Solo un algoritmo ci potrà salvare: Appunti e spunti per una filosofia delle neuroscienze (con specifica attenzione alle neuroscienze forensi)
By Luca D'Auria
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Solo un algoritmo ci potrà salvare - Luca D'Auria
L’Autore
PARTE PRIMA
PER UNA FILOSOFIA
DELLE NEUROSCIENZE FORENSI
Premessa
Il filosofo danese Soren Kierkegaard ha diviso le condizioni dell’esistenza (cognitiva) umana in estetica, etica e religiosa. Questa catalogazione viene qui utilizzata per rileggere la storia della filosofia adottando un’ottica cognitivista e così offrendo alle diverse discipline della galassia neuroscientifica una narrazione culturale che consenta a questa scienza di dispiegare tutte le sue potenzialità, anche al di fuori dall’utilizzo pratico per risolvere questioni di fatto in specifici ambiti del vivere (come accade per le neuroscienze forensi). La proposta di sussumere i temi varati dalle scienze cognitive entro una mappa orientativa del pensiero filosofico basata sui diversi gradi di coscienza
della dottrina kierkegaardiana offre una chiave di lettura filosofica e cognitivista delle scelte umane. Il campo delle neuroscienze cognitive sembra svelare una nuova ontologia umana che trova riscontro nella narrazione proposta. I diversi gradi di coscienza (estetico, etico e religioso) individuano condizioni cognitive differenti tra loro e dunque, sul piano neurale, tipi di cervello
forgiati da reti neurali radicalmente alternative. Questa caratteristica si ripercuote sul concetto di libero arbitrio e sulle modalità con le quali gli individui mettono in atto le proprie scelte e decisioni. Di particolare rilevanza è la rilettura della condizione religiosa
. Kierkegaard ne aveva proposto una caratterizzazione esclusivamente cristiana e di fede. La laicità del mondo contemporaneo impone di associare ad essa delle forme di religiosità laica
che assumono la veste di ideologie (politiche, sanitarie, legalitarie, ecc.). Senza assumere come decisivo il collegamento concettuale tra poesia tragica, scienze della cognizione e filosofia vi è il rischio che queste grandi narrazioni
del pensiero di rimangano degli incompiuti: la cultura tragica un puro intellettualismo per i pochi che ancora frequentano il teatro; le neuroscienze come una scienza della perizia criminale e la filosofia come una favola che ha esaurito la sua funzione di spiegare il perché
delle cose che avvengono nel mondo, nella società o, più semplicemente, nella vita di ciascuno di noi ogni giorno. L’opportunità per le scienze della cognizione di rappresentare la vera guida per comprendere il fare umano dipende dall’accettazione che l’esistenza del singolo costituisca il tratto decisivo per la formazione dei pattern
neurali che ne formano il sistema operativo decisivo per il fare e il decidere. Questo presupposto porta con sé una serie di conseguenze: [i] la costruzione di un destino neurale (sul modello del destino dell’uomo della tragedia) che ne determina l’agire al di là di ogni sogno di libero arbitrio; [ii] la prevalenza e la decisività dell’esistenza sull’essere; [iii] l’equiparazione tra formanti cerebrali all’apparenza assai diverse tra loro (scienze dure, conoscenze empiriche, metafisica, poesia, ecc.). Parafrasando il saggio di Wilhelm Dilthey dal titolo Esperienze vissute e poesia
si può dire che ogni cervello (poetico, criminale, ingegneristico, sportivo, giuridico, scientifico, ecc.) sia il precipitato del vissuto (poetico, criminale, legale, ecc.) a cui è stato sottoposto ed in cui si è formato. È quanto affermato anche dal criminologo David Sutherland a proposto del crimine economico: questo deve ricevere la medesima forma repressiva e punitiva del delitto violento in quanto è anch’esso il prodotto dell’apprendimento
. Questa interpretazione esistenzilisticamente orientata
delle scienze della cognizione non solamente azzoppa
il mito del libero arbitrio (non è possibile pretendere modi d’agire uguali per tutti qualora questi siano alieni dalla propria mappa cerebrale e cognitiva) ma nullifica anche la tradizionale dicotomia tra conoscenze empiriche e metafisiche; scienze materiali e spirituali. In questa fiera delle complessità della vita neurale dell’essere umano, il mondo della giurisdizione rappresenta una sorta di stazione spaziale
, orbitante nel mondo delle fiabe: la giustizia vive di libero arbitrio, di inattaccabile libero convincimento del giudice, di certezza nella forza della legge, di indiscutibile fiducia nel logos
e nell’impossibilità di trattare seriamente di bias cognitivi, trappole mentali e devianze cognitive. La toga appare come un missile capace di proiettare l’essere umano della complessità nell’Eden paradisiaco della cognizione angelica
. Questo scritto prova ad affrontare questi temi e proporre una soluzione assai eretica: l’utilizzo di un sistema parzialmente automatizzato e di tipo algoritmico per offrire alle parti processuali un criterio nuovo per valutare il rispetto della legge penale nella valutazione della prova processuale. Assumendo come conoscenza consolidata che la definizione di digitale
(o numerico) afferisca a tutto ciò che viene rappresentato con numeri o che opera lavorando su numeri, l’idea innovativa è quella di andare oltre
la categoria della prova digitale (che può essere di natura peritale oppure essere sistematizzata come esperimento giudiziale o prova atipica) e ciò perché, ancora una volta, significherebbe tentare di risolvere le questioni del giudizio (che sono di natura cognitiva) non affrontandone direttamente le cause ma rivolgendosi agli aspetti ancillari e gregari del sistema decisionale. L’evoluzione dello jusdicere non risiede (esclusivamente) nella digitalizzazione della prova; piuttosto è lo jusdicere stesso che deve essere cognitivamente rigoroso come il logos digitale. È assai complesso gestire con il cervello queste complessità che Timothy Morton chiama iperoggetti
e questo perché la mente vive di prossimità
; ma occorre provarci.
-1-
La condizione estetica della cognizione
In Don Giovanni il desiderio è assolutamente vero, vittorioso, trionfante, irresistibile, demoniaco, ma naturalmente non si dovrà dimenticare che si parla del desiderio come principio spiritualmente determinato […] Don Giovanni è fondamentalmente un seduttore. Il suo amore non è psichico ma sensuale, e l’amore sensuale […] non è fedele ma assolutamente infedele […] Esso infatti è soltanto nel momento é…* è sparizione nel tempo
Soren Kierkegaard, Aut Aut
Si sta, come d’autunno; sugli alberi, le foglie; ma si sta anche come un navigatore che, per raggiungere un porto lontano, affronta i marosi affidandosi a poche soluzioni: una mappa, la sua esperienza al timone e l’attenzione per cogliere i venti favorevoli ed evitare i flutti più pericolosi. Come le foglie d’autunno è la metafora della condizione di costante incertezza dell’esistenza individuale dipinta in versi da Giuseppe Ungaretti. L’essere umano è sempre dinnanzi ad uno scacco. Come il navigante, ogni individuo, tenta di scovare nel proprio cognitivo la chiave di lettura per rispondere alle sfide proposte dalla realtà. Le scienze della cognizione, con rivoluzionaria semplicità, affermano che noi siamo il nostro cervello. Ciò significa che l’uomo deve mettere in soffitta ogni dualismo cartesiano, ogni idea di anima, coscienza, cuore, spirito, sentimento (e libero arbitrio) per accontentarsi di essere un groviglio di sinapsi, DNA e neurotrasmettitori, capaci di ingenerare un sistema così complesso da risultare parzialmente inconoscibile (persino al protagonista soggettivo del fare) ma, per certi versi, replicabile artificialmente.
L’anima, la coscienza, lo spirito, il libero arbitrio non sono altro che stati biologici derivanti dall’interazione fisica e chimica dei componenti del nostro cervello. Questa componentistica provoca dei qualia o stati mentali che però non hanno nulla di autonomo ed autentico: sono dei modi di dire che il linguaggio umano ha escogitato per spiegare delle sensazioni provocate da questo lavorio neurale.
Ciò significa che il cervello funge da scatola degli attrezzi all’interno della quale, ogni volta, cercare lo strumento più adatto per rispondere alle esigenze contingenti. L’essere il proprio cervello comporta però anche conseguenze destabilizzanti. Sino ad oggi (specialmente a seguito della lunga tradizione di stampo illuminista) si è ritenuto che l’essere umano fosse un animale speciale: sempre in grado di attivare la ragione, a prescindere da ogni stato emotivo. Essere il proprio cervello vuol dire mettere in crisi questa ideologia per una ragione ovvia ed intuitiva: se sono il mio cervello dipendo (per certi versi sono agito) da ciò che in esso è contenuto e non vi è alcuna differenza tra nozioni ed emozioni. Sia le emozioni che le nozioni fanno parte del cognitivo e cioè si concretizzano in collegamenti neurali, sinapsi e azione dei neurotrasmettitori: trattasi di una forma riaggiornata della spiritualitas di tradizione medioevalista dove detta definizione indicava tutto ciò che non è materia. Non deve far pensare ad una contraddizione l’equiparazione della spiritualitas (immateriale) alla materialità dei marchingegni biologici del cervello. Infatti, non è la fonte a determinare la maggiore o minore materialità della cosa quanto piuttosto l’effetto oggettivo e fisico (o, appunto, immateriale) prodotto dal meccanismo generativo.
Questa mappa cognitiva cerebrale fa si che ciascun individuo sia un navigatore diverso da ogni altro navigante: ciascuno è caratterizzato dalla propria rete neurale e racchiuso (in modo artificiale e autospecchiante) nella propria soggettività biologica e nei propri schemi o mappe.
Il giudice, il fruitore di un’opera dell’arte, l’innamorato e colui che odia, manifestano i propri pattern ed esprimono se stessi pescando la soluzione operativa dalla propria mappa neurale, dai propri marchingegni cerebrali e dalla propria biblioteca esperienziale.
Tale apparato cerebrale lavora costantemente per formare il cervello che siamo, implementando algoritmi pronti all’uso; tanto più efficaci e utili quanto più radicati nel tessuto sinaptico e dunque agevolmente reperibili dall’io cognitivo (senza perdite di tempo che favoriscono solamente il conflitto neurale, e così aumentando il rischio d’errore).
Questa rivoluzione copernicana nel concetto di io non può essere trascurata con antropocentrica sufficienza o liquidata come distopia che vuole distruggere l’essere umano e disancorarlo dalle sue certezze linguisticamente consolidate e rassicuranti (possedere un’anima, vantare un pieno libero arbitrio, fruire di una coscienza ed essere un produttore di emozioni determinate dallo spirito).
Le verità nascoste si trasformano in verità rivelate: l’essere umano si disvela nella sua natura più profonda come un vero e proprio animale artificiale. La verità rivelata è certificare che il cognitivo di ciascuno è una sorta di videogame personalissimo, impostato da noi stessi mediante la nostra catena di scelte e interazioni sociali, individuali e culturali. Questo algoritmo neurale comanda il nostro fare e questa realtà virtuale individuale non è opera di un genio maligno; questo genio maligno si impersonifica nella mappa cerebrale che funge da controller dell’io.
La mossa più provocatoria proposta dalle scienze della cognizione è quello di sfilare dai poteri umani il sogno di possedere il libero arbitrio, vera e propria bandiera della ragione e della razionalità. Disancorare dall’essere umano il concetto di libero arbitrio può apparire qualcosa di stravagante, eretico e mortificante. In realtà la responsabilità cognitiva nella costruzione del proprio cervello può essere ancora più responsabilizzante. Viene infatti attribuita all’individuo una responsabilità ancora più penetrante: quella della costruzione del proprio assetto neurale, del proprio daimon biologico, dell’essere il proprio cervello.
Scoprire che siamo degli algoritmi è un passo culturale che spaventa gli esseri umani: nel diciassettesimo secolo gli uomini si trovarono dinanzi al quesito se avrebbero potuto vivere mettendo in congedo Dio; oggi la questione è ancora più terrificante perché riguarda la possibilità di vivere prendendo coscienza di essere qualcosa di assai diverso da come abbiamo desiderato rappresentarci per millenni.
L’essere umano si trova a scontrarsi con la proposta tecnologica che intende replicare il modello cerebrale umano. Acclarato che il motore neurale è costituito dall’esperienza e dai pattern neurali-ideologici che questa produce nel cervello, non è comprensibile perché non possano essere affidati a macchine intelligenti tutti quei compiti che l’uomo svolge in tempi molto più lunghi e con enormi possibilità di sbagliare. È stata questa la ragione determinante che ha spinto Blaise Pascal ad inventare la prima macchina calcolatrice; la stessa intenzionalità detta il programma della contemporaneità volto a sostituire o far dialogare il cogito umano con quello artificiale in un numero sempre maggiore di attività.
Il vero dramma umano è l’incapacità di mettere in atto, nella vita pratica, le invenzioni astratte che il cervello umano sa elaborare: l’uomo si è sempre distinto per saper edificare progetti divini, politici, legislativi, morali (ecc.) che non è mai stato in grado di metterne in atto compiutamente. Ciò sta a significare che il cervello è in grado di produrre astrazioni fantasmagoriche ma poi la ragion pratica è costantemente immersa in un cognitivo precario ed irriducibilmente sottoposto allo scacco esistenziale. L’intelligenza artificiale è, ad oggi, la soluzione migliore per garantire il rispetto proprio di quei costrutti che sono elaborati dal cogito umano e che la sua ragion pratica non è in grado di eseguire correttamente.
La forza dirompente dell’intelligenza artificiale non è quella di produrre dei cyborg o di ibridare l’uomo con la macchina, ma quella di mettere l’uomo di fronte ai suoi limiti cognitivi. L’intelligenza artificiale, programmata per fare quello che l’uomo saprebbe fare, se non fosse umano troppo umano, è un interlocutore necessario per guidare il cogito biologico nella realizzazione di tutte quelle attività che non consentono scollamenti dalla regola operativa. L’intelligenza artificiale pare rieditare in forma contemporanea quel rapporto tra necessità e libertà tipico della tragedia della Grecia antica. Il tema della necessità e del destino è perfettamente aderente con la chiusura cognitiva del singolo individuo entro gli spazi dettati dal proprio cervello; allo stesso modo quello della libertà è assimilabile alla capacità delle funzioni superiori del cervello di costruire architetture astratte, mondi possibili e forme del fare metaindividuali e universalmente valide (la legge, la morale, la dottrina religiosa, ecc.). È del tutto evidente che, qualora non esistesse questa incapacità di armonizzare il destino cognitivo con le astrazioni del cogito, non vi sarebbe alcuna necessità di ricorrere all’intelligenza artificiale. Come accennato, la tragedia della Grecia antica ha posto questo tema come nessun’altra tradizione culturale ha saputo fare: il cogito umano è imbrigliato in un gioco continuo di doppi (destino e libertà) e contraddizioni capaci di sottrarre, persino al protagonista del fare, la consapevolezza di come siano state elaborate le decisioni. Contro questa inguaribile debolezza cognitiva, l’uomo occidentale ha plasmato un sistema di risposta le cui parole d’ordine sono arché, logos, ragione, libero arbitrio, anima e coscienza. Da Platone (il grande inventore dei modelli filosofici basati sulle mappe cognitive eterne ed immutabili) sino alla contemporaneità tecnologica ed alle più innovative ideazioni di cervelli sostitutivi di quelli umani, è stato un continuum volto a imbrigliare la contraddittorietà cognitiva che i tragici hanno messo a tema e che può essere definita come razionalità limitata (Herbert Simon, La Ragione nelle Vicende Umane). La grande mossa culturale del pensiero tragico greco è stata quella di radicare ogni forma umana all’interno di questo eterno scacco esistenziale e questa endemica coscienza infelice prodotta dalla consapevolezza di una libertà malferma e di un destino inevitabile ed indomabile. Ogni risposta a questa dottrina del tragico non è andata oltre alla costruzione utopica di schemi artificiali di cui, l’intelligenza in silicio della contemporaneità, è solamente la formula più recente.; questa, come detto si pone su di un piano dialettico con quella biologica e punta a coadiuvarla nell’espletamento di svariate attività fondamentali, così da vincere l’eterno scacco del fare, l’angoscia e il tormento umani. Kierkegaard è, probabilmente, il filosofo che consente di sviluppare al meglio il raffronto qui proposto tra il dualismo tragico di destino e libertà e quello cognitivo tra limitatezza del cogito e capacità umana di costruire modelli astratti di comportamento. Kierkegaard ha saputo cogliere gli stati di coscienza umana e intorno ad essi ha costruito dei modelli individuali di comportamento. Al contempo, ha saputo evidenziare come la natura cognitiva dell’uomo non permetta mai di raggiungere una condizione realmente soddisfacente e ciascun individuo sia costantemente giocato all’interno dei modelli cognitivi e di coscienza tra loro alternativi. La metafisica platonica è stata la risposta più netta contro l’esistenzialismo radicale dei poeti