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Morte in prima pagina
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Morte in prima pagina

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About this ebook

Quando due giovani poliziotti perdono la vita in un violento incidente vicino a Richmond, la giornalista di cronaca nera Nichelle Clarke viene inviata sul posto. All’inizio, Nichelle pensa che sia un caso come tanti altri, ma ben presto si rende conto di avere torto.
Non si è trattato di un incidente.
Quando Nichelle decide di approfondire il caso, persone e prove iniziano a scomparire. Qualcuno di molto abile è sempre un passo davanti a lei e tenta di coprire le proprie tracce, senza fermarsi davanti a nulla.
Più Nichelle si avvicina a risolvere il mistero dei due poliziotti morti, più si rende conto di essere diventata lei stessa un obiettivo.
Riuscirà Nichelle a sopravvivere a questo gioco omicida abbastanza a lungo da risolvere il mistero o sarà, invece, la prossima vittima?
LanguageItaliano
PublisherHope Edizioni
Release dateJun 10, 2021
ISBN9788855311540
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    Morte in prima pagina - Lyndee Walker

    Capitolo 1

    Pensare a schizzi di sangue e rapporti balistici prima ancora di aver finito il caffè non era esattamente il modo in cui avrei voluto iniziare il fine settimana.

    «Altri morti? Sul serio, ragazzi?» chiesi, come se i poliziotti di pattuglia – il cui chiacchiericcio risuonava dalla radio collegata alle frequenze della polizia sul sedile del passeggero della mia auto – potessero sentirmi. Loro, ovviamente, continuarono a parlare. A quanto pareva, il tizio morto aveva anche perso un bel po’ di cervello a causa di un proiettile.

    Allungai una mano per prendere il cellulare, tenendo l’altra sul volante e lo sguardo sul traffico del mattino. Un cadavere ancor prima di essere riuscita ad arrivare alla redazione di solito era un bene… ma non quel venerdì. Se avessi dovuto pagare un tanto a cadavere, la mia MasterCard sarebbe stata esaurita già il mercoledì di quella settimana. Specie considerando l’addebito di eBay per le nuove scarpe col tacco, delle Louboutin, che avevo ai piedi in quel momento.

    Diedi un’occhiata all’orologio e premetti la mia scarpa color zaffiro sull’acceleratore, mentre facevo partire la chiamata rapida per la centrale di polizia.

    «Aaron, sono Nichelle» dissi quando mi rispose la casella vocale del portavoce del dipartimento. «Ho sentito che state facendo una festa nel Southside stamattina, e sembra che mi sia persa l’invito. Fammi un colpo di telefono quando hai un minuto.»

    Ributtando il cellulare in borsa, svoltai nel parcheggio del Richmond Telegraph. Perché non poteva trattarsi di un ladro idiota che aveva fatto un ordine telefonico col suo vero indirizzo prima di rapinare il fattorino delle pizze, o di un furto di BMW? Qualunque cosa tranne un altro cadavere.

    Se dovevo di nuovo correre dietro alla morte, almeno avrebbe dovuto garantirmi la prima pagina della cronaca cittadina per il giorno seguente. Quando qualche minuto rivolsi un mezzo sorriso al mio redattore, entrando nel suo ufficio.

    «Ho un altro spacciatore morto nel Southside. L’hanno trovato proprio stamattina.» Le mie parole cancellarono la sua espressione seccata sostituendola con una interessata; la sua perenne irritazione per il mio arrivo all’ultimo minuto alle riunioni dello staff era stata dimenticata alla menzione di un omicidio.

    «Un altro, eh?» Si sporse in avanti e appoggiò i gomiti sull’enorme scrivania di mogano. «Sappiamo se ha a che fare con il tipo che hanno trovato lì un paio di settimane fa?»

    «A parte per il fatto che fosse uno spacciatore, da quello che ho captato dalla radio, non direi.» Sprofondai nella mia solita sedia. «Ho lasciato un messaggio ad Aaron White mentre venivo qui. Dovrei avere qualcosa per te nel pomeriggio.»

    Bob annuì con aria soddisfatta e passò alla sezione sportiva. «Che succede nel tuo mondo stamattina, Parker? C’è qualcosa su cui valga la pena avere un’opinione, o ti sto ancora pagando per inventarti le cose?»

    Il nostro editorialista sportivo (e redattore sportivo de facto, dato che quello ufficiale era ancora in congedo con sua moglie e il figlio neonato) alzò la voce per sovrastare le risate e iniziò a illustrare gli eventi sportivi della giornata.

    «E scriverò la mia colonna sull’allenatrice della squadra femminile di basket dell’Università di Richmond» concluse. «È in terapia per il cancro al seno e ha comunque portato di nuovo la squadra ai playoff, la scorsa stagione.» Diede uno sguardo ai suoi appunti. «Con questo sono quattro anni di fila.»

    «Bene» disse Bob. «Mi piace una storia di interesse umano nella sezione degli sport femminili.»

    La sezione internazionale stava seguendo una rivolta dopo l’ennesima discutibile elezione in Medio Oriente e i reporter politici si stavano ancora occupando di un bisticcio tra i candidati al Senato che si stavano preparando per la campagna autunnale.

    Le battute sulla politica vennero sparate più veloci delle performance di uno pseudo-vip ubriaco e risi, mentre il mio sguardo si spostava tra i volti dei miei colleghi… a tutti gli effetti la mia famiglia a Richmond. Mi avevano adottata nell’istante in cui ero entrata in redazione, senza un solo amico nel raggio di mille chilometri e con l’inchiostro della mia laurea alla Syracuse ancora fresco.

    «Bawb.» La parlata strascicata, nel tono da soprano che apparteneva alla nostra caporedattrice, giunse dall’ingresso con perfetto tempismo, dissipando la piacevole sensazione che provavo e trasformando il mio sorriso in una smorfia pensosa. Ogni famiglia ha bisogno di almeno un cugino fastidioso e Shelby era lieta di ricoprire quel ruolo in mio onore. «Per favore, potresti assicurarti che tutti abbiano inviato il loro pezzo entro la scadenza di stasera? Il mio staff vorrebbe andarsene in orario, visto che è venerdì e via dicendo.»

    Non sarebbe stata mattina se Shelby non avesse cercato di rovinare la riunione. Magari sarei riuscita a restare al di fuori dal suo radar abbastanza da evitarmi i soliti finti complimenti che le piaceva tanto indirizzarmi, soprattutto davanti a Bob. O forse no, pensai, mentre mi rivolgeva il più fasullo dei suoi sorrisi. Ecco che stava per arrivare: dovevo aver saltato una virgola, o un trattino, o messo qualche spazio di troppo da qualche parte.

    «Nichelle, che bel lavoro che hai fatto sulla condanna per omicidio!» Shelby si mise le mani sui fianchi minuti e sporse il petto inversamente proporzionato, tendendo al limite il cotone della semplice maglietta color fiordaliso. «Anche se sono piuttosto sicura che l’accusa stesse andando verso la panca, non la pancia.»

    Mi saltarono i nervi, ma, prima che potessi aprir bocca per farle notare che battere velocemente l’articolo principale del giorno era diverso dallo scrivere storie sulle riunioni del club di giardinaggio – di cui si era occupata lei prima del suo grande trasferimento – Bob si schiarì la gola.

    «Colpa mia, ho editato io quell’articolo, Shelby» disse, prima di liquidare la cosa promettendo che tutti avrebbero rispettato le scadenze.

    «Scusa, capo.» Feci spallucce in direzione di Bob mentre i capelli a spazzola di Shelby sparivano nel labirinto di cubicoli. «Panca, pancia. Patata, parata.»

    Bob ridacchiò prima di rivolgersi all’addetto all’attualità. Non ascoltai quello di cui stavano parlando. Per lo più, preferivo la cronaca pura a qualunque altro genere di articolo.

    Prima di dirigermi alla riunione, avevo preso dal mio schedario il rapporto della polizia sul primo omicidio di uno spacciatore e in quel momento lo tirai fuori e lo rilessi. Noah Leon Smith, ventisei anni, era morto il venerdì prima del Memorial Day a causa di una grave ferita da piombo inflitta da un proiettile calibro .45. Era stato trovato disteso sul suo divano in un quartiere che vedeva ben più della sua giusta quota di violenza. La deduzione più ovvia era che fosse stato ucciso da un altro spacciatore, o magari da un cliente disperato. Ma ora una seconda vittima poteva dimostrare che quella deduzione era errata?

    Esaminai con lo sguardo il resoconto del detective tenendo questo in mente e quattro semplici righe colpirono la mia attenzione come un paio di vecchie scarpe da ginnastica alla presentazione di una nuova collezione di Manolo.


    Lavandino del bagno, mobile inferiore: quattro chilogrammi di polvere beige, due grandi sacchi di plastica di una sostanza simile a foglie essiccate. Mobile superiore: quindici grandi buste contenenti pastiglie di varie forme e colori. Risultati di laboratorio. Polvere: eroina. Foglie verdi: marijuana. Pastiglie: Oxycontin, Vicodin, Zoloft, Effexor, Ritalin. Cucina, compartimento del ghiaccio: tre sacchetti di carta da supermercato contenenti un totale di $257.400 in banconote di grosso taglio.


    Prima non ci avevo badato. Di certo un rivale in affari o un drogato avrebbero rubato la droga e i soldi… se avessero avuto tempo, se avessero saputo dove trovarli e non fossero già stati in volo con un campione dei farmaci di Noah Smith. Ma un altro spacciatore con buchi dove non avrebbe dovuto averne mi faceva chiedere se le scene del crimine non fossero simili. Se la nuova vittima aveva una casa ancora piena di merce e soldi, quella sì che era una storia.

    Le mie dita si avvolsero attorno a un ciuffo di capelli, i miei pensieri erano stati dirottati sulle scene dei vecchi film di Charles Bronson mentre pensavo alla possibilità che chi aveva sparato fosse più interessato alla vendetta che al guadagno. Poteva essere una storia molto interessante.

    Il congedo affettuosamente pacchiano di Bob mi risvegliò dai miei sogni a occhi aperti. «D’accordo, gente» diceva ogni mattina. «Il mio ufficio non fa notizia, perciò uscite e trovatemi qualcosa da stampare.»

    Mi fermai fuori della porta di Bob, dove Grant Parker stava chiacchierando con l’addetto all’attualità a proposito della stagione del baseball. Non riuscivo a ricordare di aver mai scambiato più di una decina di parole con Parker, un lanciatore quasi professionista che nell’area di Richmond veniva considerato appena un po’ più mortale del figlio di Zeus, ma la colonna di cui aveva parlato durante la riunione aveva attratto la mia attenzione.

    Mi schiarii leggermente la gola e lui girò la testa, i suoi grandi occhi verdi si sgranarono appena quando incrociarono i miei. Era alto, ma con i tacchi gli arrivavo quasi naso a naso.

    «Cosa posso fare per lei, Miss Clarke?» Mi rivolse il sorriso che faceva sì che la maggioranza delle donne di lì rievocassero le loro antenate strette nei corsetti e svenissero… e che vendeva anche un buon numero di copie del giornale.

    «Volevo ringraziarti» dissi, spostando la cartellina da un braccio all’altro. «Per la colonna che stai scrivendo oggi. Mia madre è sopravvissuta al cancro al seno, ed è bello che tu ne stia parlando. La sezione sportiva non è il posto in cui di solito si cerca una storia sul cancro al seno. Perciò grazie.»

    «Non c’è di che. Davvero.» Il suo sguardo cadde sulla perfezione dalla punta squadrata dei tacchi a spillo blu elettrico che mi ero infilata ai piedi tra il mio corso mattutino di bodycombat e la folle corsa verso la riunione, poi risalì verso i miei occhi. «È bello che tu lo dica. Non sapevo leggessi la mia rubrica.»

    «Non lo faccio.» Sorrisi. «Ma lo farò domani.»

    «Sarà meglio che faccia una partita da serie A, allora.» Si passò una mano tra i capelli biondi già scompigliati e mi sorrise di nuovo.

    «Immagino di sì.» Feci un passo indietro. «Mi dicono che sono difficile da impressionare.»

    «Amo le sfide.» Inarcò le sopracciglia e storse la bocca da un lato.

    «Ci scommetto.»

    Scossi la testa, prendendomi mentalmente un appunto di telefonare a mia madre mentre mi voltavo e mi dirigevo al mio cubicolo color avorio, Parker e il suo sorriso troppo perfetto già dimenticati. Charles Bronson. Uomini morti. La fastidiosa sensazione che ci fosse qualcosa al di là dell’ovvio degli spacciatori assassinati diventava più forte quanto più pensavo ai dettagli sparsi che avevo sentito dalla radio.

    Avevo già la mano sul telefono per richiamare Aaron quando vidi un foglietto rosa sulla mia scrivania, un messaggio della mia amica Jenna. Forse voleva una mia opinione su quali ristoranti avessero bar sufficientemente riforniti per la nostra serata tra ragazze a venerdì alterni, che stavo aspettando all’incirca da quando la sveglia aveva dato il via al lunedì mattina.

    Prima che potessi prendere il cellulare per richiamarla, il mio detective preferito mi richiamò.

    «Perché l’assassino non ha preso i soldi e la droga dalla casa di Noah Smith? Lo spacciatore morto del mese scorso?» gli chiesi, preoccupandomi a stento di dargli il buongiorno. «E la scena dell’omicidio di questa mattina era uguale?»

    Lui sospirò e sentii le mie sopracciglia che si alzavano. Doveva essere un sì. Armeggiai in cerca di una penna.

    «Sì» disse dopo una pausa. «E non ne siamo sicuri.»

    «Pensi che fosse lo stesso assassino?»

    «Non lo so. Forse.»

    Riuscivo quasi a sentire le rotelle girare nella sua testa mentre valutava cosa dirmi. La scomoda relazione simbiotica tra i dipartimenti di polizia e i media era una strana fune su cui camminare: lui mi serviva per gli articoli e a lui servivano gli articoli che a volte portavano nel suo ufficio dei testimoni chiave. Non dovevo compilare una richiesta ufficiale di informazioni per ogni rapporto di routine, ma il compito di Aaron era dare solo le informazioni che il dipartimento voleva diffondere. Il mio era dare ai miei lettori il più possibile. La maggior parte delle volte raggiungevamo un compromesso decente.

    «Abbiamo fatto fretta alla balistica, ma non avremo i risultati prima di qualche altra ora, se ci va bene» disse. «Forse non prima di lunedì. Non so quanto siano impegnati. Vuoi passare nel pomeriggio?»

    Gli chiesi qual era la prima mezz’ora che avesse disponibile. «Bob vuole avere qualcosa su questa faccenda per domani, ed è venerdì. Vorrei andarmene a un’ora decente almeno una sera questa settimana.»

    «A chi lo dici.» Aaron rise. «Anche qui siamo stati occupati ultimamente. Troppi cattivi là fuori. Ho visto il tuo pezzo sulla condanna nel caso di Barbie e Ken stamattina. Che storia triste.»

    Mormorai il mio assenso quando la menzione del processo per la pena capitale su cui avevo passato tutta la settimana a scrivere mi riportò in mente l’indesiderata immagine della foto formato poster ad alta risoluzione della scena del crimine che l’accusa aveva lasciato esposta per la giuria per l’intero giorno precedente.

    Erano passati quasi due anni da quando i tagli al bilancio (e un po’ di manipolazione da parte mia… le storie sui processi erano più grosse e spesso più succose dei rapporti iniziali sui crimini) avevano aggiunto il tribunale alla mia lista di responsabilità come reporter di cronaca nera. Significava orari folli, ma non mi dispiaceva, considerato che quasi un terzo del nostro staff era stato licenziato e io avevo ancora un lavoro.

    Sognavo di essere una giornalista fin da quando riuscivo a ricordare. Riuniva il mio amore per la scrittura alla capacità di fare del bene nel mondo. Non avevo ancora sviluppato la forza di stomaco che gestire il distretto di polizia di Richmond spesso richiedeva, però, e i processi erano anche peggio.

    Aaron mi promise che avrei potuto intervistarlo in tempo per coprire la prima scadenza della cronaca cittadina.

    In mancanza di altre cose urgenti da fare, richiamai Jenna per vedere se avesse deciso per qualcosa di speciale per la nostra cena. Avevo voglia di cibo messicano. E di un margarita. Quel maledetto processo mi aveva fatto vivere una lunga settimana.

    «Nicey!» Jenna quasi urlò il soprannome che riservavo alle persone a me più vicine fin dall’asilo, quando un compagno di giochi con un difetto di pronuncia mi aveva ribattezzata nii-sii e mia madre l’aveva trasformato in un vezzeggiativo.

    «Ci sarà qualcosa di bello nelle notizie oggi?» Il tono della mia amica calò di qualche decibel.

    «Di rado c’è qualcosa di bello nelle notizie che scrivo,» risposi «ma penso che potrei avere qualcosa di interessante. E Grant Parker sta lavorando a una grande storia sull’allenatrice della squadra di basket femminile dell’Università di Richmond.»

    «Ah sì? E come sta il giornalista sportivo più sexy della Virginia stamattina?»

    Risi. «Mi sembrava a posto. E tu sei ancora, sai, sposata.»

    «Sposata. Mica cieca» disse lei. «Parlando del mio adorato marito, ho detto a Chad di non aspettarmi alzato, perciò non abbiamo coprifuoco. Ti ho detto quanto mi faccia piacere che il bambino non prenda più il latte?»

    «Intendi ora, o le altre quindici volte che l’ho sentito questa settimana?»

    «Solo quindici? E io che pensavo di esserne entusiasta.»

    «Credo che la parola che stavi cercando sia eccitata» dissi. «Forse perfino euforica

    Lei rise di nuovo. «Euforica. Sì. Ha un suono piacevole, festivo. Comunque, cosa ti va di fare stasera?»

    «Margarita?» Sapevo che Jenna era più interessata alle libagioni che al cibo in quel particolare giorno. «Voglio del messicano se per te va bene.»

    Andava bene. Rimisi il telefono sul supporto dopo averle promesso di vederci alle sei e trenta e andai a dire a Bob di lasciarmi un po’ di spazio per l’articolo sullo spacciatore. Neanche lui era sfuggito al taglio ai costi e aveva ereditato il lavoro della cronista che si era licenziata l’anno prima.

    La sua porta era aperta, come sempre, ma bussai comunque sull’infisso, prima di entrare.

    «Ehi, capo» dissi, affacciandomi con la testa oltre l’angolo. «Hai un minuto?»

    «Solo uno.» Si voltò dal monitor per guardarmi in faccia, infilandosi una penna sotto il ciuffo di diradati capelli sale e pepe sopra l’orecchio sinistro. «Ancora niente sul tuo tizio morto?»

    Mi sedetti sulla stessa poltrona alta dallo schienale arancione che avevo occupato alla riunione del mattino. Lo stile dell’ufficio di Bob tendeva pesantemente al marrone e arancio dello stemma della Virginia Tech University, con le pareti affollate di copie incorniciate delle sue foto preferite del Telegraph e delle nostre migliori prime pagine. Aprii la cartellina.

    «Penso che avremo qualcosa dal dipartimento di polizia nel pomeriggio.» Il mio sguardo errante si soffermò sul Pulitzer di Bob, al centro della parete di fronte, in una notevole cornice di bronzo, prima di concentrarsi su di lui. «O meglio so di avere qualcosa. Sto aspettando di vedere quanto sia buona. Andrò in centrale questo pomeriggio per parlare con il detective che si occupa dell’omicidio di stamattina. Entrambe le scene del crimine avevano centinaia di migliaia di dollari in droga e contanti che sono stati lasciati lì.»

    Lui alzò le folte sopracciglia bianche. «Pensano che ci sia un giustiziere nel Southside?»

    «Forse. È più o meno quello che pensavo, ma Aaron non ha detto molto. Stanno aspettando che la balistica dia i risultati sul secondo proiettile prima di presumere che sia lo stesso assassino.»

    «Sembra che tu abbia almeno la promessa di una storia decente.»

    «Vedremo. Un giustiziere è decisamente più interessante di un tossico in bolletta in cerca di una dose. Potrei avere solo un trafiletto sull’omicidio stasera, a seconda di quando riceveranno i risultati dalla balistica, ma ce l’avremo domani. E anche di più se ne viene fuori qualcosa.»

    «Promette bene, ragazza.»

    Detta da chiunque altro, l’ultima parola mi avrebbe irritata, ma so che lui la intendeva in maniera affettuosa, e il sentimento era reciproco. Non mi ero ancora rimessa del tutto in piedi quando prese il giornale che aveva sulla scrivania e parlò di nuovo.

    «Sai, sei davvero diventata una brava reporter dalla prima volta in cui sei entrata qui, stringendo il tuo piccolo portfolio del college e temendo che non ti avrei dato un lavoro» disse, la voce un po’ più dolce di quanto fossi abituata a sentirla. «Non ero neanche del tutto sicuro che potessi gestire sia la polizia che il tribunale quando sei entrata qui a implorare…»

    «Ehi! Mi si può accusare di fare un sacco di cose per una storia, ma non ho mai implorato» obiettai.

    Bob ghignò. «Implorare, blandire; panca, pancia. Chiama le cose come vuoi, conosco le lusinghe quando le sento… sono stato sposato per quasi trent’anni. Il punto è che ho fatto la scelta giusta. Tutte e due le volte.» Diede un colpo al mio rapporto conclusivo sul caso del doppio omicidio di Barbie e Ken, che era destinato a diventare un film per la TV eccessivamente romanzato. «Abbiamo venduto più copie questa settimana che in qualunque altra dalla fine delle elezioni del 2008. E ciò che fa bene alla contabilità fa bene alla sezione di cronaca di questi tempi. Buon lavoro.»

    Be’, che diavolo. Dire che Bob non era proprio di manica larga con i complimenti sarebbe stato come dire che John Edwards era un po’ infedele a sua moglie. L’equivalente giornalistico di un eroe di guerra decorato, il mio redattore si aspettava eccellenza dal suo staff e di rado commentava qualunque cosa che non fosse una mancanza. La mia settimana mi parve improvvisamente meno faticosa.

    Foto a testa in giù delle vittime mi sorridevano dal giornale sulla scrivania di Bob. Era il genere di storia che non era molto divertente scrivere, ma che tutti volevano leggere… l’essenza del mio rapporto di amore/odio con la cronaca nera. Polizia e tribunali erano tra i posti migliori dove iniziare a crearsi una carriera, però, e mi ero detta che scrivere articoli sul crimine metteva al corrente la gente della propria sicurezza, e su cosa accadeva loro attorno, il che era un bene. Rendeva più facile accettare i lati del lavoro che trovavo meno divertenti, specie con storie come quella.

    Aveva tutti gli elementi che portavano i produttori (ero piuttosto sicura di averne contati cinque nell’aula il giorno prima) a dare la caccia a coppie distrutte che avevano appena seppellito i loro figli: un efferato crimine passionale perpetrato contro belle persone, un distorto triangolo amoroso universitario, e una condanna che lasciava l’unico uomo rimasto ad affrontare la sedia elettrica della Virginia, probabilmente prima del trentesimo compleanno.

    Quelli della TV, sempre amanti delle frasi a effetto, avevano rinominato il caso l’omicidio di Barbie e Ken in omaggio al bell’aspetto e ai capelli chiari delle vittime. Avrei scommesso venti dollari che quelle parole sarebbero comparse da qualche parte nel titolo del film.

    La solita nota graffiante tornò nella voce di Bob quando lasciò cadere il giornale e mi sorrise. «Vai a prenderti la tua storia sullo spacciatore morto. E poi passa un buon fine settimana. Premiati con uno dei tuoi folli puzzle o un paio di scarpe nuove. Credo tu te lo sia meritato questa settimana.»

    Ancora sfavillante d’orgoglio venti minuti dopo, sistemai la schiena contro il tronco di un’antica quercia in un piccolo parco nascosto sulle rive del fiume James. Era il mio posto preferito per riflettere su una storia, scrivere, o anche solo starmene seduta a pensare quando ne avevo la possibilità. L’acqua che sussurrava sopra le rocce e il panorama perfetto da cartolina erano ancora sufficienti a farmi chiedere se essere sulla costa est avrebbe mai smesso di sembrarmi una vacanza.

    Vacanza. La parola suscitò inattese immagini dai miei ricordi: la bellezza della distesa di lupinus che costeggiava le strade in primavera, soccombendo in estate al calore piatto e opprimente che scuriva il panorama e riluceva sulle strade in onde visibili a mezzogiorno. Il mio ultimo viaggio a Dallas era stato più una vacanza che una visita a casa.

    Probabilmente è bello sapere dov’è casa tua, anche quando non puoi tornarci, pensai. Immaginai che la mia casetta di pietra nel Fan, il quartiere storico chiamato così a causa del suo ventaglio di strade costeggiate da alberi che si estende dal centro di Richmond come le creazioni

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