Raggiungimi oltre
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Raggiungimi oltre - Giuseppe Mancini
aspettando...
I
Muoversi a tentoni nella notte fa attendere la luce del giorno con più desiderio.
Era l’alba, il sole sorgeva all’orizzonte stendendo sul mare un tappeto rosso di speranza.
Monica, tolte le scarpe, camminava a piedi scalzi sulla sabbia fredda: le donava leggerezza. Fotografava le mille sfumature che il cielo dipingeva sul mare; accarezzata dall’odore di salsedine, seguiva il lento infrangersi delle onde sulla riva. Contemplare quell'infinità solitaria, lontana dal frenetico chiacchiericcio della città, l’aiutava a sfogarsi e a schiarire le idee.
Tutti abbiamo bisogno di credere in qualcuno, e il mare è un abbraccio, un amico affidabile, che senza giudicare ascolta in silenzio i nostri tormenti. Un’anima che ha sofferto gli chiede rifugio, come a una canzone, a una poesia, a un soffio di vento.
Monica, mentre stretta al cappotto lasciava dietro di sé le impronte sulla spiaggia, schivando dei rametti secchi e qualche vecchia bottiglia, gli urlava del suo dolore senza voce, dei pianti senza lacrime, della crudeltà della famiglia e degli amici. Gli raccontava dei propri errori, delle speranze infrante, del suo sentirsi in torto in un mondo di giusti; di quel rumore assordante che provocano i frammenti di te, quando cadendo a pezzi ti lasciano al gelo con un domani che non sarà più come prima. Guardava il pancione e si chiedeva se un figlio all’età di venti anni poteva considerarsi veramente un errore, di quelli che mettono fine alla vita, o se fosse solo l’inizio di una nuova consapevolezza.
Confusa, rifletteva su quanto effimeri fossero stati i rapporti che aveva costruito fino allora. Avvolta nel vuoto cercava la luce senza nessuno a fianco, nessuno che oltre le parole le tendesse una mano. Senza un compagno e avendo tutti contro, perfino i parenti che lanciavano battute maliziose, decise di crescere il bambino che portava in grembo, azzittendo le voci che le consigliavano il contrario.
II
Monica, sdraiata a faccia in su, sul lettino della cameretta con i muri tappezzati da poster di fumetti manga, attorcigliava su un dito una ciocca dei propri morbidi capelli color nocciola.
Sognava il Giappone, sognava di andare altrove, tra alberi fioriti e gentilezze lontane. Come in una bolla ovattata le voci dei genitori provenienti dalla cucina rimbalzavano sulle pareti della stanza, lasciandola all’interno a chiedersi perché non riuscisse a farsi piacere un mondo che a loro sembrava perfetto. Era proprio in quei momenti, in cui le lacrime diventavano pesanti da sopportare, che riusciva a guardare bene in faccia la propria inquietudine e ogni cosa le risultava più chiara.
«Come può gettare via tutto così» imprecava sua madre, rivolgendosi al marito. «Non capisce quanto abbiamo fatto per lei. Non ha rispetto e dignità».
«È una vergogna!» le rispondeva lui severo. «Come si permette. Chissà cosa dirà la gente!»
Non avevano mai accettato che la figlia, la loro unica figlia, potesse avere idee e modi di agire diversi dal buon costume. Sempre molto autoritari l'avevano mossa come un burattino intrappolandola nei loro schemi. Erano diventati dei carcerieri che le impedivano la libertà, imprigionandola in una morsa di regole. Pianificavano la vita per lei senza ascoltarne il parere, sminuendone i problemi e i sentimenti. Niente viaggi, niente sesso prima del matrimonio, niente che non fosse eticamente corretto. In famiglia comandava la madre. Nonostante non fosse quella più intelligente, gestiva il bilancio, il tempo libero e cosa fare in casa. Il marito ne era travolto, senza permesso non compieva un passo e se provava a disubbidire erano ripicche di ogni sorta. Per il quieto vivere spesso rinunciava a far valere le proprie volontà.
Lei, casalinga a tempo pieno, dominava tutto e tutti. Tra crisi di pianto e vittimismo, imputava a Monica di avere un pessimo carattere e non perdeva occasione per sottolineare come fosse lei la causa della propria depressione; la riteneva colpevole della propria infelicità. Gelida, non sintonizzata sulla figlia, non le aveva mai regalato il calore di un abbraccio.
Anche il padre, che fino ad allora era stato un punto di riferimento per Monica, l’unico ad apprezzarla e a prenderne le difese, sembrava averle voltato le spalle. In parte, poiché plagiato dalla moglie, aveva iniziato a guardarla e non vederla, a non vederla più come una volta, come quando tornava dal lavoro, una grossa azienda di telecomunicazioni, e aveva occhi solo per lei. Sentiva tradite le attese e distrutta la fiducia. Si barricava in periodi di silenzi, in cui si mostrava inaccessibile, istillando nella figlia di essere non meritevole di affetto.
Tutto era cambiato dal momento in cui Monica era rimasta incinta da un uomo più grande di lei, conosciuto per caso alla festa di un’amica.
La loro era cominciata come una bella storia condita da tante promesse, regali, belle parole, e perché no, dal fascino di qualcosa che non potevano vivere alla luce del sole. S’incontravano di nascosto per sfuggire alle opinioni della gente e alle sentenze dei genitori di lei. Trasgredire in quel modo per Monica era come una rivalsa, riprendersi parte dei propri voleri; per quell'uomo dai capelli corvino e i lineamenti marcati forse era solo un gioco. Aveva la famiglia lontana, ma era come se non l’avesse. Dormiva negli alloggi della caserma dove prestava servizio come poliziotto. Era un tipo introverso. Perfino i colleghi faticavano a inquadrarlo. Quando lei scoprì di aspettare il bambino, lui cambiò radicalmente. Le chiese prima di abortire e, ricevuto un drastico rifiuto, diventò anche violento. Si rivelò essere ciò che era sempre stato, ma aveva abilmente camuffato. Beveva e in seguito le urlava contro la propria ira cercando di spaventarla.
Monica, di quella situazione, non ne parlò mai con nessuno. Si chiudeva nella stanza sperando che stesse vivendo solo un brutto incubo, dal quale svegliarsi il giorno in cui lui come per miracolo fosse ritornato in sé. E lo sperava in quelle poche ore in cui riusciva ad addormentarsi. All’inizio la violenza non voleva vederla. Aveva dei segni sul corpo dovuti ai maltrattamenti, che cercava di nascondere sia agli occhi della gente che ai propri. Fingeva una risata con le lacrime che scivolavano sulla pelle segnata da uno schiaffo della sera prima. Sperava che le cose potessero cambiare, pensava di poterlo guarire. Anche quando le ferite le facevano male tentava di abbracciarlo, dicendo a se stessa Forse domani non sarà così, forse passerà
. Addirittura pensava di non essere abbastanza e che la colpa fosse sua. Si sentiva in galera, ma al tempo stesso era una galera da cui temeva fuggire. Non voleva rendersi conto del male che stava subendo.
Sopportò tutto fino al giorno in cui, dopo l'ennesima violenza, abbracciandosi la pancia per proteggere il bimbo che portava in grembo, metabolizzò che doveva pensare per due. Non poteva permettere che qualcuno facesse del male all’unica creatura che le donava speranza. Con le lacrime che le scendevano a fiumi cominciò a chiedersi cosa dovesse fare. Trovò la forza di lasciarlo, anche se lui evidentemente non aspettava altro, e raccontò tutto ai propri genitori, i quali accolsero la notizia come l’arrivo di un uragano. Lo sgomento fu tale che dapprima restarono pietrificati, in seguito per correre ai ripari pretendevano che lei lo sposasse. Volevano salvare la facciata di una casa che altrimenti credevano sarebbe andata in frantumi.
Dopo l’opposizione di Monica, nessuna parola di conforto, solo rancori sputati in faccia a quella ragazza che si sentiva piccolissima davanti ai loro occhi, perché sapeva di averli delusi, di averne infranto i sogni anche se non le appartenevano affatto.
Ne aveva sempre assecondato ogni desiderio, dalla scelta della scuola, al modo di vestire, cosa mangiare; e quel rifiuto non lo accettarono. Dovevano rappresentare un rifugio, un cuscino sul quale piangere, un diario con il quale confidarsi, invece furono solo dei giudici implacabili, che emanavano verdetti lasciandola nel buio di una stanza ad accarezzarsi il pancino, al quale sussurrava che un giorno solo lui, solo suo figlio l'avrebbe compresa senza giudicarla, e l'avrebbe amata per ciò che era: una ragazza imperfetta, piena di paure, desideri, un po’ donna e un po’ bambina.
III
Le ultime parole che Monica gridò ai suoi, prima di abbandonare casa e aver fatto di tutto per renderli di nuovo fieri di lei, furono: Non sarò mai come voi
.
Tra frequenti attacchi di panico che le facevano credere di affogare, prese un treno che la portò via da lì. Si chiedeva perché tutta quella cattiveria nei suoi confronti. Non voleva guardarsi neppure allo specchio, non ne avvertiva più le motivazioni, non vi si riconosceva. Avvelenata dall'odio aveva perso ogni fiducia.
Trovò un lavoretto come cameriera in un ristorante della cittadina di Sayville. A circa due ore da New York, affacciato sull’oceano Atlantico, quel grazioso borgo di Long Island, con le ampie spiagge, i boschi, le fattorie, le case circondate da recinti bianchi, era diventato il luogo dove si sentiva protetta.
Con l’aiuto degli assistenti sociali riuscì ad affittare una piccola abitazione che per lei diventò come un nido posto lontano dal mondo, in cui sentirsi al sicuro dai rimproveri, dalle parole taglienti e dalle ingiustizie che aveva subito. Un riparo sotto cui ricomporre i cocci delle insicurezze.
Con i genitori lontani, abbandonata da chi in quel momento doveva starle più vicino, sfidava l'avvenire e una miriade d’interrogativi. Si domandava se mai fosse diventata un buon genitore, se avesse mai potuto gestire tutto da sola anche nel caso in cui avesse perso il lavoro. Era uno strazio andare ai controlli medici e vedere le coppie intorno sorridenti, sostenersi a vicenda. Era mortificante abbassare lo sguardo nella sala d'attesa, e sentirsi inadeguata. Portava addosso il peso di una doppia responsabilità, che la spingeva a isolarsi invece che a chiedere aiuto; si sentiva in colpa per ciò che stava vivendo, per aver scelto un uomo sbagliato, per non aver resistito, per far gravare i suoi errori sul figlio, un figlio a cui giurava che una volta venuto al mondo avrebbe vissuto una vita diversa.
Monica reputava che tutti dubitassero di lei e credessero di prendere decisioni migliori delle sue. Era sicura che ritenessero che non ce l’avrebbe fatta. Ma tirando fuori le unghie, dimostrò a loro e a se stessa quanto la forza di un amore profondo potesse spingere