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Le miniere di Re Salomone: Allan Quatermain
Le miniere di Re Salomone: Allan Quatermain
Le miniere di Re Salomone: Allan Quatermain
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Le miniere di Re Salomone: Allan Quatermain

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About this ebook

Quando Allan Quatermain, famoso cacciatore di elefanti nel Sud Africa coloniale, viene avvicinato da Sir Henry Curtis perché lo aiuti a trovare il suo fratello minore scomparso, Allan è titubante, perché sa che Curtis intende avventurarsi alla ricerca delle "Miniere di Salomone", dove in molti hanno perso la vita.
Quatermain alla fine accetta, e seguendo una mappa vecchia di trecento anni si ritrova in una terra sconosciuta, abitata dal popolo di guerrieri Kukuana, guidati dal sanguinario re Twala…
Primo volume delle avventure di Allan Quatermain, sin dalla pubblicazione nel 1885 "Le miniere di Re Salomone" è diventato un classico immortale dell'avventura, nonché il capostipite dei romanzi sui "mondi perduti".
LanguageItaliano
Release dateJul 1, 2021
ISBN9791280243157
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    Book preview

    Le miniere di Re Salomone - Henry Rider Haggard

    Introduzione

    Ora che questo libro è stampato e sta per essere reso pubblico, mi pesa molto la consapevolezza delle sue carenze sia nello stile che nel contenuto. Per quanto riguarda quest’ultimo, posso solo dire che non pretende di fornire un resoconto dettagliato di tutto ciò che abbiamo fatto e visto. Ci sono molte cose legate al nostro viaggio nel paese dei Kukuana su cui avrei voluto soffermarmi a lungo e che, invece, sono appena accennate. Tra queste ci sono le curiose leggende che ho raccolto sull’armatura di maglia metallica che ci salvò dalla distruzione nella grande battaglia di Loo, e anche sui Silenziosi, i Colossi all’entrata della grotta di stalattiti. Ancora, se avessi ceduto ai miei impulsi, avrei voluto approfondire le differenze, alcune delle quali sono a mio avviso molto suggestive, tra i dialetti Zulu e Kukuana. Qualche pagina avrebbe anche potuto essere dedicata con profitto alla considerazione della flora e della fauna indigene del paese dei Kukuana¹. Rimane poi l’argomento più interessante – che è stato toccato solo incidentalmente – del magnifico sistema di organizzazione militare in vigore in quel paese, che, a mio parere, è molto superiore a quello inaugurato da Chaka nello Zululand, in quanto permette una mobilitazione ancora più rapida, e non richiede l’impiego del pernicioso sistema del celibato forzato. Infine, ho solo accennato ai costumi domestici e familiari dei Kukuana, molti dei quali sono estremamente pittoreschi, o della loro abilità nell’arte di fondere e saldare i metalli. Questa scienza raggiunge una notevole perfezione, di cui un buon esempio è rappresentato dai loro tolla, o pesanti coltelli da lancio, il cui dorso è fatto di ferro battuto e i bordi di un bell’acciaio saldato con grande abilità ai telai di ferro. Il punto è che ho pensato, così come Sir Henry Curtis e il capitano Good, che la cosa migliore sarebbe stata quella di raccontare la mia storia in modo semplice e diretto, e lasciare che queste questioni fossero trattate in seguito, nei modi che alla fine possano apparire adatti. Nel frattempo, naturalmente, sarò lieto di dare tutte le informazioni in mio potere a chiunque sia interessato a queste cose.

    E ora non mi resta che scusarmi per il mio modo schietto di scrivere. Posso solo dire che sono più abituato a maneggiare un fucile che una penna, e non posso promettere i grandi voli letterari e le ricercatezze che vedo nei romanzi – sì, a volte mi piace leggere un romanzo. Suppongo che i voli e le ricercatezze siano desiderabili, e mi dispiace non essere in grado di fornirli; ma allo stesso tempo non posso fare a meno di pensare che le cose semplici sono sempre le più impressionanti, e che i libri sono più facili da capire quando sono scritti in un linguaggio semplice, anche se forse non ho il diritto di stabilire un’opinione su una tale questione. Una lancia affilata, dice un proverbio Kukuana, non ha bisogno di essere lucidata; e basandomi sullo stesso principio mi azzardo a sperare che una storia vera, per quanto strana possa essere, non abbia bisogno di essere adornata con belle parole.

    Allan Quatermain


    ¹ Ho scoperto otto varietà di antilopi, che prima non conoscevo affatto, e molte nuove specie di piante, per la maggior parte della famiglia delle bulbose (A. Q.)

    I.

    Il mio incontro con Sir Henry Curtis

    È curioso che alla mia età – cinquantacinque anni compiuti – mi trovi a prendere in mano una penna per cercare di scrivere una storia. Mi chiedo che tipo di storia sarà quando l’avrò finita, se mai arriverò alla fine! Ho fatto molte cose nella mia vita, che mi sembra lunga, forse perché ho iniziato a lavorare molto giovane. All’età in cui gli altri ragazzi erano a scuola, mi guadagnavo da vivere come mercante nella vecchia colonia. Da allora ho continuato a commerciare, cacciare, combattere o scavare. Eppure sono solo otto mesi che ho fatto fortuna. È un bel gruzzolo ora che l’ho ottenuto – non so ancora a quanto ammonti – ma non credo che ripeterei quanto fatto negli ultimi quindici o sedici mesi per averlo; no, nemmeno se sapessi che alla fine ne uscirei salvo, gruzzolo e tutto. Ma io sono un uomo timido, e non amo la violenza; e poi, sono quasi stufo di avventure. Mi chiedo perché mi accingo a scrivere questo libro: non è nel mio carattere. Non sono un letterato, anche se sono molto devoto al Vecchio Testamento e anche alle leggende di Ingoldsby. Lasciatemi provare a esporre le mie ragioni, solo per vedere se ne ho.

    Prima ragione: perché Sir Henry Curtis e il capitano John Good me l’hanno chiesto.

    Secondo motivo: perché sono qui a letto a Durban con questo dolore alla gamba sinistra. Da quando quel maledetto leone mi ha azzannato, sono stato soggetto a questo problema, che oggi mi fa zoppicare più che mai. Ci deve essere del veleno nei denti di un leone, altrimenti com’è che quando le tue ferite sono guarite ricompaiono, generalmente, fateci caso, nello stesso periodo dell’anno in cui sei stato sbranato? È difficile quando uno ha sparato a sessantacinque leoni o più, come ho fatto io nel corso della mia vita, che il sessantaseiesimo ti morda la gamba come una cicca di tabacco. Interrompe la routine, e mettendo da parte altre considerazioni, io sono un uomo ordinato e la cosa non mi piace. Detto per inciso.

    Terza ragione: perché voglio che mio figlio Harry, che è laggiù all’ospedale di Londra a studiare per diventare un medico, abbia qualcosa che lo diverta e lo tenga lontano dai guai per una settimana o giù di lì. Il lavoro in ospedale a volte deve deprimere e diventare piuttosto noioso, perché anche sezionando i cadaveri si può arrivare a non poterne più, e siccome questa storia, qualunque cosa possa essere, di certo non sarà noiosa, darà un po’ di vita alle cose per un giorno o due mentre Harry legge le nostre avventure.

    Quarta e ultima ragione: sto per raccontare la storia più strana che io ricordi. Può sembrare una cosa singolare da dire, soprattutto considerando che non c’è nessuna donna coinvolta – tranne Foulata. Però c’è Gagool, se fosse una donna e non un demonio. Ma aveva almeno cento anni, e quindi non era in età da marito, quindi non la conto. In ogni caso, posso dire con certezza che non c’è una sottana in tutta la storia.

    Bene, è meglio che venga al sodo. È un compito arduo, e mi sento come se fossi impantanato fino all’asse. Ma, sutjes, sutjes, come dicono i boeri – sono sicuro di non sapere come si scrive – pian piano si fa. Una squadra forte alla fine ce la fa, se non è troppo scarsa. Non si può mai fare nulla con dei buoi scarsi. E ora cominciamo.

    Io, Allan Quatermain, di Durban, Natal, gentiluomo, giuro di dire… È così che ho iniziato la mia deposizione davanti al magistrato sulle tristi morti del povero Khiva e di Ventvögel; ma in qualche modo non sembra proprio il modo giusto per iniziare una storia. E poi, sono forse un gentiluomo? Cos’è un gentiluomo? Non lo so bene, eppure ho avuto a che fare con i negri - no, cancellerò la parola negri, perché non mi piace. Ho conosciuto degli indigeni che sono gentiluomini, e lo saprai, Harry, ragazzo mio, prima che tu abbia finito questo racconto, e ho conosciuto dei bianchi meschini con molti soldi e appena usciti di casa, che non lo sono.

    In ogni caso, sono nato gentiluomo, anche se per tutta la vita non sono stato altro che un povero mercante e cacciatore itinerante. Se sono rimasto tale non lo so, questo dovete giudicarlo voi. Il cielo sa se ci ho provato. Ho ucciso molti uomini ai miei tempi, ma non ho mai ucciso in modo sconsiderato o macchiato la mia mano di sangue innocente, ma solo per autodifesa. L’Onnipotente ci ha dato le nostre vite, e suppongo che volesse che le difendessimo, almeno io ho sempre agito così, e spero che non mi venga rinfacciato quando scoccherà la mia ora. Ecco, ecco, è un mondo crudele e malvagio, e per essere un uomo timido sono stato coinvolto in molte battaglie. Non so dirne i motivi, ma in ogni caso non ho mai rubato, anche se una volta ho fregato una mandria di bestiame a un kafir. Ma mi aveva fatto un brutto scherzo, e da allora mi ha sempre procurato guai.

    Bene, sono passati circa diciotto mesi da quando ho incontrato per la prima volta Sir Henry Curtis e il capitano Good. Avvenne così. Ero stato a caccia di elefanti al di là di Bamangwato e avevo avuto sfortuna. Tutto era andato storto in quel viaggio, e per di più mi ero preso una brutta febbre. Così, non appena mi fui rimesso, mi misi in viaggio fino ai Campi Diamantiferi, vendetti l’avorio che avevo, insieme al mio carro e ai buoi, licenziai i miei cacciatori e presi il carro postale per il Capo. Dopo aver trascorso una settimana a Città del Capo, constatando che l’albergo mi aveva fatto pagare troppo, e dopo aver visto tutto quello che c’era da vedere, compresi i giardini botanici– che mi sembravano in grado di apportare un grande beneficio al paese – e la nuova sede del Parlamento – che mi aspetto non faccia nulla del genere – decisi di tornare in Natal con la Dunkeld, che allora era attraccata al porto in attesa dell’Edinburgh Castle in arrivo dall’Inghilterra. Presi una cabina e salii a bordo, e quel pomeriggio i passeggeri dell’Edinburgh Castle per il Natal trasbordarono, e noi salpammo e prendemmo il mare.

    Tra i passeggeri che salirono a bordo ce n’erano due che suscitarono la mia curiosità. Uno, un tipo di circa trenta anni, era forse l’uomo col torace più grosso e con il braccio più lungo che avessi mai visto. Aveva capelli biondi, una folta barba bionda, lineamenti netti e grandi occhi grigi incastonati nella testa. Non ho mai visto un uomo dall’aspetto più bello, e in qualche modo mi ricordava un antico danese. Non che io sappia molto degli antichi danesi, anche se ho conosciuto un danese moderno che mi ha fatto fuori dieci sterline; ma ricordo di aver visto una volta un quadro di alcuni di quei signori, che, mi sembra, erano una specie di Zulu bianchi. Bevevano da grandi corna, e i loro lunghi capelli pendevano lungo la schiena. Mentre guardavo il mio amico in piedi vicino alla scaletta, pensai che se solo si fosse fatto crescere un po’ i capelli, avesse messo una di quelle cotte di maglia sulle sue grandi spalle, e avesse preso in mano un’ascia da battaglia e un boccale di corno, avrebbe potuto fare da modello per quel quadro. E comunque è una cosa curiosa, e mostra proprio come il sangue non possa mentire. Ho scoperto in seguito che Sir Henry Curtis, perché questo era il nome del grande uomo, è di sangue danese². Mi ricordava anche molto qualcun altro, ma all’epoca non riuscivo a ricordare chi fosse.

    L’altro uomo, che stava parlando con Sir Henry, era robusto e bruno, e di un tipo completamente diverso. Sospettai subito che fosse un ufficiale di marina; non so perché, ma è difficile non riconoscere un uomo di mare. Sono andato a caccia con molti di loro nel corso della mia vita, e si sono sempre dimostrati i migliori, i più coraggiosi e i più simpatici compagni che abbia mai incontrato, anche se purtroppo alcuni di loro sono inclini all’uso di un linguaggio profano. Ho chiesto una o due pagine fa: cos’è un gentiluomo? Risponderò ora alla domanda: un ufficiale della Marina Reale lo è, in un modo generale, anche se naturalmente ci può essere una pecora nera tra loro. Immagino che siano solo i grandi mari e il soffio dei venti di Dio che purificano i loro cuori e soffiano via l’amarezza dalle loro menti e li rendono ciò che gli uomini dovrebbero essere.

    Ebbene, per tornare a noi, ebbi di nuovo ragione; accertai che l’uomo bruno era un ufficiale di marina, un tenente di trentuno anni che, dopo diciassette anni di servizio, era stato licenziato da Sua Maestà con lo sterile onore di un grado di comandante, perché era impossibile che fosse promosso. Questo è ciò che devono aspettarsi le persone che servono la Regina: essere sbattute in mezzo a una strada per trovare da vivere proprio quando stanno cominciando a capire veramente il loro lavoro, e a raggiungere il fiore degli anni. Suppongo che a loro non dispiaccia, ma per quanto mi riguarda preferirei guadagnarmi il pane come cacciatore. I guadagni sono forse altrettanto scarsi, ma non si viene presi a calci.

    Il nome dell’ufficiale – come scoprii consultando la lista dei passeggeri – era Good, capitano John Good. Era corpulento, di altezza media, bruno, tozzo e piuttosto curioso a vedersi. Era molto ordinato e ben rasato, e portava sempre un monocolo nell’occhio destro. Sembrava che crescesse lì, perché non aveva nastri a reggerlo, e non lo toglieva mai se non per pulirlo. All’inizio pensavo che ci dormisse, ma poi scoprii che ero in errore. Lo metteva nella tasca dei pantaloni quando andava a letto, insieme alla dentiera; aveva due belle serie di denti che, essendo i miei non dei migliori, mi hanno spesso fatto infrangere il decimo comandamento. Ma sto correndo troppo.

    Poco dopo aver preso il largo, venne la notte e portò con sé un tempo molto brutto. Una forte brezza si alzò da terra, e una specie di nebbia scozzese peggiorata fece presto allontanare tutti dal ponte. Per quanto riguarda la Dunkeld, è una nave a fondo piatto, e leggera com’era, rollava in modo deciso. Sembrava quasi che si sarebbe rovesciata, ma non lo fece. Era quasi impossibile stare in piedi, così mi misi vicino ai motori, dove faceva caldo, e mi divertii a guardare il pendolo, fissato di fronte a me, che oscillava lentamente avanti e indietro mentre la nave rollava, e segnava l’angolo di inclinazione a ogni sbandata.

    «Quel pendolo va male; non è tarato bene», disse improvvisamente una voce un po’ stizzita alle mie spalle. Guardandomi intorno, vidi l’ufficiale di marina che avevo notato quando i passeggeri erano saliti a bordo.

    «Ah sì, e cosa ve lo fa pensare?», chiesi.

    «Pensare… Io non penso niente. Ecco qui», mentre la nave si raddrizzava dopo un rollio, «se la nave avesse davvero rollato nella misura indicata da quell’affare, allora non potrebbe più rollare, ecco tutto. Ma è proprio una cosa da capitani mercantili, sono sempre così maledettamente sbadati».

    Proprio in quel momento suonò la campana della cena, e non mi dispiacque, perché è una cosa terribile dover ascoltare un ufficiale della Royal Navy quando attacca con questo argomento. Conosco solo una cosa peggiore, ed è sentire un capitano di un mercantile esprimere la sua sincera opinione sugli ufficiali della Royal Navy.

    Il capitano Good e io scendemmo a cena insieme, e lì trovammo Sir Henry Curtis già seduto. Lui e il capitano Good erano seduti insieme e io ero seduto di fronte a loro. Il capitano e io ci mettemmo subito a parlare di caccia e altro; lui mi fece molte domande, perché è molto curioso su ogni genere di cose, e io risposi meglio che potei. Presto arrivò a parlare di elefanti.

    «Ah, signore», gridò qualcuno che era seduto vicino a me, «avete chiesto all’uomo adatto; se esiste un uomo che può parlare di elefanti, è Hunter Quatermain».

    Sir Henry, che era stato seduto abbastanza tranquillo ad ascoltare i nostri discorsi, trasalì visibilmente.

    «Scusate, signore», disse, sporgendosi in avanti attraverso il tavolo, e parlando con una voce bassa e profonda, una voce molto adatta, mi sembrava, a uscire da quei grandi polmoni. «Scusate, signore, ma il vostro nome è Allan Quatermain?»

    Risposi di sì.

    L’omone non fece altre osservazioni, ma lo sentii mormorare lietissimo attraverso la barba.

    Presto la cena finì, e mentre stavamo lasciando il salone Sir Henry si avvicinò e mi chiese se volevo entrare nella sua cabina per fumare la pipa. Accettai, e lui mi fece strada fino alla cabina di ponte della Dunkeld, una cabina molto bella. Era formata da due cabine, ma quando Sir Garnet Wolseley o uno di quegli altri pezzi grossi hanno disceso la costa con la Dunkeld, hanno buttato giù il divisorio e non l’hanno più ricostruito. Nella cabina c’era un divano con un tavolino davanti. Sir Henry mandò il cameriere a prendere una bottiglia di whisky, e noi tre ci sedemmo e accendemmo le nostre pipe.

    «Signor Quatermain», disse Sir Henry Curtis, quando l’uomo ebbe portato il whisky e acceso la lampada, «l’anno scorso circa a quest’ora, lei era, credo, in un posto chiamato Bamangwato, a nord del Transvaal».

    «È vero», risposi, piuttosto sorpreso che quel signore conoscesse così bene i miei movimenti, che non erano, per quanto ne sapevo, considerati di interesse generale.

    «Stavate commerciando lì, non è vero?», disse il capitano Good, nel suo tono sbrigativo.

    «Sì. Avevo preso un carro pieno di merci, mi sono accampato fuori dall’insediamento e mi sono fermato finché non le ho vendute».

    Sir Henry era seduto di fronte a me su una sedia di Madeira, con le braccia appoggiate al tavolo. Poi alzò lo sguardo, fissando i suoi grandi occhi grigi sul mio viso. C’era una curiosa ansia in essi, pensai.

    «Avete per caso incontrato un uomo di nome Neville lì?»

    «Oh, sì; è rimasto al mio fianco per una quindicina di giorni per far riposare i suoi buoi prima di proseguire verso l’interno. Ho ricevuto una lettera da un avvocato qualche mese fa, che mi chiedeva se sapevo cosa ne era stato di lui, a cui ho risposto al meglio delle mie capacità di allora».

    «Sì», disse Sir Henry, «la vostra lettera mi è stata inoltrata. Avete detto che il signore chiamato Neville lasciò Bamangwato all’inizio di maggio in un carro con un guidatore, un voorlooper e un cacciatore kafir chiamato Jim, annunciando la sua intenzione di arrivare, se possibile, fino a Inyati, l’ultimo posto di scambio nel paese di Matabele, dove avrebbe venduto il suo carro e avrebbe proseguito a piedi. Avete aggiunto anche che vendette il suo carro, perché sei mesi dopo lo vedeste in possesso di un mercante portoghese, che vi disse di averlo comprato a Inyati da un uomo bianco di cui aveva dimenticato il nome, e che credeva che l’uomo bianco con il servo indigeno fosse partito per l’interno per una battuta di caccia».

    «Sì».

    Poi ci fu una pausa.

    «Signor Quatermain», disse Sir Henry all’improvviso, «suppongo che non sappiate o non possiate indovinare altro sulle ragioni del viaggio verso nord di mio… del signor Neville, o sul luogo dove fosse diretto?»

    «Ho sentito qualcosa», risposi, e mi fermai. L’argomento era uno di quelli che non mi interessava discutere.

    Sir Henry e il capitano Good si guardarono, e il capitano Good annuì.

    «Signor Quatermain», proseguì il primo, «sto per raccontarvi una storia, e chiedervi un consiglio, e forse la vostra assistenza. L’agente che mi ha inoltrato la vostra lettera mi ha detto che potevo fare completo affidamento su di essa, poiché voi siete», disse, «ben conosciuto e universalmente rispettato nel Natal, e particolarmente noto per la vostra discrezione».

    Mi inchinai e bevvi del whisky e dell’acqua per nascondere la mia confusione, perché sono un uomo modesto, e Sir Henry continuò.

    «Il signor Neville era mio fratello».

    «Oh», dissi, trasalendo, perché ora sapevo chi mi aveva ricordato Sir Henry la prima volta che l’avevo visto. Suo fratello era un uomo molto più piccolo e aveva la barba scura, ma ora che ci pensavo, aveva occhi della stessa tonalità di grigio e con lo stesso sguardo acuto: anche i lineamenti non erano diversi.

    «Era», continuò Sir Henry, «il mio unico fratello, minore, e fino a cinque anni fa non credo che siamo mai stati lontani un mese l’uno dall’altro. Ma proprio cinque anni fa ci è capitata una disgrazia, come a volte accade nelle famiglie. Litigammo aspramente, e nella mia rabbia mi comportai ingiustamente con lui».

    Qui il capitano Good annuì vigorosamente tra sé e sé. La nave fece un grande rollio proprio in quel momento, così che lo specchio di vetro, che era fissato di fronte a noi a dritta, fu per un momento quasi sopra le nostre teste, e mentre ero seduto con le mani in tasca e fissavo in alto, potei vederlo annuire.

    «Come probabilmente sapete», continuò Sir Henry, «se un uomo muore senza testamento e non ha altri beni che la terra, la proprietà reale come si chiama in Inghilterra, passa tutto al figlio maggiore. Accadde che proprio nel periodo in cui litigammo, nostro padre morì senza testamento. Aveva rimandato il suo testamento fino a che fu troppo tardi. Il risultato fu che mio fratello, che non era stato educato a nessuna professione, rimase senza un soldo. Naturalmente sarebbe stato mio dovere provvedere a lui, ma a quel tempo il litigio tra noi era così aspro che non mi offrii – e mi vergogno a dirlo» (e qui sospirò profondamente) «di fare nulla. Non che gli abbia negato niente, ma aspettavo che facesse delle richieste, e lui non ne ha fatte. Mi dispiace disturbarla con tutto questo, signor Quatermain, ma devo mettere le cose in chiaro, eh, Good?»

    «Proprio così, proprio così», disse il capitano. «Il signor Quatermain, sono sicuro, terrà questa storia per sé».

    «Certo», dissi io, perché sono piuttosto orgoglioso della mia discrezione, per la quale, come Sir Henry aveva sentito, ho una certa reputazione.

    «Ebbene», continuò Sir Henry, «mio fratello aveva allora qualche centinaio di sterline sul suo conto. Senza dirmi nulla, tirò fuori questa misera somma e, avendo adottato il nome di Neville, partì per il Sudafrica nella folle speranza di fare fortuna. Questo lo seppi dopo. Passarono circa tre anni e non ebbi più notizie di mio fratello, anche se scrissi diverse volte. Senza dubbio le lettere non lo raggiunsero mai. Ma col passare del tempo ero sempre più preoccupato per lui. Ho scoperto, signor Quatermain, che il sangue non è acqua».

    «È vero», dissi io, pensando a mio figlio Harry.

    «Ho scoperto, signor Quatermain, che avrei dato metà della mia fortuna per sapere che mio fratello George, l’unico parente che possiedo, fosse al sicuro e stesse bene, e che lo avrei rivisto».

    «Ma non l’avete mai fatto, Curtis», sussultò il capitano Good, lanciando un’occhiata al volto dell’omone.

    «Bene, signor Quatermain, col passare del tempo sono diventato sempre più ansioso di scoprire se mio fratello sia vivo o morto, e se vivo di riportarlo a casa. Ho iniziato a indagare, e la sua lettera è stato uno dei risultati. A quel punto era soddisfacente, perché mostrava che fino a poco tempo fa George era vivo, ma non andava abbastanza lontano. Così, per farla breve, ho deciso di venire a cercarlo di persona, e il capitano Good è stato così gentile da venire con me».

    «Sì», disse il capitano, «non avevo altro da fare.

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