio che non mi piace. Quanto minimalismo.
L’ha scelta Elvis questa sedia e si vede. È giusta come lui e il suo modo di stare al mondo. Di saper stare al mondo, sempre. Niente fiocchi, balze, toni pastello o merletti. Niente velluto e soprattutto no, niente color ceruleo. Ma solo una buona sedia da ufficio per chi ci resta a sedere a lungo. Come me. Lo so, farmi stare bene è un gesto d’amore. Ma almeno un fiocco qua e là…
E sull’altalena dei miei continui pensieri, su e giù sulle mie contraddizioni, dalla mia vita in movimento, io non so più scendere.
Capitolo 2
Irene
Driiiiin… driiiin. Suona la campanella. È finita la lezione. È finito un altro giorno sedute come sempre al banco di scuola. Con in testa pensieri da adolescenti e sogni da grandi. Con la voglia di scoprire cose nuove e la testardaggine di desiderare sempre di più. Tra gli sguardi scambiati con il ragazzo che ti piace e una scrittina
sul diario. Quel diario che sembrava custodire e proteggere tanti segreti, ma che in realtà era solo la nostra piccola opera d'arte.
Prendiamo le ultime cose rimaste sul banco, chiudiamo la cartella e usciamo da scuola. Chiacchiericci, urla, corse per aggiudicarsi il posto migliore sul bus che ci avrebbe riportati a casa. Sono le 13:30 e ti saluto frettolosamente con un Ciao, ci sentiamo dopo
, già sicura che quel dopo sarebbe arrivato davvero poco dopo.
Sono solo le 14:15, il telefono di casa tua sta già squillando:
«Ciao Pasquale sono Irene c’è Nina?»
«Siete un mistero della Natura! Che cosa vi dovrete mai dire? Siete uscite adesso da scuola! Comunque certo che c’è, te la passo…» e mentre resto in linea ad aspettarti, dalla cornetta sento un affettuoso «Ninaaa! Vieni, c’è la tua Dolce Metà al telefono». Con un sorriso sul mio volto, penso che Pasquale non avrebbe potuto darci nome migliore, un nomignolo che ancora dopo molti anni ci portiamo dietro.
Qualcuno mi diceva sempre di credere nell’amicizia più che nell’amore, che i veri amici restano al tuo fianco mentre gli amori vanno e vengono, a volte brevi ma intensi, a volte lunghi e stancanti. Sempre questo qualcuno, mi diceva che gli amici ti tendono la mano e non importa quanto siano presenti fisicamente, loro ci sono con il cuore. Così io ho deciso di seguire i consigli di quel qualcuno. Come si può non ascoltare la propria mamma? Fin da piccola quindi ho dato importanza all’amicizia. Ci ho creduto così tanto da rimanere delusa, da sentirmi sconfitta, da perdermi, da provare solo odio. Ma ci ho creduto così tanto anche da trovare quello che mia madre mi diceva di cercare. Nina. Quella persona che mi ha teso la mano e non me l’ha più lasciata. Nella stessa classe dalla prima elementare, lei occhi e capelli neri e pelle olivastra, io paffutella lentigginosa, bambina dalla carnagione molto chiara: così diverse da risultare perfettamente strane insieme. Perfettamente perfette.
Inconsapevoli che passando alle scuole medie le nostre vite si sarebbero intrecciate per mai slegarsi. Capitate nella stessa classe per sbaglio, separate dalle nostre solite amiche, ci siamo fatte forza a vicenda. Da lì, l’una la spalla dell’altra.
Sento ancora la tua presa forte della mano sulla mia, Nina. Era aprile. Il 26 aprile 2012. Il cielo coperto da nubi che si alternavano a raggi di sole. Era caldo, o forse così mi sembrava. Indossavo un maglioncino di cotone rosa e dei pantaloni beige a fiori. Chi lo dice che a un funerale dobbiamo vestirci di nero? Non servono lunghi abiti scuri e grandi veli sulla testa a dimostrare il dolore che si sente dentro. Io riuscivo solo a vedere i miei piedi. Eppure l’unica cosa che non ricordo è il colore delle mie scarpe. Destro, sinistro destro, sinistro… uno dopo l’altro. Interminabili. Dietro a me una folla di gente. Tanta gente. Così tanta da non ricordarmi nemmeno un volto. Così tanta da non ricordare nemmeno un suono. Come essere sott’acqua quando apri gli occhi e non vedi niente, quando provi a capire le parole di chi sta fuori ma ti rendi conto che è impossibile, allora ti rassegni e inizi ad apprezzare quella sensazione di pace. L’unica cosa che mi teneva ben salda alla realtà era quella stretta di mano. L’unica cosa che mi faceva respirare era il tuo anello tra le mie dita, mamma. Sì