Pani e gerda
By Ivan Murgana
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About this ebook
Ivan Murgana è nato a Sarroch nel 1978. Giornalista, laureato in Scienze della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Cagliari, scrive per il quotidiano L’Unione Sarda. Prima di Pani e gerda ha pubblicato Il flebotomo di Rocca Limpia (2013) e Sa Levadora, scritto a quattro mani con Carmen Salis (2014). I disegni di questo libro sono stati realizzati dall’artista sarrochese Ilvo Sechi.
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Pani e gerda - Ivan Murgana
Lazarus
PREFAZIONE
Ci sono storie e personaggi che restano sospesi nel tempo, vagano per anni nella mente dell'autore che custodisce i contorni talvolta scabri e nascosti di ogni cosa. Poi di colpo, quasi per incanto, i volti sorridono, i dettagli acquistano luce e forza. Il carattere e il profilo dei personaggi, a lungo immaginati e modellati, diventano potenti e spesso universali al pari delle trame che li contengono. Quando Ivan Murgana ha deciso che fosse giunto il momento di dar vita alla parabola di Luisicu Paniegerda, tutto nella sua mente di autore era compiuto, o lo sarebbe stato se avesse assecondato, com'è accaduto, il respiro del racconto e dei personaggi che rendono la storia immaginata viva e palpitante.
Seguendo le vicende di Luisicu, che sogna Lamerica
mentre porta al pascolo Moretto e Masedu nei campi dei Sennoris di Parabellu, di Fisinu e Arrica, dei bricconi Mariu Angioni e Antiogu Campana, di Fedele e Giovanni ma soprattutto della bella e giovane Edda in fuga dagli artigli immondi del fascismo, il romanzo diventa l'affresco vivido di un'epoca dura e spietata. Lo è in modo speciale, dura e spietata, con chi – è il caso di Luisicu - negli Stati Uniti può arrivarci soltanto viaggiando in terza classe, con i pochi stracci del suo corredo contenuto in una misera sacca.
Pani e gerda
è un romanzo che si offre al giudizio del lettore con il pudore delle belle storie edificanti. I contenuti e gli sguardi, le ambientazioni, il respiro dell'epoca – la prima parte del secolo scorso – i sogni e la precarietà di tante vite sospese concorrono, come un'epopea, a definire una stagione lontana. E di quella stagione, che culmina con l'immediato secondo dopoguerra, Murgana presenta drammi e affanni, velleità e speranze. Lo realizza facendo leva con maestria sulla levità della scrittura e la puntuale documentazione, elementi che fanno decollare il romanzo, consentendogli di spalancare con felice realismo finestre su aspetti della nostra vita passata. Come l'emigrazione e la dura vita dell'immigrato italiano in America dei primi anni del Novecento.
Pietro Picciau
Capitolo I
L’idea di partire per l’America, a Luisicu Paniegerda venne in un pomeriggio di gennaio mentre si trovava nella stalla dei Sennoris.
Quel giorno gli sarebbe rimasto impresso nella memoria per tutta la vita perché le date importanti le aveva sempre tenute a mente. Le elementari - anche se non tutte - le aveva fatte e, nonostante non fosse stato il migliore della classe, il maestro Poletti si era dimostrato sempre contento di lui perché si ricordava l’anno della fondazione di Roma e quello in cui le camicie nere di Mussolini marciarono sulla capitale.
Badare ai buoi della famiglia più ricca di Parabellu era stato il suo compito sin da quando aveva nove anni, ma adesso il suo desiderio più grande era scappare da quella vita, che gli stava più stretta di quanto non lo fosse quel misero recinto per i due animali che doveva accudire. Mentre Moretto e Masedu divoravano due secchi di avena, si era ricordato che l’unica cosa che aveva mangiato durante la giornata era quel tocco di pane farcito con tanti piccoli pezzi di lardo di maiale infilatogli dalla madre nella bisaccia.
Paniegerda non era mica il suo cognome: come Medde Luigi lo aveva registrato, con grafia impeccabile l’impiegato del Comune, Antonio Salaris. E Sennoris non si chiamavano i suoi padroni, che all’anagrafe quanto in camposanto, dove avevano una sontuosa cappella di famiglia che poteva testimoniare in loro favore, erano conosciuti come Siotto. Ma quelli erano nomi buoni per registri accatastati e impolverati in Municipio e lapidi ricoperte di muschio; per la gente del paese le persone si identificavano con quello che rappresentavano per la comunità o l’unico cibo che compariva sulla loro tavola.
L’America per Luisicu più che un luogo era un concetto. In verità non sapeva di preciso manco dove si trovasse perché quando a scuola ne avevano parlato, lui già non ci andava più. C’erano i buoi da accudire e di cose secondo il padre ne aveva già imparato abbastanza. A dire il vero non era riuscito a capire neppure come si scrivesse correttamente il nome di quel paese dove ora voleva andare: il maestro non aveva fatto in tempo a correggere quel Lamerica che un giorno era comparso in un suo tema dal titolo Dove vorresti trascorrere le vacanze. Scritto tutto attaccato, quasi volesse creare un ponte per avvicinare l’articolo al soggetto: un desiderio inconscio di ridurre le distanze tra il posto in cui si trovava e quello che la sua fantasia gli aveva suggerito fosse un luogo pieno di luci colorate e palazzi alti come montagne.
Quello del 1931 sarebbe stato uno di quegli inverni che gli anziani un giorno avrebbero usato come termine di paragone. L’anno in questione fu anche quello della morte di Thomas Edison, l’inventore della lampadina, ma a Parabellu di quella scomparsa nessuno si accorse, perché la maggior parte delle case di quel paese veniva ancora rischiarata dalle candele di sego.
A gennaio era nevicato sia per l’Epifania sia per il giorno di Sant’Antonio, rendendo ancora più suggestivo su fogadoni che, come da tradizione, gli uomini avevano acceso nella piazza principale del paese. I ceppi delle querce del bosco appena fuori Parabellu sfrigolavano tra le fiamme, lanciando, sotto forma di piccoli scoppi, l’avvertimento ai più piccoli di non stare troppo vicini al fuoco. La neve, ammonticchiata ai bordi della piazza aveva perso il suo candore e adesso vestiva il colore dei passi. Le montagne avevano indossato una livrea candida e baluginavano al sole di mezzogiorno lanciando lapilli di luce a chi, insolente, col naso all’insù, le osservava con insistenza.
Ma lo spettacolo che aveva attirato di più i bambini, molti dei quali non avevano mai visto la neve, era un altro. Finché aveva continuato a fioccare, erano scesi sino alla spiaggia ciottolosa de Sa turri ‘e su scòlliu per vedere quegli aghi di ghiaccio adagiarsi lievemente sulla superficie del mare e scomparire dopo neppure un secondo. Sciogliendosi, diventando essi stessi parte di quello scuro mare che li aveva ingoiati.
Ma queste erano stupide curiosità di chi aveva ancora dieci anni e soprattutto aveva tempo da perdere. Luisicu di anni invece ne aveva diciotto e la vita ce l’aveva abbastanza piena. Il mestiere di bovaro gli riempiva le giornate, sia quando doveva portarli a pascolare negli stazzi di monte Gravellu sia nei giorni in cui, dietro al giogo intento ad arare, restava ore e ore a fissare i culi dei due buoi dai quali ogni tanto scampanavano le code per scacciar vie le mosche.
A ogni passo di Masedu e Moretto il vomere solcava quel terreno dal quale sarebbe nato il grano: ma allo stesso tempo, quell’antico strumento agricolo era una lama arrugginita che penetrava nel profondo della sua anima a infettare una ferita già sanguinante. Ne era sicuro Luisicu, se non avesse lasciato quanto prima Parabellu, quella coltellata che la vita gli aveva inflitto, non si sarebbe mai cauterizzata.
Capitolo II
Aundi est chi bolis andai?
Quando Fisinu Medde prendeva fiato per cominciare un discorso, che puntualmente iniziava con una parolaccia, la prima cosa che faceva sua moglie, Arrica Pinna, era mettere le mani sulle orecchie del più piccolo dei loro figli per impedirgli di sentire.
Quello, di privare dell’udito per qualche secondo le sue creature, era un rituale che la donna aveva trasferito dal primogenito Luisicu sino all’ultimo nato che avevano chiamato Quintino. Quindi, dopo Luisicu che di anni ne aveva ormai diciotto, le gemelle Aurora e Teresina tre di meno e Pauleddu tredici, toccava al quintogenito subire l’imposizione delle mani sulle orecchie.
Forsis no m’as cumprèndiu, ti ddu torru a nai. Aundi catzu est chi bolis andai?
Di solito le parole di Fisinu Medde, arrochite dalla fatica e dal freddo dei pascoli, formavano nodi che la gola di Luisicu non poteva sciogliere, ma non stavolta. Si era preparato, Luisicu, e per darsi coraggio aveva fatto affidamento su una lunga sorsata di Calamone, il vino del nonno materno Armando, rosso e liquoroso come il sangue dei capretti uccisi per Pasqua.
Vado a Lamerica
, aveva detto e, nonostante la risposta spigolosa pronunciata a muso duro da suo padre, non aveva esitato a ripeterlo. Me ne vado a Lamerica, sono stanco di fare lo schiavo per i Sennoris. Non voglio passare la vita a seguire quelle stupide bestie al pascolo o nei campi. Credo di meritare di meglio dalla vita
.
Nella piccola cucina piombò il silenzio. Arrica Pinna vide gli occhi neri del marito diventare di brace e cercò di intervenire, ma lui con un semplice gesto della