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Bianco nero e giallo
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Bianco nero e giallo

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About this ebook

Quando e chi può dire che un delitto sia da considerarsi perfetto?

Quanto più imperfetto sarà stato il lavoro investigativo, tanto maggiore

è da intendersi la quota di perfezione che va riconosciuta

all'esecuzione del delitto. Ed è quel che nei fatti avvenne a Torino nel

febbraio del 1958, quando Diabolich, non quello del fumetto, uccise

Mario Giliberti, giovane operaio pugliese che lavorava in Fiat. Fu,

dunque, un delitto senza giustizia commesso da un assassino senza volto,

che però si firmò Diabolich. Per anni tutto fu avvolto nel silenzio,

finché 47 anni dopo il delitto spunta fuori una misteriosa e-mail. Il

caso Diabolich potrebbe riaprirsi. E sarebbe un cold case

all'italiana.Come unica nella storia della Giustizia, e dunque

all'italiana, fu la sentenza emessa da una Corte d'Assise – era da poco

iniziato il secolo breve – che condannò a vent'anni di reclusione un

giovane di origini calabresi accusato di aver ammazzato il conte Ubaldo

Beni. Erano tempi bui e di fame nera, e se in casa di un contadino si

metteva a tavola una scodella di brodo di pollo, delle due l'una: o era

malato il pollo o era malato il contadino. Se ne parlò diffusamente

della morte del conte, ma più del delitto, clamoroso fu il processo che

riconobbe e certificò come prova un fenomeno di telepatia, che valse la

dura condanna a Baldo Veneziani. Telepatia e giustizia: e se ne ebbe eco

anche in Francia, oltre che in Italia.Storie che incrociano i percorsi

degli enigmi di provincia, ma anche storie inconsapevoli e tuttavia

possibili perché racchiuse negli archivi giudiziari, dove pure un caso

di ipnosi svela una inquietante vicenda. Storie minime e di provincia

non ancora occulta, eppure luogo denso di enigmi e misteri luccicanti

come lingotti di platino o roventi come il fornello di una pipa la cui

crepa, nell'immaginario dell'Autore disvela la trama di un delitto senza

tempo.
LanguageItaliano
PublisherRaf Editore
Release dateMay 19, 2021
ISBN9788894617511
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    Book preview

    Bianco nero e giallo - Lello Vecchiarino

    diventato.

    I

    A Mario quel colpo d’occhio non dispiaceva e ciò che vedeva, sera su sera, gli metteva addosso una tale agitazione da allontanargli perfino la stanchezza.

    Si lasciò sommergere dall’intreccio dei dialetti: un ronzio che accompagnava la folla di operai verso il grande piazzale, fino all’uscita dai cancelli.

    I cancelli della Fiat.

    Da lì partiva una lunga corsa, sciatta e collettiva, verso i tram: sempre alla stessa ora ululata dalla sirena: 17 e 30.

    La borsa che portava stretta sotto il braccio aveva la zip che faceva le bizze. Non chiudeva; e così, come per quelle conosciute e strane sensazioni introdotte dagli oggetti inanimati, gli sembrò che l’aria fosse ancor più fastidiosa e gelida.

    Anche le luci in quel freddo febbraio torinese sembravano più livide; viste attraverso i finestrini del tram scurivano i pensieri, ancora non del tutto slegati dalle otto ore passate al banco di montaggio.

    L’operaio scese dal mezzo salutando i compagni. Si avviò verso l’abitazione di sua cugina per ritirare un pacco di biancheria. Il bavero del cappotto alzato, le mani spinte nelle tasche, guadagnava la strada a passi svelti.

    Quasi correva sempre quando lasciava la fabbrica: non tanto per allontanarsi in fretta dal luogo di fatica, quanto per andare incontro all’altra metà della serata. Lo si sarebbe detto voglioso di giungere in anticipo a un appuntamento galante, ma si sapeva, nella cerchia dei suoi amici, ch’egli pativa la timidezza quanto e più si patisce un morbo di fisica ragione.

    Pochi s’accorsero che il cielo torinese non s’era ingrigito prima del solito: febbraio, quand’è a metà, sa già di marzo. Ma il freddo, quello sì, pungeva a tutti le gote.

    Era il 14 febbraio 1958.

    Mario Giliberti, ventott’anni, operaio alla Fiat, attraversò la Vanchiglia, una zona popolare dove abitava in un pianterreno; meglio: viveva in due locali un tempo utilizzati come negozio e retrobottega dal cugino Giuseppe De Marco, anch’egli operaio che però aveva mantenuto intatta la passione per il suo vero mestiere di calzolaio.

    Mario aveva dovuto adattarsi dopo che gli era giunta la chiamata da Torino: una casa vera e propria fu difficile fittare, e se non fosse stato quel parente a trovargli posto di lavoro e alloggio, il suo futuro avrebbe percorso un sentiero simile a quello di tanti altri compaesani; ristretti a vivere in una cittadina di provincia a pochi chilometri da Foggia.

    Era salito da Lucera con in tasca il sogno del posto in fabbrica: alla Fiat, come dicevano dalle sue parti planando sull’a. Di quell’intruso accento seppe liberarsi non appena cominciò a frequentare la scuola Giovanni Agnelli, dov’era considerato fra i migliori del suo corso: per profitto e assiduità.

    Anche oggi? É una settimana che non viene, e non ha inviato nemmeno un certificato medico».

    Il caporeparto si interrogò a mezza voce mentre riempiva il mattinale da mandare all’ufficio personale. Il ragioniere rigirò fra le mani il modulo su cui erano segnate le sette assenze, senza giustificazione, dell’operaio Giliberti Mario. Non si era messo in mutua, nessuna richiesta di ferie o permessi era giunta in ufficio. Neppure gli amici riuscivano a spiegarne il silenzio. Lo cercarono, inutilmente.

    La porta della sua abitazione era chiusa a chiave, sicché infilarono sotto l’uscio un biglietto per chiedergli di farsi vivo. Per qualche giorno amici e parenti si affannarono ancora: chiesero in giro, inviarono telegrammi a Lucera dove viveva la sua famiglia. Due incaricati della Fiat bussarono alla porta del pianterreno, e dalla portinaia dello stabile si sentirono rispondere che era inutile insistere: «Quel giovane, sono dieci giorni che non dà più notizie. Anche altri lo hanno cercato».

    Il marito della donna, Pietro Pollo, avvertì il padrone di casa, l’ingegner Vittorio Castagno, e questi ricordò che il Giliberti aveva lasciato una chiave dell’alloggio al cugino, De Marco, da cui aveva rilevato i due ambienti. De Marco era a casa; confermò subito di avere la chiave e volle andare egli stesso assieme a Nicola Bottazzi, zio del Giliberti, a vedere cosa fosse successo. Al ritorno, l’ingegner Castagno propose di passare dal commissariato Vanchiglia perché preferiva entrare nell’alloggio accompagnato dalla polizia. A loro si unì il maresciallo Tasso.

    Erano le 21 e 40 del 25 febbraio 1958, quando la porta dell’appartamento fu aperta. L’alloggio era costituito da una camera (l’ex negozio), e aveva una serranda che dava sulla strada e che il nuovo inquilino non apriva mai. Poi, un’anticamera (il retrobottega), a cui si accedeva per una porta che dava sull’andito della casa. Tutto era arredato con modeste masserizie: nella stanza, un letto, due sedie, un tavolino, un armadio.

    Il gruppetto trovò la luce spenta nel primo locale e accesa nel secondo. Il silenzio carico di apprensione rese più pungente il tanfo che, persistente, si avvertiva. Bastarono pochi attimi, confusi ai passi in direzione dell’altra stanza, per impadronirsi della tragica immobilità della scena.

    Il sangue sgorgato dalle ferite s’era raggrumato diventando nerastro sul pigiama e in larghe chiazze sul lenzuolo. Avvolto da due cappotti e una coperta, il corpo del giovane era riverso sul letto. Macchie di sangue sui muri e sul pavimento della camera «ove regnava», si lesse il giorno dopo sui giornali, «un incredibile disordine», come se si fosse svolta una lotta disperata.

    Ma perché «incredibile» quel disordine?

    Forse perché rapportato, nella mente del cronista, alla credibilità (al credere, al voler credere e, forse, al dover credere) che nel volgere di qualche ora la polizia avrebbe rivelato il nome dell’assassino.

    Veniva, quindi, proprio dall’incredibile disordine una prima dose di sicurezza nel ritenere che l’assassino avesse, se non le ore, i giorni contati: fra tanto disordine e macchie di sangue non c’era traccia di alcuna preoccupazione, da parte dell’uccisore, di nascondere appunto le tracce.

    Ma inseguiamo la cronaca per sapere che «gli agenti, constatato che il disgraziato era ormai morto e che anzi, la morte, a detta del medico legale, risaliva certa­ mente a una decina di giorni or sono, cioè verso il 14 o il 16 febbraio, prima di toccare qualsiasi cosa, compivano un delicato lavoro scientifico per il prelievo delle impronte e per vedere se vi fossero elementi atti a dare un volto all’assassino. Pare quasi di leggere un giallo».

    E si vedrà quanto profetico fu tale «parere» che al cronista servì per introdurre altri particolari del macabro inventario di morte: l’interruttore della luce era intriso di sangue, ma non era possibile prelevare impronte; la luce era accesa; evidenti segni indicavano che il criminale si era lavate le mani.

    Già, la luce era accesa; ma non si poteva interrogare la lampadina. L’interruttore, quello sì, aveva qualcosa da dire, col linguaggio delle cose inanimate...

    Era del tipo a farfalla: mezzo giro per accendere, mezzo giro per spegnere la lampada che pendeva dal soffitto. Proprio sulla chiavetta di bachelite c’erano vistose macchie di sangue.

    Entrando, la polizia trovò la luce accesa. Se c’erano, dunque, macchie di sangue sulla chiavetta, era segno evidente - di quella evidenza, però, che non lascia segni nell’economia di un’indagine, salvo a rivelarsi postuma - che l’interruttore era stato attivato dopo che fu compiuto l’assassinio, e attivato proprio dalla mano dell’assassino; mano, appunto, intrisa di sangue.

    C’è da essere certi: il delitto avvenne al buio. Ma perché Mario Giliberti e il suo carnefice si trovavano al buio?

    Inquietante interrogativo- se inquietò e se fu posto­ soprattutto perché fu certo che l’assassino, prima che tale diventasse, entrò in quella stanza senza forzare la serratura; anzi: entrò da gradito ospite, ben conosciuto alla vittima.

    La meccanica del delitto sinteticamente racchiusa nei rapporti di polizia diceva infatti di quella visita e non di un’intrusione. Dopo essere rincasato, a tarda sera Giliberti ricevette, per l’appunto, la visita del suo assassino: lo conosceva bene, evidentemente. Rimasero un poco insieme, poi il giovane operaio andò a letto.

    Spiegarono, medico e polizia, che fu ucciso nel sonno: colpito con un pugnale («non un coltello comune, ma uno stiletto particolarmente sottile e affilato») alla gola, al petto, al basso ventre.

    Forse lo sventurato operaio cercò di gridare, di divincolarsi: sulle sue mani c’erano escoriazioni. L’omicida gli tappò la bocca con un lenzuolo e continuò a colpire.

    Poi mise sottosopra l’alloggio, vuotò il portafogli della vittima, preparò un incerto e monco cartello di sfida e l’appese al pomello di uno sportello della dispensa.

    Se ne andò chiudendo la porta dall’esterno con chiavi sue, dal momento che quelle di Giliberti vennero ritrovate su di un cassettone. Appeso alla dispensa il cartello recava scritto: Riuscirete a trovare l’assino..?.

    L’ultima parola era incompiuta, terminava con uno scarabocchio, forse il punto interrogativo.

    «Buongiorno, La Stampa. Dica pure».

    «É avvenuto un delitto...».

    «Pronto, come dice?».

    «... Un delitto in via del Po».

    «Dove? ».

    «Sì, accanto al Po».

    «Scusi, ma chi parla?».

    «Sono l’assassino, e adesso scappo...».

    L’anziana centralinista riagganciò la cornetta, ristette per un attimo a guardare gli scarni appunti scritti a ma­tita sul blocchetto della Talmone, chiamò l’interno della cronaca. Al capocronista riferì di una voce «soffocata, affannata e scossa dai singulti».

    Erano le 11 del 24 febbraio.

    Il giorno dopo la polizia era entrata in casa di Mario Giliberti scoprendone il cadavere. Quello stesso giorno, il 25 febbraio - almeno tredici ore prima che si appurasse la tragedia - una mano ignota spedì, verso le 19 o le 20, dalla stazione di Porta Nuova due lettere: una alla polizia, e precisamente al commissariato di Borgo Po, l’altra al direttore de La Stampa, il più diffuso quotidiano piemontese.

    Identico il contenuto, ché erano state scritte con la carta carbone: forse un accorgimento per fuorviare una possibile perizia calligrafica.

    La lettera: non mancò chi, al giornale e in commissariato, si affrettò a bollarla con una di quelle parole che viene usata a mo’ di mano che scaccia via il fastidio di una mosca: farneticante.

    Un farneticare dell’ignoto autore che si firmava: Diabolich.

    II

    Caro Ispettore

    Sono venuto da Lontano per via

    di compiere IL MIO DELITTO, da non confon-

    dersi con uno qualsiasi. Ho studiato La cosa Perfetta

    In modo Da non Lasciare Traccia ne-

    anche di un ago. Con il delitto è cessato insi­

    eme l’odio per lui. Questa sera Parto ore 20

    Un tempo io e la vittima eravamo molto

    amici e portavamo la divisa insieme. Poi lui mi tradì

    come se fossi

    un cane

    Oggi stava bene e Così che la mia vendetta

    Lo A’ Raggiunto.

    Spero che scoprirete il suo cadavere prima

    che diventi marcio.

    leggendo con attenzione la mia lettera troverete

    con precisione dove è stato compiuto

    Il Mio DeLITTO perFetto.

    DiAboLich

    Un foglio Identico a questo

    è stato spedito alla questura

    dato che parto mi piace Informare

    Il giornale Legga La lettera e

    scoprirà il l’uogo con precisione

    CoCCia AL CADAVERE

    Un fotografo ebbe l’incarico di riprodurre in più copie la lettera. Occorreva decifrarla, e nulla doveva essere lasciato al caso.

    Ma il caso volle che quelle poche righe oltre a impressionare la pellicola, si disposero anche a far presa sulla mente del fotografo: lesse e rilesse le parole scritte sul foglio quadrettato, e qualcosa, appunto, non quadrava.

    Un qualcosa che principiò a pesare come un punto interrogativo nei pressi dell’unica risposta, quand’essa vale la soluzione di un quesito. Come se a un bivio del­ la sua mente cominciassero a scorrere rivoli tremuli di pensieri, di quelli che si insinuano senza far danno e s’appigliano ai ganci della memoria.

    L’occhio, ancora una volta, si fermò a brucare dalle parti del margine destro di quel pezzo di carta; e non il margine dove finiva il foglio, ma dove terminava la zoppicante scrittura.

    Scattò, curioso, un meccanismo di ricordi e confidenze, simile a quello di un gioco inesplicabile e pure invitante. Intuitivamente, di gioco si trattava (enigmistica), e invitante (per contenuto di scrittura che tragicamente sfidava il lettore) lo era di certo.

    Si erano provati qua e là ad anagrammare parole e interi periodi. Nulla di logico e intelligibile se ne cavava fuori. Avevano anche pensato a qualcosa che stesse nascostamente - a mezzo tra il rebus e la sciarada, ma in un commissariato di polizia poco posto trovano esercizi apparentemente meno seri dell’apparente serietà di certi verbali.

    E lasciarono correre; come sul piano inclinato della follia sembrava correre quel messaggio che parlava di morte per consunzione di vendetta.

    L’occhio del fotografo (senza metafora: ché non era l’obiettivo della reflex) s’attardava, dunque, sul margine destro, nel tentativo di svelare quel che di solito un acrostico svela. Ma le parole gli sembravano ora spinte ora tirate, quasi che ogni rigo di scrittura fosse stato, per la bisogna, ristretto o dilatato.

    Il fotografo ricordò che qualcosa di analogo gli accadeva di fare quando, scolaro, dichiaratosi in cuor suo vinto dalla difficoltà della divisione in sillabe evitava di andare a caporigo per timore di mozzare malamente le parole.

    Furbizia antica, come la falsa cancellatura presso il margine: altro non era che il mal riuscito calcolo sulla retrattilità del periodo scritto. Nello svolgere considerazioni sulla lunghezza (o cortezza) dei righi, egli si sentiva aiutato dal fatto che la missiva era stata scritta su di un foglio slegato da un quaderno di computisteria.

    Il foglio quadrettato, insomma, finì per misurare e svelare il mistero racchiuso in quella lettera che lo stesso autore, non senza significato, aveva diviso in due parti.

    Proprio nella prima parte qualcosa non quadrava: nel senso che, confrontandola con la seconda, la scrittura appariva più sofferta nell’impegno della divisione in sillabe.

    Cosa celasse quella missiva, il fotografo lo scoprì mentre ne eseguiva la riproduzione: le lettere terminali del primo capoverso indicavano, se lette di seguito, un indirizzo: via Fontanesi 20.

    Le due grigie stanze a pianterreno dove senza vita era stato trovato il corpo di Mario Giliberti. Quella lettera, però, era stata spedita prima che il delitto fosse scoperto: a far fede era il timbro postale.

    Dunque, Diabolich aveva ucciso e firmato il suo delitto: nessun altro avrebbe potuto sapere, prima delle 21 e 40 del 25 febbraio, che in via Fontanesi era stato compiuto un omicidio.

    A Torino si era stabilito da poco meno di due anni; dopo, cioè, il congedo dall’esercito. Quasi interamente a Lodi - fatta eccezione per brevi trasferimenti a Mera­ no, Bolzano e Udine - aveva prestato servizio militare: sottufficiale radiotelegrafista del Genio.

    Per i primi due mesi, Mario aveva vissuto in casa dello zio Nicola Bottazzi, anch’egli emigrato vent’anni prima dalla cittadina pugliese. Poi si era trasferito nella pensione di Anna Scalisi, in via Carlo Alberto 4. Qui conobbe Angelo Capello detto Piero, nativo di Brescia: l’amico che sarebbe poi andato a cercarlo infilando un biglietto sotto l’uscio per invitarlo a farsi vivo.

    Piero era uomo di fiducia in un’impresa di lucidatura di pavimenti, e presso quella ditta fece occupare Mario. Ma l’ex sergente non doveva particolarmente gradire quel lavoro se, dopo alcuni mesi, preferì trasmigrare presso una società di assicurazioni. Non durò molto a procacciar polizze, ed ecco giungere l’assunzione alla Fiat: operaio generico, poco più di trentaduemila lire al mese.

    Al numero 20 di via Fontanesi l’operaio abitava da un anno. Nella stanza c’era ancora la tramezza di vetro che separava il laboratorio dal negozio, e lì ancora erano depositati gli attrezzi del mestiere di suo cugino.

    In quell’alloggio, venti giorni prima del delitto, i due cugini s’erano incontrati. Mario aveva palesato il proposito di sposare una ragazza che viveva a Lodi. L’aveva conosciuta quattro anni prima, si chiamava Luisa Bianchi, 24 anni, lavorava presso un distributore di benzina.

    «Lo trovai di umore buono», raccontò Giuseppe De Marco alla polizia ricordando quell’incontro avvenuto il 4 o il 5 febbraio, «e facendo progetti sul futuro matrimonio mi disse che durante le ferie d’agosto sarebbe andato a Lacera a parlare con i famigliari e fissare la data delle nozze per il periodo natalizio».

    Erano progetti che Luisa conosceva, come pure sapeva che Mario aveva messo da parte un milione di lire; glielo aveva scritto in lunghe lettere spedite a Lodi.

    Nell’ultima lettera partita da Torino in data 1° febbraio, Mario le aveva lasciato capire che qualcosa era accaduto, e che occorreva affrettare i tempi per il matrimonio.

    Qualcosa che indirettamente diceva di un’angustia celata e tuttavia manifestata attraverso un avverbio - «immediatamente» - che non casualmente campeggiava nella lettera.

    Un avverbio che l’ufficialità dell’inchiesta aveva in qualche modo opacizzato nel significato, ma che a noi pare - qui ed ora- da scandagliare: per cercare l’intima ragione di quella fretta che Mario andava mostrando; e soltanto alla sua ragazza.

    E di «umore buono» non poteva essere, se nella sua ultima lettera raccomandò alla fidanzata di inviargli «immediatamente» (e pensiamo al telegrafo, al telefono) la misura dell’anulare della mano sinistra, volendo regalarle l’anello di fidanzamento, poiché aveva deciso di anticipare le nozze al mese di aprile.

    «E questo perché» raccontò Luisa «Mario aveva avuto comunicazione da una zia residente a Lucera, la quale gli aveva predetto, in una lettera speditagli appositamente, che non avrebbe potuto coronare il suo sogno con la ragazza lodigiana».

    Se già dal 1° febbraio Mario aveva deciso di accorciare i tempi delle nozze, perché mai al cugino, il 4 o il 5 di quello stesso mese, confidò che si sarebbe sposato a Natale?

    Mentì al cugino, o il cugino nascose la verità alla polizia? E perché nasconderla e tentare di rafforzare la menzogna con quel riferimento all’«umore buono»?

    Forse che il parlare di malumore avrebbe dato la stura a congetture e domande poliziesche cui il De Marco intendeva sottrarsi; e non sappiamo se con buonumore o malumore riuscì a sottrarvisi durante le lunghe ore di interrogatorio cui fu sottoposto. La perentorietà di quell’immediatamente, poi, stride con un’altra circostanza: era dal Natale del ‘56 che Mario e Luisa non s’incontravano, preferendo che a coltivare il loro rapporto fosse lo scambio di lunghe e affettuose lettere.

    Se quindi mancavano due mesi al matrimonio, che bisogno c’era di regalare l’anello di fidanzamento?

    Par di capire che Mario avesse urgenza e necessità di ufficializzare il fidanzamento - come usava dalle sue parti, al sud, dove i fidanzati si scambiavano ancora il brillantino a mo’ di ipoteca e impegno davanti ai parenti - per vanificare quella predizione; che predizione non doveva essere. O non soltanto.

    La profetica zia lucerina non fu mai interrogata, e la sua predizione restava consegnata soltanto ad una lettera che a Mario dovette procurare turbamento. Come il turbamento degli investigatori di fronte alla lettera di Diabolich; ma non immediatamente.

    Ben diversamente per Luisa: quando dalla finestra di casa sua scacciò i cronisti - «Non dico più niente. Non voglio che l’assassino mi faccia del male» - non sappiamo se timore e apprensione le erano causati dal­ l’una o dall’altra lettera. O da tutt’e due.

    E come non credere, a questo punto, che quel non voler più dire svelasse, invece, la paura propria addensata alla preoccupazione che Mario pure le avrà manifestato? Luisa l’avrà ritenuto preoccupato, e di una tale preoccupazione che - per certi segnali, per quella predizione - in lontananza un pericolo cominciava a farsi largo.

    III

    Sotto quella penna il delitto sembrava scomporsi in tanti rigagnoli di verità e beffa: e s’intrecciavano qua e là fino a ingrossare un fiume di apprensione cui neanche il ricorrente giudizio - «farneticante» - che della missiva veniva dato riusciva a prosciugare.

    A impressionare gli investigatori non era tanto il contenuto della lettera firmata dal misterioso Diabolich, quanto il tenore della sfida intrisa di spavalderia. Una sfida sapientemente misurata; di una misura che costringeva l’autore a essere delatore di se stesso, ma fino a un certo punto...

    Intorno a quel punto, pur girando a vuoto, l’indagine prendeva la forma di un interrogativo: non bastando da sole sfida, spavalderia e beffa a rendere una convincente spiegazione, perché mai la necessità di scrivere era stata superiore - nel calcolo che sicuramente Diabolich aveva svolto - al rischio di essere scoperto?

    Anche per tutto ciò, appariva un caso indecifrabile, come l’astratto di certi quadri: un coacervo di colori e linee che a ben guardare, a lungo guardare, prima o poi restituiscono agli occhi una sembianza, un’allusione conosciuta, e tale da dare significato a tutto il resto della tela. Ma per quel caso, la tela restava bianca.

    Svelato che fu il criptogramma con l’indicazione del luogo in cui si trovava la vittima, ecco che sotto diversa luce dovettero apparire le affermazioni contenute nella lettera. Ad uso di indagini, quelle affermazioni diventarono indicazioni man mano che gli investigatori si chiedevano perché mai Diabolich potesse permettersi il lusso di fornire elementi certi - perché tali apparivano - come il riferimento alla divisa che un tempo io e la vittima indossavamo, al tradimento?

    Quale che sia stato il movente, di quel delitto Diabolich sapeva, sin dall’inizio degli atti preparatorii, che sarebbe stato perfetto?

    Lo si sarebbe detto armato di una sicurezza cui la spavalderia recava, appunto, un tocco di diabolicità. E ne scrisse, di questa sua sicurezza quasi a voler dare la misura della propria intelligenza. Come se il delitto non gli appartenesse; o gli appartenesse fin troppo: a un punto tale d’appartenenza (o di estraneità) da sentire il bisogno di lanciare non una ma due sfide: caccia al cadavere e caccia all’assassino.

    Un delitto perfetto - Il Mio Delitto perfetto - dunque, e di una perfezione che si saldava alla sicurezza dell’impunità, dell’imprendibilità.

    Un nodo difficile da sciogliere.

    Sarebbe stato utile appurare se quella sbandierata perfezione traeva tonificante sostanza dalla sicurezza, o se, viceversa, l’assassino si sentiva sicuro perché per­ fetta riteneva l’impresa.

    Nel primo caso l’impalcatura oggettiva - l’ammazzamento, il confondere le tracce, il non lasciarne - si reggeva su un piedistallo soggettivo, e cioè l’intima convinzione che aveva l’assassino di poter confidare sulle proprie doti, sulla propria intelligenza.

    Nell’altro: per come era stato compiuto - oggettivamente compiuto - il delitto aveva un che di poderosa perfezione tale da rendere sicuro - soggettivamente sicuro - chi per natura forse non lo era mai stato.

    E allora: un assassino intelligente, o un intelligente assassinio?

    Ma poterono le due ipotesi fondersi e adagiarsi su un’altra constatazione: Diabolich parlò di delitto perfetto nella sua lettera, e parlò di un delitto - il suo delitto - che già dieci giorni prima dell’arrivo della lettera era stato commesso.

    E vien da domandarsi: non fu possibile che quell’ostentato riferimento alla perfezione nascesse dalla convinzione dell’assassino che il delitto doveva man mano diventare perfetto col passare dei giorni? Quei dieci lunghi giorni che separano la data dell’uccisione da quella in cui il cadavere fu scoperto.

    Quale traccia significativa era, nel frattempo, svanita?

    É come ammazzare una persona conficcandole in petto un punteruolo di ghiaccio: la ricognizione del cadavere e l’analisi della ferita approdano a risultati diversi, se eseguiti venti secondi dopo il fatto o due giorni dopo.

    Se pure la lettera appariva irreale per contenuto di confessione troppo confessata, a rileggerle, quelle parole restavano ferme come monumento alla follia auto­ accusatoria. E la follia, si sa, a volte si serve anche di pesanti verità.

    L’aver poi svelato il mistero dell’indirizzo - via Fontanesi 20 - alimentò anche il sospetto che quella confessione non fosse falsa, ché altrimenti sarebbe stata agganciata ad un delitto soltanto immaginato. E se in una confessione la narrazione o l’indicazione di una principale circostanza - l’indirizzo dove scoprire il cadavere - trova riscontro nei fatti, ecco che altre affermazioni potevano, nella mente di chi indagava, essere credibili, anche se occorreva verificarle in punto di ragione.

    Ma si sapeva: in quegli anni al detective italiano era del tutto estraneo ogni metodo interpretativo strutturato sull’analisi dei dati marginali, sugli scarti. Il procedimento razionale, insomma, aveva scarsa funzione, sicché non era Sherloch Holmes a fare scuola dominando scena e situazioni, ma la consuetudine che scadeva nel conformismo investigativo.

    Altrove, in altri settori scientifici e culturali - cui gli investigatori di questure e caserme scarsamente si abbeveravano - già un secolo prima era stato studiato e veniva applicato un metodo d’indagine basato sulla lettura degli indizi impercettibili ai più.

    Al contrario, uno dei punti fermi del concreto costume investigativo italiano dice di un principio che, se pur non trova posto in nessun codice o manuale, cittadinanza gli si dà nei verbali di polizia: ogni volta che si commette un delitto, prima o poi ci saranno chiacchiere, voci. La polizia lo sa e appena la diceria giunge al suo orecchio, ecco che «l’informazione ufficiosa e confidenziale» diventa carburante per l’indagine ufficialmente aperta e non ancora concretamente avviata.

    Quell’informazione s’addensa e si consolida, ne richiama altre. Un fascicolo raccoglierà tutto ciò che, palmarmente o impalpabilmente, da quella informazione proviene.

    Fascicoli poi destinati a essere rimpolpati dal dispiegarsi di altra informazione, quella scritta, cui un singolare destino consente ai cronisti di dare e avere dall’indagine; e ai poliziotti di tenere teso l’orecchio.

    Cinque anni prima che Diabolich colpisse nelle brume torinesi, non era stato proprio un giornale che a mezzo di vignetta - un piccione in volo, sulla battigia di Tor Vajanica, che nel becco teneva un reggicalze - aveva dato dignità di notizia alle voci che, sull’omicidio di Wilma Montesi, ristagnavano nell’Urbe?

    Furono arrestati «il figlio del ministro» e un «bieco marchese»; al processo furono assolti. Ma per copiosità di incartamenti e pedanteria di perizie («il solo bottone che fermava il giaccone della vittima è stato fermato con diciassette agugliate di filo»), quel delitto e quel processo - il caso Montesi : dal nome della ragazza che qualche mese prima di essere uccisa progettava di trasferirsi, dopo le nozze, a Foggia, dove il fidanzato, Angelo Giuliani, prestava servizio alla locale questura - segnarono una svolta anche nei giornali.

    Quel caso fu come un corso accelerato per la formazione di una nuova opinione pubblica; e tanto più accelerato quanto più novità, anche stilistiche, i giornali pro­ ponevano. Sembrò scomparire la diversità delle folle; i più si ritrovarono per le italiche

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