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Il risveglio di Empatia
Il risveglio di Empatia
Il risveglio di Empatia
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Il risveglio di Empatia

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Fantascienza - romanzo (337 pagine) - Una grande distopia che si muove tra realtà parallele e poteri occulti. Romanzo finalista al Premio Urania 2004 e 2005.


Una Terra parallela, simile alla nostra, diventa il campo di battaglia di agenti provenienti da una realtà molto distante. Fra spietati killer, deliri inquietanti, Forze cosmiche e misteriose creature trascendenti, l’empatica Stella e il tetragono agente Sid, braccati dalla polizia e minacciati da oscure rivelazioni e vendette, dovranno lottare con tutte le forze, ma soprattutto confrontarsi con segreti sconvolgenti, alla base delle loro stesse vite.


Milena Debenedetti savonese, è laureata in chimica, ha lavorato per quasi vent’anni come ricercatrice in una industria fotografica, e si occupa ora di redazione testi e collaborazione con siti Internet e giornali locali, nonché delle sue grandi passioni: scrivere e coltivare l’orto. È sposata e ha una figlia. Si occupa anche di politica: dal 2011 è consigliere comunale nella sua città.

Da sempre appassionata di fantascienza e fantastico, oltre che di fumetti, musica rock, cinema, è arrivata spesso in finale con i suoi racconti in vari premi letterari, come il Courmayeur, di cui ha vinto nel 1996 la sezione fantasy, il Cristalli Sognanti, vinto nel 2000, l’Alien, il Lovecraft, il Premio Italia, il Galassia città di Piacenza, vinto nel 2005. Ha pubblicato racconti in antologie edite da Keltia editrice, Garden, Delos Books, Flaccovio, sulle riviste Alia di Libri Nuovi, Strane Storie della Pavesio e su diversi siti internet. Con Delos Digital ha pubblicato cinque romanzi, due dei quali, Il Dominio della Regola e Il popolo spezzato, hanno vinto il Premio Italia.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateMay 25, 2021
ISBN9788825416381
Il risveglio di Empatia

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    Il risveglio di Empatia - Milena Debenedetti

    9788825410679

    Prologo

    Il ragazzo corre. Non c’è alternativa. Corre stringendo al petto un involto prezioso, anche se le gambe a ogni passo sembrano spezzarsi, anche se barcolla, inciampa, cade. Gomiti e ginocchia sono sbucciati per l’impatto con il ruvido intonaco dei vicoli, e il respiro è ridotto a un continuo sibilo, i polmoni sono un unico bruciore dolorante.

    Ma non c’è più spazio per i pensieri coscienti. La paura folle, la consapevolezza dell’incubo dietro le sue spalle lo spinge a dar fondo a ogni minima riserva di energia.

    Anche se sa che è inutile. Anche se non esiste salvezza.

    La città intorno sa già di morte. L’agglomerato di basse case azzurre, simili a cubi accatastati nel disordine della collina, collegate da un intrico di vicoli e scale dai gradini appena accennati, è completamente deserto. Qualche imposta, qualche porta lasciata spalancata da una fuga precipitosa ondeggia e sbatte, al vento caldo innaturale che ha sostituito la quiete di poco prima.

    Nessun sopravvissuto. Solo il suo piccolo fagotto. Per il resto, nessun segno di vita, neppure un crudele ricordo, un corpo inerme, un solo brandello di essere umano, di animale, di insetto. Tutti vaporizzati, meno di un giorno prima, quando ancora il sole rossastro era a metà del suo percorso nel cielo.

    Ora la notte copre pietosa la scena e attenua i contorni, ma l’oscurità aggiunge inquietudine, angoscia e paura. Nelle case al tramonto si sono accese molte luci automatiche, a illuminare l’immobilità del vuoto.

    Attraverso i vicoli, i sensori segnalano la sua presenza, accendendo le luci agli angoli delle strade quando passa, spegnendole subito dopo.

    Luce-buio…luce-buio…luce-buio…Ma quel che è peggio, la danza delle ombre è anche alle sue spalle, gli fa eco, segue il suo percorso: un’altra presenza che attiva gli ubbidienti sensori. Una presenza che non corre, segue con calma la sua traccia, lo insegue, implacabile e paziente. Un freddo ed esperto cacciatore che sa aspettare, non ha fretta; sa che la preda terrorizzata e allo stremo delle forze potrà solo mettersi in trappola da sola. È questione di tempo.

    Non è stato ancora abbastanza, no, quell’orrore totale, la scoperta di quella desolazione, al suo arrivo nel paese. A lungo si è aggirato fra i vicoli e le scale, cercando tracce, superstiti, incapace di credere a tanto. Poi un lievissimo rumore lo ha attirato verso una casa, dove ha trovato ciò che ora stringe al petto.

    Dopo aver perlustrato il luogo, non si era ancora ripreso da quella valanga di emozioni, stava cercando di recuperare le forze e la calma, lui, un adolescente, poco più di un bambino; un puro miracolo se non era ancora crollato, per l’insensata desolazione di morte.

    Ma tornando al veicolo con cui era arrivato fin lì, aveva fatto la scoperta più sconvolgente, che aveva gettato completamente nel buio la sua mente, che l’aveva trascinato giù, sull’orlo della pazzia: una carta, il quadrato giallo poggiato sul sedile, con il fulmine viola che lo attraversava. Non sapeva cosa fosse, intuiva solo che era segno di morte. Per lui, senza dubbio.

    Aveva fatto un tentativo disperato di partire, di scappare, ma il veicolo era fuori uso. Se l’aspettava, del resto. Sapeva di non poter più fuggire dalla città.

    E allora, correre, correre, correre… scappare, nascondersi, il più possibile, finché regge il fiato, finché la mente non crolla. Strappare alla vita anche solo pochi istanti, tenere a distanza l’inesorabile.

    Un sibilo acuto, e tutte le luci dei vicoli si spengono. Il suo inseguitore ha messo fuori uso la centralina dei sensori. È stanco di aspettare, e deve essere abituato a muoversi al buio.

    Ora il ragazzo non riesce più a orizzontarsi, la notte è profonda e oscura, i suoi occhi non riescono a distinguere qualcosa fra le ombre. Ora il panico è al suo culmine.

    È sicuro che, al contrario di lui, il nemico veda benissimo. Sa dove andare. E dove incalzarlo.

    Di lì a poco il destino si compie. Il ragazzo è finito in un vicolo cieco, privo di porte e finestre. A tentoni cerca invano un passaggio lungo i ruvidi muri, un appoggio per salire, qualsiasi cosa. Tornare indietro sarebbe inutile, sa che l’altro lo aspetta al varco.

    Alla fine rinuncia. Ogni minimo istinto di conservazione è dissolto. Solo la sua mente continua a ripetersi: non voglio morire… non voglio morire… non voglio morire… non voglio morire…

    Si è accasciato contro un muro, la testa china, stringendo sempre di più il fagotto al petto. Non ha più pensieri. Non ha più volontà. Gli sfugge una specie di singhiozzo.

    E lo sente arrivare. È vicino, ormai.

    Un globo giallo di luce danza su di lui, si posa su una delle lampade del vicolo, che subito si riaccende. Il ragazzo trova, chissà come, il coraggio di rialzare la testa.

    Lo vede. La mano guantata di lucido metallo argenteo, la mano fatale che poco prima ha lanciato l’innocuo globo, ma che pure sa lanciare ben altro, è ancora alzata nel gesto.

    Un fisico sottile, minuto, la grazia di un danzatore. E il viso, quel viso… Non può essere…

    Gli si riaccende nella mente una scintilla di ragione. Non può chiamarla speranza, non oserebbe tanto.

    – Con o senza grande dolore, la tua essenza è prossima alla meta.

    L’altro ha iniziato la sua cantilena, con una voce bassa, quieta. Quasi tenera. Eppure quell’intonazione è più sinistra di una spietata ferocia, più cupa dell’odio e della rabbia.

    – Chiedo il diritto di parola! – lo interrompe, quasi gridando.

    La consuetudine è legge, e dev’essere rispettata. L’oscuro nemico arresta il suo discorso e i suoi gesti, si dispone ad ascoltare.

    Freneticamente, il ragazzo cerca le parole più adatte, il tono giusto per convincere. Come se ve ne fossero.

    – Ti conosco, eri con mia madre nello stesso campo di prigionia. Te la ricordi?

    Pronuncia un nome, ripete: – Te la ricordi?

    – Non ho obbligo a risponderti, ma … sì, ricordo.

    Queste parole sono già un successo insperato. Non si lascia scoraggiare dal tono privo di emozioni con cui sono state pronunciate, ma prosegue, con tutta l’intensità di cui è capace: – Ti prego, risparmiami. Per quell’inferno che hai condiviso con lei. Mi disse che ti aiutò. Che ti salvò la vita. Non vuoi ora ripagare il debito salvando la mia?

    Il nemico scuote impercettibilmente il capo.

    – L’unico debito è con il committente. Questo è diverso, ragazzo. Questo è solo lavoro.

    – Lavoro? Uccidermi, un lavoro? Troncare vite umane? Ma come puoi, tu che hai conosciuto la violenza, la prepotenza, che ne sei stata vittima.

    La voce è strozzata. Non riesce a proseguire, né a esprimere l’incredulo orrore che prova.

    – Il tuo diritto di parola sta per scadere – gli ricorda l’altro, rimanendo tuttavia in paziente attesa.

    – Allora, fallo per questo. L’hai visto, vero?

    Solleva il fagotto, lo apre. Un bimbo nato da poco si muove appena. Non piange neppure.

    – Non ha che me. L’ho trovato qui, è l’unico superstite. Lo stavo portando in salvo. Morirà di fame e sete. Ti scongiuro, è un bambino: abbi pietà almeno di lui.

    La mano guantata ha un guizzo leggero, muove un dito. Un lampo rosa pallido, appena percettibile, attraversa l’aria. Il neonato ha un solo movimento convulso, un tremito. Poi rimane immobile.

    Il ragazzo guarda incredulo quel corpicino esanime. Apre la bocca, ma non riesce neppure a gridare.

    – Questo non era previsto dal committente. L’ho fatto per te: così ho ripagato il mio debito. Sarai in pace, ora. Non lasci più nulla, dietro le tue spalle. La morte è inevitabile. Inutile averne paura.

    Con orrore infinito, di nuovo preda di pensieri incoerenti, il ragazzo osserva la mano alzarsi di nuovo, puntare verso di lui. Per un istante si chiede sotto che forma arriverà il lampo, se dovrà torcersi come un verme ai piedi di quel mostro in forma umana, o se a lui piacerà dargli una fine rapida.

    Come a rispondergli, l’assassino promette: – Non ci sarà dolore. Così ho deciso.

    Poi, la luce firma la sentenza.

    Capitolo I

    Realtà Non-I, meno dieci minuti all’ora Nodale

    Stella

    Non poteva affermare di non avere paura. Sarebbe stata una sbruffonata. Non era la prima volta che si trovava in circostanze del genere, ma ogni volta i battiti del cuore accelerati, il tremito di freddo, le mani che si stringevano nervosamente erano gli stessi. Non si sarebbe mai abituata. Non avrebbe mai acquisito lucidità e freddezza.

    Forse era una vigliacca. Sì, probabilmente lo era. Dopotutto, il suo ruolo era sempre di semplice osservatrice e il rischio davvero minimo. Le sue particolari sensazioni potevano essere d’aiuto a qualcuno. Magari, erano proprio quelle a impedirle di agire, a renderla così incerta e timida. O forse, era la sua mania di rimuginare, la sua eccessiva capacità di immaginare quello che poteva succedere.

    Sogghignò fra sé. Bella scusa. C’era poco da immaginare, le conseguenze pratiche le conosceva, e le aveva anche subite, qualche volta. Il che non aveva certo giovato a renderla più sicura di sé.

    Non aveva più unghie a furia di rosicchiarle. Per non parlare delle pellicine sulle dita.

    Ma d’altra parte, cos’altro poteva fare per ingannare l’attesa senza dare nell’occhio?

    Il suo secondo Ekkocafè si stava malinconicamente freddando, sul tavolino in plastica finto marmo di fronte a lei. Già aveva faticato a finire il primo. Robaccia imbevibile, dolciastra e del colore dell’acqua sporca, però una sbobba quasi innocua. Le lunghe frequentazioni della catena Ekkobar l’avevano ammaestrata, e sapeva come quello fosse di gran lunga il meno peggio, da ordinare. L’EkkXpress, quello pubblicizzato come autentico espresso italiano non era che una cosa caramellosa, bruciaticcia, che ustionava lo stomaco. Surrogato condensato e poi allungato con vapore, le aveva detto un amico che se ne intendeva.

    Poche volte, di recente, aveva bevuto un autentico espresso. D’altra parte il vero caffè era difficile da trovare, le coltivazioni erano state spazzate via dai cambi climatici. Si abbandonò sognante ai ricordi, a quel profumo lontano e quasi dimenticato. Una volta era successo a una festa privata, a casa di un amico molto ricco. E poi in uno di quei pochi bar ancora autonomi, non fagocitati dalle catene come Ekko, Smile, Yello, Mac O. Sempre più rari, sempre più costosi. Si nascondevano nei quartieri esclusivi, o in aperta campagna. Come succedeva per i ristoranti o per i negozietti artigianali, spazzati via da selfservice, fast-food e supermercati con prodotti omologati. Le pressioni economiche delle catene multinazionali li costringevano ad associarsi, smerciando solo i loro prodotti, o a trasformarsi in club privati, quelli tipo Vip, o i Bio, solo prodotti biologici. Come a dire: non soltanto possono mangiare e bere bene unicamente i ricchi, ma anche quei ricchi che diciamo noi.

    Si ricordava ancora le proteste, quando sulla Piazza Monumentale l’ultimo dei negozi Equidad era stato chiuso, sostituito proprio dal minimarket Yello, la peggiore fra le catene. Avevano consumato cioccolata calda, quella vera, cantando e ballando, e offrendone ai passanti. Doveva essere una manifestazione pacifica.

    Poi qualcuno (forse provocatori infiltrati, forse solo per rabbia) aveva tirato una tazza vuota contro la vetrina Yello in allestimento. La polcar non aspettava altro, una squadra era sbucata da dietro l’angolo, da dove sorvegliava la scena, ed erano iniziati i pestaggi, in diretta intervisiva.

    Se l’era cavata con una manganellata di striscio, poi era fuggita via di corsa, per i vicoli. Veloce come uno sprinter, le ali ai piedi per la paura. Non l’avevano fermata, quella volta. La sua schedatura era più recente, disordini all’università.

    Ora la piazza era sponsorizzata e si chiamava piazza orso polare, una marca di frigoriferi. Orso scomparso, avrebbero dovuto scrivere. Era naturale che i ricordi riaffiorassero.

    Ora, il sole giallo della Yello, illuminato di notte a intermittenza, il faccione scuro sorridente dell’insegna Ekkobar e il globo azzurro del franchising internazionale Mondosouvenir campeggiavano sui muri degli alti edifici, dalle torri medioevali. Più in alto, cartelloni luminosi, cangianti, sonori, suggerivano le nuove tendenze del mercato. Donne giovani e bellissime, veicoli di lusso, pupazzi animati. L’antico palazzo del Consiglio era stato venduto a una multinazionale delle comunicazioni, il cui logo campeggiava sulla torre più alta, insieme a una enorme antenna. Lo stesso logo era stato dipinto, a vernice fluorescente, in un angolo di ciascun meraviglioso affresco delle sale, e ogni volta che quelle immagini erano riprodotte, su libri, cataloghi o in documentari, quel simbolo doveva fare sempre bella mostra di sé, a costo di sfocare tutto il resto.

    Inutile. Non si sarebbe mai abituata, non avrebbe mai smesso di amareggiarsi e di rimuginare, di ricordare quella piazza com’era pochi anni prima, quando lei era bambina. Anche se a nessun altro sembrava importasse qualcosa di quello scempio.

    Guardò con invidia gli avventori che aveva intorno, beatamente sorridenti e intenti a parlare nel loro fone, guardando il video e raccontando i fatti loro più a voce alta, a tutti, che al loro interlocutore sullo schermo. Alla chiamata intervallavano immagini intervisive, dati d’archivio, registrazioni, musichette e inevitabile pubblicità interattiva. Una babele, un caos, un caleidoscopio di colorato e frastornante nulla. Ciascuno perso nel suo mondo, anche al tavolo con altri.

    Lei odiava tutta quella roba. Portava un fone finto solo per non dare nell’occhio.

    Sospirò. Non stava preparandosi a dare l’esame di sociologia statistica, stava aspettando che accadesse qualcosa. Una turbativa di quella quiete assuefatta.

    E doveva essere pronta a registrarne gli effetti. Un’azione dimostrativa che sarebbe stata ben poca cosa, certo, quasi insignificante. Eppure diventava sempre più difficile anche solo tentare una piccola protesta; le conseguenze erano sproporzionate, la persecuzione era tesa ad annientare anche i più piccoli segnali di ribellione, di non omologazione. Tutto ciò che non era allineato all’uniformità globale andava distrutto.

    --– oo ---

    Realtà Base, sessantun giorni prima dell’ora Nodale

    Asname

    Meni Asname, Primo Capozona delle Unità di Giustizia, dal suo ufficio osservava pensieroso il paesaggio esterno, grigio nel grigio di tanti palazzi uguali, senza luce, finestre nere come occhiaie vuote, un intrico di passerelle a ogni altezza, come a darsi forza l’un l’altro.

    Un panorama deprimente, ma familiare, a cui si era abituato. Forse, era proprio quello di cui aveva bisogno, quel giorno. Si sentiva di un umore particolarmente strano; c’erano molti modi di mandare i suoi uomini a morire, ma alcuni sembravano, chissà perché, peggiori di tanti altri.

    Aveva continuato a rimuginare a lungo su quella strana missione e sull’Elemento che le Entità gli avevano ordinato di inviare. Nonostante la sua carica di comandante, nonostante fosse anche un Tramite, uno dei pochi che potessero vantare un contatto diretto proprio con le Entità di Primo Livello, non ne comprendeva le decisioni più di chiunque altro, a meno che non fossero loro stessi a permettergli di capire. E così si era chiesto: perché inviare un novellino, che proveniva dalle terre ribelli di Anema. Certo, l’Elemento era figlio di un Prefetto governativo, aveva un notevole profilo intellettivo e un ottimo stato virtuoso di servizio; ma il profilo psichico indicava una personalità dura, priva di elasticità. Incapace di sfumature e compromessi, inesperta, rigida, per qualche verso addirittura un ingenuo. Lui stesso lo conosceva personalmente e concordava con quel giudizio; non lo avrebbe mai definito il più adatto per un’azione da infiltrato, un’indagine che si preannunciava complessa, da condurre per di più in realtà Non-I, di delicata importanza.

    A un certo punto però si era detto: se prima di lui molti agenti esperti avevano fallito, non può darsi che fossero proprio l’inesperienza, l’ingenuità, le chiavi per cavarsela? Forse questo volevano, le Entità?

    Del resto, era destinato a tenersi i suoi dubbi per un bel pezzo, come molte altre volte. E come molte altre volte, forse avrebbe capito solo alla fine, quando ogni nodo fosse sciolto, o forse sarebbe rimasto nell’incertezza per sempre.

    --– oo ---

    Realtà Non-I, meno cinque minuti all’ora Nodale

    Stella

    Guardò verso la strada di fronte, all’altro lato della piazza, ma ancora non c’erano segnali di sorta, e il suo comunicatore da polso taceva. Ma cosa aspettava, Matteo. Era in ritardo, dannazione! Poteva esserci forse qualche intoppo?

    Per distrarsi, continuò a far spaziare il suo sguardo, con discrezione, fra i volti della gente seduta ai tavolini intorno, fra i passanti che andavano avanti e indietro, pochi dei quali alzavano la testa, ad ammirare le bellezze architettoniche, peraltro quasi completamente nascoste da schermi e pubblicità. Cercava di cogliere sensazioni, ma era come se tutto fosse debole, offuscato da altri segnali più potenti.

    Poi, all’improvviso, una figura insolita attrasse la sua curiosità. Era troppo lontano per cercare di sondare il suo stato d’animo; appariva distratto, misurato nei gesti, pensieroso. Niente fone, cosa che la stupì. Aveva un soprabito scuro e una valigetta appoggiata accanto al tavolino. Era solo.

    Sorseggiava un Ekkociokocappuccio e questo la fece rabbrividire: come si poteva scegliere consapevolmente la più rivoltante e inumana fra le bevande dolciastre della lista Ekkobar? Doveva essere uno straniero, vissuto fuori dal mondo civile. Un barbaro privo di gusti.

    Ma ciò che la colpì più di tutto fu il suo aspetto, che appariva quasi irreale.

    Non poteva avere più di trent’anni, anche se non dimostrava un’età precisa. Era magro e di statura media. I capelli corti, fra il biondo e il castano, incorniciavano un viso dai lineamenti regolari. Gli zigomi pronunciati e gli occhi chiari, un po’ infossati, gli davano un’aria diversa, quasi inquietante.

    Una di quelle bellezze sottili, lontane, malinconiche, con un’ombra di dannazione. Da angelo caduto.

    Cercò di placare il rimescolio. Ehi, calma, Stella – si disse – non sei qui per questo. E quello non ti guarda neanche per sbaglio. È di sicuro un modello o un attore. E poi magari è dell’altra sponda, figurati.

    Dopotutto aveva sempre avuto un debole inconfessabile per quel tipo di bellezza. Per quei personaggi rari e sfuggenti che sembravano portare con sé un grande mistero (anche se magari era tutta scena) e che puntualmente non la guardavano neanche in faccia, lei, il tipo insignificante. Ne aveva incontrato qualcuno, all’università.

    Uno così, però, mai. Di sicuro, nonostante sembrasse fare di tutto per apparire anonimo, era distante e fuori posto, in quella piazza, fra quei tavolini, in mezzo a quella gente-finto-felice. Spiccava come un’orchidea fra le erbacce, per così dire. E non solo perché era bello. Ma per il suo atteggiamento, i gesti: tutto quanto, insomma.

    Inevitabilmente la mente di Stella se ne scappò per conto suo, a fantasticare una storia da vecchio film, in cui il fascinoso sconosciuto era un misterioso agente segreto e lei la spia di una potenza rivale. Si incontravano per caso, si combattevano, si amavano, finivano per allearsi contro un nemico comune…

    Il comunicatore ronzò, facendole vibrare il polso. Contò i segnali, l’antiquato codice morse, e il suo cuore, che per un po’ aveva seguito beatamente i ritmi del suo sogno a occhi aperti, riprese a fare tonfi sordi nel petto. Era il segnale di pericolo, non c’era dubbio.

    --– oo ---

    Realtà Base, cinquantadue giorni prima dell’ora Nodale

    Asname e Farns

    Quando l’Elemento varcò la porta, fu evidente la sua età molto giovane. Il fisico scattante e robusto di Sid Li Farns formava un bel contrasto con il piccolo, magro e rugoso Asname che lo attendeva al centro della stanza.

    Farns idolatrava il suo capo supremo, come quasi tutti gli Elementi, anche se l’aveva incontrato poche volte in vita sua; dopo i saluti formali il suo sguardo si fissò subito sul viso scavato del Primo Capozona e non si mosse più da lì.

    Asname iniziò a spiegare: – Sei stato selezionato per un incarico in realtà Non Interattiva. Una missione delicata, inutile dirlo, in un ambito del tutto estraneo. Aggiungerò anche che è pericolosa. E studiando la documentazione, ti renderai conto da solo di quanto. Sei stato scelto direttamente dalle Entità.

    Nonostante il rigido autocontrollo, fu possibile vedere un breve lampo di sorpresa, negli occhi di Sid.

    – Quando sei entrato a far parte delle Unità di Giustizia, sapevi certamente che potevi anche essere chiamato a svolgere missioni singole di indagine. Le tue qualifiche lo consentono.

    "Troverai le informazioni nella documentazione. Farai tutte le ricerche che riterrai necessarie, presso l’archivio della Casa. Avrai il solito adattamento accelerato all’ambiente che dovrai fronteggiare. Ma dovrai partire al più presto. Un’azione veloce è fondamentale.

    "Ah, un’altra cosa: nessuno dei tuoi superiori diretti è coinvolto. Dovrai mantenere la più assoluta discrezione e rispondere direttamente a me. Conosci i Regolatori, Farns?

    Non sfuggì ad Asname un altro leggero trasalimento del viso, appena accennato, prima che L’Elemento partisse, in tono inespressivo: – Una setta di assassini. Molto ben addestrati. I migliori nel loro campo. Uccidono per ricompensa, ma godono di alte protezioni e rispetto.

    – Non sai quanto alte, Farns. Persino le Entità di Primo Livello a volte li inviano in missione. E questo è uno di quei casi – osservò il Capozona, quasi distrattamente.

    Studiò di sottecchi le espressioni del sottoposto, soddisfatto di come si sforzasse di dissimulare sempre meglio ogni sorpresa ed emozione, per poi proseguire: – Devi solo sapere che un Regolatore ha ricevuto e svolto un incarico molto importante, proprio in quella particolare realtà Non Interattiva, e già questo è insolito. Inoltre subito dopo è svanito nel nulla senza neppure aspettare la ricompensa. Volatilizzato. Questo mette in pericolo enormi equilibri. Va trovato e neutralizzato al più presto.

    – Cioè ucciso? – Era evidente il dubbio di Sid: quei sicari erano ritenuti quasi invulnerabili. Il Capozona assentì. L’Elemento proseguì, dopo una breve pausa: – È sicuro che sia vivo? Che si trovi ancora in quella realtà e non sia trasmigrato altrove?

    Ancora Asname fece un semplice cenno di assenso. Ma vedendo un’ombra di dubbio nello sguardo dell’altro, aggiunse: – Entità e flussi. Loro è il dominio delle certezze. Dovresti averlo studiato, questo.

    Anche il rimprovero fu incassato senza reazioni, per cui Asname addolcì: – Naturalmente al momento opportuno, durante la missione, riceverai altre informazioni.

    Non commise l’errore di aggiungere frasi del tipo: contiamo molto su di te, o altre ipocrisie del genere. Se gli Elementi si fidavano tanto di lui, era proprio perché andava dritto al sodo senza fronzoli.

    – Inizia dalla documentazione. Lì si trova l’indizio più importante, trasmesso da chi ha tentato questa missione prima di te.

    Che questi predecessori avessero fatto probabilmente una brutta fine doveva essere ovvio e implicito, anche per Farns, senza bisogno di specificare.

    – L’indizio riguarda un individuo che ha avuto a che fare direttamente con il Regolatore e con la sua Missione. Lo chiamano il Poeta, e pare sia un Agente diretto di Empatia.

    – Agente diretto? Empatia? In Non Interattiva? Non dovrebbero essercene.

    – Infatti. Questo è uno dei punti cruciali.

    – Un Poeta. C’è solo questo appellativo?

    – Non credo che in Non Interattiva esistano molti poeti in grado di creare una Fantasmagoria. Lo troverai sicuramente, o dovrei dubitare del tuo addestramento.

    – Sì, Mia Guida. Comprendo.

    – Non credo proprio. – Asname si sedette, con una specie di sospiro. – Nessuno potrebbe comprendere, in verità.

    Sembrò quasi rilassarsi, e cambiare bruscamente atteggiamento.

    – Sarà meglio che parliamo senza cerimonie.

    Farns per parte sua era rimasto rigido e teso, per quei continui accenni di rimprovero. Poi si decise a esordire: – Mia Guida, forse il mio atteggiamento non è in linea con…

    Ma Asname lo interruppe.

    – Finiscila, Farns. Questo non è un esame. È una missione, e di vitale importanza.

    Invitò Sid a sedersi, anche se dovette insistere.

    – Ora, parti pure con le domande stupide. Tutto quello che può esserti utile e che ti viene in mente. Bada, però, ti risponderò solo se posso farlo, anch’io non ne so molto e sono vincolato al segreto.

    Sid pose la domanda che evidentemente lo tormentava dal principio.

    – È una missione suicida, Mia Guida?

    Il Capozona cercò con cura le parole.

    – Non credo che le Entità ti abbiano scelto deliberatamente per sacrificarti. Credo che contino su di te, invece, per qualche motivo particolare. So solo che tu sei molto diverso, come profilo e caratteristiche, da tutti gli altri che finora hanno tentato questa missione. Però i rischi sono comunque molto elevati.

    – Sono morte molte persone, Mia Guida? Erano Elementi?

    – No, appartenevano ad altre organizzazioni. Tu sei il primo Elemento inviato in questa missione. Comunque non si sa se siano morti, e in che modo. Sono semplicemente scomparsi. Mi rendo conto che questo non è incoraggiante.

    – Al contrario, meglio sapere. Immagino che né l’identità né la natura della missione del Regolatore siano specificate.

    – Infatti. Dovrai cercare delle risposte per conto tuo. Esiste qualche traccia, se sarai abile a trovarla.

    – Capisco.

    Dopo quest’ultimo commento, Sid se ne rimase in silenzio, a riflettere.

    Invece di congedarlo Asname si alzò e si diresse a un armadietto, uno dei pochi mobili dello scarno arredo.

    Ne trasse una bottiglia con un liquido dal colore ambrato, due bicchieri, e una scatoletta.

    Sid lo guardava in tralice, cercando di mantenere un’espressione neutra.

    Dalla scatoletta estrasse una pastiglia, se la mise in bocca, la inghiottì con un sorso di liquido.

    – Sai di che si tratta, Farns?

    – Sì, Mia Guida. Ma non credevo che fosse permesso, qui.

    – Infatti non lo è. Vuoi assaggiare?

    – No, io non faccio uso di sostanze psicotrope.

    – Neppure alcolici? Questo è permesso.

    Indicò la bottiglia, ma l’Elemento fece un lieve cenno di diniego.

    – Sei una specie di moralista, Farns?

    Lo scrutò, aggrottando la fronte e cercando di cogliere l’essenza del suo sguardo, prima di rispondersi da solo.

    – No, non credo proprio. Penso davvero che tu ci tenga a conservare sempre la lucidità al massimo, e che rifiuti l’idea stessa di emozione. Non è così? Be’, questo potrebbe darti dei problemi, nella tua prossima missione. Potresti essere costretto a cambiare punto di vista. Se fossi in te, cercherei di avere quante più informazioni possibili su Empatia. E non solo informazioni, anche sensazioni. Anche se per farlo dovessi andare a frugare nell’anima, nelle stanze dimenticate, dove non si fa mai pulizia. Dove si tengono le cose spiacevoli.

    Asname cercava di infondere intensità nella voce e nello sguardo. Si era accorto che Sid iniziava a provare un leggero disagio: forse pensava che lui fosse sotto l’effetto della pastiglia. Invece era lucido come non mai, solo attento a suggerire senza dire. Sperava che l’Elemento cogliesse le allusioni, e capisse che in qualche modo, anche adesso, potevano essere osservati.

    – Da quanto tempo non vai dallo Psicosensore? Parecchio, vero? La tua scheda dice che segui solo il programma obbligatorio, e che la tua mancanza di collaborazione è sconfortante. Proprio così dice: sconfortante.

    Sid si irrigidì di colpo.

    – Ho sempre fatto tutti i controlli prescritti.

    – Già, già. Ma non ti sto mica rimproverando, Farns. Perché ti metti subito sulla difensiva? Dimmi, per quale motivo ti sei affiliato alle Unità?

    – Per avere un mio posto nello schema generale. Volevo aiutare chi ne ha bisogno. Tutelare la giustizia.

    – Questa è la formula ufficiale, certo. Per molti non sono che parole vuote. Sono convinto che tu ci creda davvero, e lo hai già dimostrato. Il Prefetto tuo padre doveva essere orgoglioso di te.

    Un leggero guizzare di un muscolo, sulla guancia di Sid, fu l’unica reazione a questa frase. Asname comprese che in qualche modo quel commento aveva suscitato sofferenza. Ma non si arrese.

    – Ricordo bene il tuo paese, Anema, la terra del vento. Ci vuole un po’ a farci l’abitudine, al Soffio. Ma alla fine capisci perché molti nativi non riescono a rimanerne lontani. È come un grande respiro incessante che li sorregge. Tu hai nostalgia della tua patria, Farns? E della tua gente?

    – Non molta. Sono sempre stato poco incline a questi sentimenti. Un luogo vale l’altro, un popolo vale l’altro, se si è in pace con se stessi. Però ricordo le Unità, ad Anema, e quello che seppero fare per noi. Mi ricordo di voi, Mia Guida.

    – Eri un ragazzo, allora. Ma saprai che altre volte, prima di allora, le Unità calpestarono il vostro suolo. Non sempre senza ombre.

    – Quello è solo il passato, Mia Guida, ed era per sedare una ribellione sanguinosa. Ora niente può cancellare l’aiuto che ci avete dato.

    Fu Asname, dopo quelle parole, a provare un disagio improvviso, come sempre quando si rammentavano i suoi trascorsi, e l’impulso di congedarlo prima di mostrare sentimenti sgraditi.

    – Puoi andare ora, Farns. Non penso di avere altro da dirti. Buona partenza. Se non altro per un po’ di tempo avrai il privilegio di evitarti l’Incontro e andartene da questa città cupa. E poi, te ne accorgerai, le missioni in Non Interferenza sono sempre molto interessanti, ma quella realtà in particolare porterà incremento alla tua saggezza.

    Se tornerai – fu il pensiero inespresso di Asname.

    --– oo ---

    Realtà Base, quarantasette giorni prima dell’ora Nodale

    Sid

    Quella sera, l’Elemento se ne rimase a lungo pensieroso, davanti alla finestra del suo minuscolo alloggio.

    Sid Li Farns preferiva farsi chiamare solo Farns, da quando si era arruolato. Quella piccola sillaba, Li, ricordava troppo il suo passato e le terre di Anema, non troppo benvolute fra le Unità.

    Al tramonto, il cielo della città di Adrera era verdognolo, e l’aria aveva sempre un sentore acre.

    Di tanto in tanto, sulla passerella poco sopra il davanzale si affrettavano personaggi di ogni sorta, immancabilmente salutavano: all’Incontro! – e lui rispondeva distratto, senza interrompere il flusso dei pensieri.

    Non gli era difficile adattarsi ai costumi locali, inclusa la totale mancanza di riservatezza. In molti maledicevano la convenienza che aveva voluto proprio lì, in quella deprimente e cupa megalopoli, la sede centrale delle Unità. Solo gli Archivi e pochi uffici e alloggi dei capi erano schermati, per motivi di sicurezza. Alcuni Elementi richiedevano la stessa eccezione, per non impazzire, anche se questo significava una macchia sullo stato di servizio e un ritardo nella carriera.

    Non lui. Salutare meccanicamente o scambiare due parole con chi percorreva le passerelle a ogni altezza, non era un problema, lo lasciava indifferente. Un dovere come tanti altri.

    Il tramonto malato le prime volte affascinava tutti, ma guai a parlarne coi residenti! Per loro era solo lo spiacevole ricordo di guerre e catastrofi passate che li avevano quasi sterminati e costretti a lottare uniti per riprendersi. Da allora avevano preso l’abitudine di costruire case ammassate unite da passerelle. Per sentirsi un tutt’uno. Solitudine equivaleva a morte, nel loro ricordo.

    Non era per sfuggire a incontri importuni, che Sid aveva trascorso ore e ore negli Archivi schermati, per giorni, dopo l’incontro con Asname, finché un feroce mal di testa lo costringeva a smettere di assorbire informazioni. Non voleva perdere neanche un istante, prima di partire per quella missione. Ma la situazione era scoraggiante.

    Prima di tutto, i dati sull’incarico vero e proprio erano ancora più scarni di quanto avesse temuto. Praticamente non molto

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