Malacarne
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Malacarne - Francesco Toscano
Uno.
Gli ultimi arredi urbani erano arrivati da poco tempo in via Maqueda, antico asse viario di Palermo, quando Francesco Salvatore Magrì, inteso Turiddu, si accingeva a festeggiare il suo diciottesimo compleanno.
Figlio di Carlo e di Maria Pia Perracchio, piccoli pregiudicati originari della Vucciria, da qualche tempo allontanatisi dalla malavita del quartiere in cui risiedevano, la Kalsa, Turiddu era cresciuto nutrendosi di malaffare e di violenza devoluta, il più delle volte, a titolo gratuito.
Alto poco più di un metro e settanta, dall’ossatura robusta e muscolatura vigorosa, carnagione chiara, occhi verdi, capelli neri e irsuti, Turiddu era ormai divenuto un adulto, " un uomo ", com’era solito definirsi al cospetto dei suoi genitori; un giovane emancipato e ormai maggiorenne, forte e sicuro di sé.
Egli rassicurava suo padre e sua madre dicendo loro che non avrebbero dovuto temere per lui, perché non sarebbe più incappato nelle maglie della Giustizia; sosteneva che era divenuto scaltro e che si sarebbe potuto difendere facilmente da quanti in passato gli avevano teso delle trappole e fatto trascorrere due anni della sua vita all’interno dell’Istituto Penale per minorenni Malaspina
di Palermo, ove era stato recluso per rapina a mano armata e sequestro di persona.
Turiddu amava la via Maqueda, quell’antica arteria stradale della sua città natia. Passeggiando lungo quella via diceva tra sé e sé, nel suo dialetto, " biedda 'sta strata, runni carruozze e signuruni javanu passiannu, riscurriennu senza né arte né parte , traducibile nella lingua italiana corrente in
bella questa strada, dove carrozze e signori dell'alta borghesia passeggiavano, discutendo senza avere un apparente lavoro.".
Erano da poco scoccate le ore 16:00 di quel venerdì 29 luglio 2016 quando Turiddu, giunto in prossimità di via Discesa dei Giovenchi, ebbe un leggero mancamento.
L’aria era afosa, giacché Palermo era sprofondata nel caldo del mese di luglio, che era, a detta di alcuni meteorologi, tra i più caldi degli ultimi vent’anni e, l’inquinamento, dovuto al traffico congestionato presente nel tessuto urbano del capoluogo siciliano, aveva reso ancora più irrespirabile l’aria del centro storico cittadino; così le difficili condizioni climatiche e ambientali contribuirono in maniera importante a quel lieve malore che avvolse le membra grevi del giovane.
Tuttavia non era stato il caldo a farlo barcollare, né tantomeno le polveri sottili presenti nell’aria, ma la nitida visione di una carrozza spinta da due cavalli, bianco e nero, condotta da un cocchiere in livrea, all’interno della quale vi erano due nobili uomini.
La carrozza, finemente intarsiata e di stile barocco, sfrecciava lungo quell’antica arteria stradale cittadina priva di quegli arredi urbani da poco collocati dal Municipio, lungo il quale non vi era rimasta anima viva, come se il tempo e gli uomini si fossero a un tratto fermati, così da consentire alla retina degli occhi verdi del giovane Magrì di trattenere un’istantanea della Palermo di fine Settecento, inizio Ottocento.
Che cosa significava quella visione? Magrì non seppe darsi una risposta esaustiva.
Turiddu si chinò, come a voler prendere qualcosa da terra, portando la mano destra al petto, all’altezza del costato sinistro.
Le tempie gli martellavano. Non si reggeva più sulle gambe, che si stavano pian piano sgretolando come quei castelli di sabbia che i bambini costruiscono in riva al mare in estate.
Svenne.
Si ridestò dopo pochi minuti, circondato da un gruppo di persone che cercavano di fargli coraggio, invitandolo a sorseggiare un bicchiere d’acqua e zucchero per farlo riprendere.
Magrì si alzò; ringraziò gli uomini e le donne che lo avevano soccorso e riprese subito dopo la marcia in direzione della Stazione Ferroviaria.
Giunto in prossimità dei Quattro Canti di città, mentre osservava sulla sua sinistra la splendida fontana di Piazza Pretoria, Turiddu udì una voce che gli diceva di non proseguire da lì, ma di svoltare in direzione di Corso Vittorio Emanuele, verso Porta Felice.
Si guardò attorno, ma non vide nessuno. Chi aveva parlato? Si sarebbe dovuto cominciare a preoccupare della sua salute mentale?
Egli non capì a che cosa quella voce d’uomo, gutturale e intensa, volesse alludere. Pensò seriamente di essere impazzito. D’altronde aveva da sempre nutrito il dubbio che " la pazzia ", quella vera, fosse scritta nel suo patrimonio genetico, ma ubbidì a quella voce, di fantasma o essere vivente che fosse, spinto da una forte sensazione di malessere interiore.
Qualche ora dopo, quando ormai Turiddu era all’interno della sua stanza da letto, seppe che gli " sbirri " quel pomeriggio avevano arrestato Vito Gulì, Gianluca Ciprì, Renato Galioto, i suoi tre amici, un’allegra combriccola che aveva spopolato nel quartiere per via di tante bravate, con i quali egli, qualche giorno prima, aveva rapinato un supermercato in piazza Nascè, a Borgo Vecchio.
La rapina, che non era stata preventivamente autorizzata da Cosa Nostra , aveva mandato su tutte le furie Don Ciccio Taiamonte, alias " à facci tagghiata ", il capo della famiglia mafiosa del Borgo Vecchio.
Questi riteneva che, essendo quell’esercizio commerciale in regola con il pagamento del pizzo, fosse inconcepibile che al titolare, Nicola Capasanta, fosse stato arrecato un danno economico, e che a lui fosse stato arrecato un danno d’immagine al suo incondizionato potere criminale. Dopo la rapina il Taiamonte, che si era più volte sfregato le mani quasi a togliersi la pelle, poiché era forte il suo desiderio di punire i colpevoli, aveva mandato alcuni suoi sodali, con testa il suo capo decina, Fofò Caparessa, a casa del Magrì. La delegazione di Cosa Nostra che il Taiamonte aveva spedito a casa di Magrì, rivolgendosi al padre del giovane Turiddu, un vecchio truffatore del quartiere, chiese la testa del responsabile di quell’avventato delitto, possibilmente su un piatto d’argento.
L’anziano truffatore intavolò con quegli uomini una lunga ed estenuante trattativa, alla fine della quale fu costretto a versare a favore della cassa della famiglia mafiosa di Borgo Vecchio la metà della somma di denaro provento della rapina perpetrata da suo figlio e dai suoi complici, all’incirca 1000 euro. Inoltre, egli fu costretto a pagare 500 euro a favore della compagine mafiosa della Kalsa, giacché era ritenuto colpevole di non aver impedito al figliolo di commettere quel reato in danno di un esercizio commerciale già " messo a posto ".
Turiddu si stava per addormentare, quando ripensò al malore fisico che lo aveva colpito nel pomeriggio, e soprattutto alla visione di quella carrozza fantasma che correva lungo la via Maqueda; egli non riusciva a comprendere quello che gli fosse veramente accaduto, né tantomeno riusciva a capacitarsi del perché qualcuno, forse l’anima di qualche fuorilegge o di qualche " mariuolo " suo conoscente, lo avesse voluto avvertire.
Non riusciva proprio a persuadersi di come fosse riuscito a scampare all’arresto, a differenza di Vito e degli altri due suoi amici. Egli, proprio grazie a quella benedetta voce udita in via Maqueda, se l’era fatta franca. Si sforzava di capire il perché fosse successo, senza riuscirvi.
Turiddu si chiese, pertanto, se non fosse il caso di andare da quell'azzeccagarbugli che suo padre gli aveva fatto conoscere, per comprendere se fosse stato emesso un ordine di custodia cautelare anche nei suoi confronti per la rapina commessa insieme ai suoi amici, o se fosse opportuno costituirsi alle Autorità.
Dopo qualche minuto di ragionamenti contorti, uno dei quali lo aveva portato a considerare anche lo stato di latitanza, chiuse gli occhi, sprofondando in un sonno ristoratore dai benefici effetti collaterali.
Due.
«Chi stai cumminannu, Turiddu?» Disse suo padre dopo che il picciotto si era alzato e si era diretto in cucina per fare colazione con un po' di latte e un " cozzo " di pane di qualche giorno prima.
«Pirchì, chi c’è, c’è cuosa?» Chiese Turiddu a suo padre.
Carlo gli chiese di smetterla di buttare alle