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Nervi a pezzi
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Nervi a pezzi

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About this ebook

L'ispettore Francesca Arditi investiga su una rapina in una gioielleria nel quartiere genovese di Nervi.
Tra i preziosi rubati c’è anche un’antica collana che pare portarsi dietro una maledizione.
Le indagini di Francesca Arditi si muovono tra la riviera lambita dal mare, che può essere spettacolo per gli occhi ma anche pericolo, e gli stretti vicoli del centro storico, ricchi di fascino e mistero, fino a condurla a una scelta che mai avrebbe pensato di dover fare.
LanguageItaliano
Release dateMay 14, 2021
ISBN9791280184948
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    Nervi a pezzi - Mirko Mignone

    Ringraziamenti

    Colophon

    Mirko Mignone

    NERVI A PEZZI

    © 2021 by All Around srl

    9791280184948

    redazione@edizioniallaround.it

    www.edizioniallaround.it

    Dedica

    A quasi tutti

    Esergo

    Ma per come la vedo io

    uno che non sa capire la differenza

    fra stuprare e ammazzare la gente

    e masticare la gomma in classe

    è messo molto peggio di me

    Cormac McCarthy,

    Non è un paese per vecchi

    - 1 -

    «Hai mai pensato al suicidio?».

    Il tono della voce è fermo e rassicurante. Gli occhi azzurri sembrano più grandi di quanto siano in realtà: un mare profondo che invita a un irresistibile tuffo mortale. Le palpebre sono immobili.

    «Il mondo è prossimo al collasso. Ci sono tante persone perfide, troppe. È necessaria una selezione naturale. Può essere la tua grande opportunità. Puoi dare un segno e divenire esempio di salvezza per chi resta. Puoi togliere la tua goccia inquinata dall’oceano».

    I capelli biondi potrebbero essere quelli di un angelo. Un angelo tentatore. Un angelo della morte.

    «Il canto del cigno. La fine della commedia. La pace eterna».

    La pelle del viso appare morbida e senza segni del tempo, come se fosse stata lavata nella fonte dell’eterna giovinezza.

    «Lo meriteresti per il male che hai fatto. Per espiare l’atto della tua nascita. Sai per quale motivo insisto? Perché tu sei feccia dell’umanità. Il mondo è già troppo affollato perché anche tu abbia il diritto di farne parte».

    - II -

    Carissimi genitori,

    ecco che torno a farmi sentire, ché voi siete sempre nei miei pensieri e nel profondo del mio cuore.

    Avrei tante storie da riportare ma le racconterò quando tutto avrà avuto termine e si potrà stare seduti intorno a un tavolo con un buon bicchiere di vino davanti e la stanza riscaldata dal fuoco. Quando, e se, tornerò a casa.

    I primi giorni mi sembravano duri, invece ora non si pensa più a nulla e non c’è niente che mi faccia paura. Qui si combatte con fervore e accanimento, eppure senza lamenti.

    Però mancano i viveri e le munizioni, oltre alla carenza di indumenti invernali. Si è già verificato qualche caso di congelamento e alcune notti ci si sente come se nelle nostre vene ci fosse la brina a frenare lo scorrere del sangue. In quei momenti penso al nostro grande camino e al calore sprigionato dalle fiamme che consumano i ceppi.

    Devo però confessarvi che il freddo intenso mi ha per ora salvato la vita.

    L’altrieri c’era un’alba livida e l’aria tersa bruciava i polmoni esausti. Il battaglione resisteva con incosciente ardore agli attacchi nemici fatti di tiri di fucileria e bombe a mano. Quando giunsero i loro rinforzi a ricompattare i ranghi disuniti, fummo costretti a ripiegare senza copertura. Un proiettile del vile fuoco avversario mi colpì ma il gelo ha impedito che morissi dissanguato.

    Adesso giaccio immobile in un riparo di fortuna, in attesa di venir trasportato in una struttura di soccorso medico.

    Ciò di cui mi dolgo è il non potermi scagliare con fiero disprezzo contro le linee nemiche che dobbiamo raggiungere e oltrepassare.

    Se per caso dovessi perire, qui lo chiamano l’estremo congedo, voi cari genitori non piangetemi. Non disperate se il solenne momento dovesse arrivare.

    Rivolgerò il mio ultimo pensiero a voi.

    Sappiate che non ho fatto altro che il mio dovere, come tanti miei commilitoni.

    Vinceremo.

    Il Vostro amato figlio,

    Giovanni Battista

    - 3 -

    C’è un vecchio che trascorre tutte le mattine seduto sulla stessa panchina della passeggiata a mare di Nervi. Sta in quel posto da dieci, cento o forse mille anni. E quelle assi di legno, dipinte di un azzurro sbiadito e sostenute da uno scheletro di metallo, lo accolgono ogni giorno.

    Lo si può trovare sempre lì. Estate o inverno che sia.

    Nella stagione calda indossa il cappello di paglia che gli ripara dai raggi solari la testa oramai spennacchiata. Ha paura che quelli possano fargli perdere il lume della ragione. Perché il sole non è più quello di una volta, di quando lui era giovane. Ama ripeterlo a se stesso. E l’ha sentito affermare così tante volte che a questo punto non può fare a meno di crederci.

    In inverno, invece, si cala un berretto di lana da pescatore sino a coprirsi le sopracciglia. Lo farebbe pure scendere sopra gli occhi se non fosse che, così, non potrebbe guardare il mare.

    Anche in quei giorni in cui la pioggia scende giù dal cielo arrabbiato e la logica consiglierebbe di tenersi a distanza da quell’umidità che fa dolere le ossa, un istinto irrazionale lo induce a portar con sé un pezzo di tela impermeabile da poggiare sulla panchina bagnata. Su di esso si siede e resta, con l’ombrello aperto, a rimirare l’orizzonte.

    Il vecchio si chiama Giovanni Battista. Un nome di un’altra epoca. Un nome da vecchio.

    In realtà gli unici a chiamarlo così erano coloro che in quel modo avevano deciso di battezzarlo. A quei tempi era piuttosto in voga. Per gli amici d’infanzia era stato Giobatta. Per i commilitoni era Battista, siccome nel loro battaglione avevano un altro Giovanni ed era più anziano di un paio d’anni. Dopo la guerra è stato per tutti Gianni. Tranne per i suoi genitori, persi nell’illusione religiosa che il chiamarsi come il patrono della città potesse recare chissà quali privilegi.

    È comunque convinto che il suo nome sia meno difficile da portare di quelli oltremisura fantasiosi che i figli si vedono affibbiati al giorno d’oggi. Neanche fosse una stupida gara dell’assurdo, senza giudici e senza podio. Nomi di animali, nomi di giorni della settimana, nomi stranieri, nomi dall’origine incerta e chi più ne ha più ne metta. Senza un limite al buon gusto o, perlomeno, al buon senso.

    Si lamenta, come fanno di norma i vecchi. E quando, oltre che anziani, si è anche genovesi, mugugnare diventa quasi inevitabile. Un esercizio per mantenere vive le proprie radici.

    Se qualcuno gli domandasse perché ce l’ha con il mondo, risponderebbe che non ce l’ha con il mondo. Perché la Terra è bella, bensì è l’uomo a essere brutto. E se qualcuno avesse la sfacciataggine di controbattere che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, ringhierebbe che Dio non esiste e, se pure ci fosse, si nasconderebbe bene per non farsi trovare.

    Questa è una mattina di metà marzo, un dolce anticipo di primavera. Il vecchio sta godendo dei tiepidi raggi del sole che gli riscaldano la pelle rugosa del viso.

    Il promontorio di Portofino è visibile con una limpidezza tale da permettere anche ai suoi logori occhi di vederne nitidamente i contorni.

    Ha raggiunto la solita panchina di buonora, quando la passeggiata è ancora poco frequentata. Se non da qualcuno che ha lo spirito e il fisico per una corsetta con piacevole vista sul mare. E in fondo li ammira, questi cultori della forma fisica, perché pensa sia molto facile impigrirsi.

    Il vecchio aveva smesso di fare moto, quanto meno quello che la sua vecchia ferita gli concedeva di fare, soltanto quando le energie avevano alzato bandiera bianca. Le forze si erano arrese senza condizioni. L’abitudine all’attività non era stata più sufficiente a imporsi sul fisico stanco.

    È comunque certo che questa sua condotta di vita lo abbia aiutato ad arrivare alla sua età con il cervello ancora ben funzionante, senza rischiare di finire in qualche ricovero per anziani. Di sicuro, meglio di tanti giovanotti che vede vagare in giro, i quali appaiono lobotomizzati.

    Immerso nelle lodi verso se medesimo, trasale quando sente sopraggiungere, alle sue spalle, alcune persone. Il loro passo è appesantito da calzature non adatte alla pratica della corsa. Stupito e incuriosito, si volta appena in tempo per veder transitare due agenti di polizia. Sono guidati, a passo celere, da una donna in borghese che ha il piglio deciso di chi sa farsi rispettare. Questa, a sua volta, è in scia al proprietario di uno dei ristoranti che godono del panorama offerto dalla passeggiata a mare.

    Il ristoratore appare paonazzo per il passo sostenuto, cui non è abituato, al quale si sente costretto da chi lo segue. Lei usa il pungolo del carisma come farebbe un fantino, con il suo nerbo, in sella a un puledro poco propenso allo sforzo.

    Il vecchio segue con lo sguardo la strana combriccola e la vede deviare in direzione della scogliera, sempre rispettosa dell’ordine di fila creatosi in precedenza.

    Comincia una danza di equilibri, come quella di burattini condotti da mano inesperte. Ogni insidioso varco tra gli scogli, qualsiasi tratto reso scivoloso dal muschio e ciascun angolo sbreccato diventano possibili trappole nelle quali cadere.

    Uno dei due tizi in divisa rimane distaccato dagli altri nell’affrontare un tratto carponi. Si muove con la medesima agilità di un ippopotamo sulle scale mobili di un centro commerciale.

    Lo specchio d’acqua è quieto al pari di un alunno rispettoso. Pare impossibile sia lo stesso che il giorno prima infrangeva onde rabbiose sugli scogli, producendo un vapore che riempiva l’aria del salmastro odore del mare. Ne ha fatto le spese la già minuscola spiaggia del porticciolo di Nervi. Ha rinunciato agli ultimi granelli di sabbia e di pietrisco per ricevere in cambio alghe puzzolenti.

    Il vecchio ripiega in quattro parti la lettera che aveva scritto tanti anni prima ai propri genitori da quella branda dove stava disteso e ferito. L’ha riletta per quella che, probabilmente, è la milionesima volta. Le parti di carta ingiallita sono tenute unite da strisce di nastro adesivo trasparente. Si è premurato di appiccicarle prima che i danni dell’usura divenissero irreversibili. La conserva tuttora perché è il ricordo più vivo che gli resti della sua giovinezza, nonché della sua adorata madre e di quel fottuto beone di suo padre.

    La ripone con cura nella tasca interna della giacca e si tira in piedi. Fa leva sul suo bastone impreziosito dal manico in avorio modellato a forma di canapo. La schiena cigola come se la colonna vertebrale stesse per spezzarsi, in un punto situato a un palmo circa dall’osso sacro. È l’eredità lasciata in dono dal patetico tentativo di spezzare le reni alla Grecia durante il secondo conflitto mondiale.

    Certo, lui ha avuto la fortuna di tornare a casa. Nonostante quel proiettile gli si fosse piantato in una vertebra, lasciandolo paralizzato dalla vita in giù per un paio di mesi. Periodo di tempo che aveva trascorso disteso su quella branda poco più soffice di una tavola di legno. Si era ritrovato all’interno di una camerata nella quale la puzza di paura e di morte si mescolava al tanfo degli escrementi non trattenuti da corpi senza controllo e a liquidi nauseabondi rimessi da ferite purulente. In quelle lunghe giornate, passate giacendo inerme, aveva anche pensato che la sua esistenza sarebbe terminata in quell’inferno. Lo aveva scritto anche in alcune lettere inviate ai propri genitori, cercando di dar loro quella forza che sentiva venir meno nel suo corpo debilitato. Quelle altre missive erano però andate perse nel corso di qualche trasloco.

    Adesso quel proiettile funge da ciondolo alla collanina d’oro che non si toglie mai. Infila la mano sotto al collo alto del maglione e prende il frammento di metallo tra il pollice e l’indice, facendolo poi scorrere tra i due polpastrelli. Un gesto che per lui è diventato un’abitudine, un’innocua ossessione. Lo ripete più volte nel corso della giornata: dal momento in cui apre gli occhi, steso nel suo letto, sino al momento di chiuderli di nuovo e domandarsi se gli verrà concesso di vivere un’altra giornata. Un vezzo che forse serve a esorcizzare la morte. Che, mai come quando quel piccolo oggetto innocuo lo ha trafitto, gli è stata così vicina fin quasi ad accarezzargli la mano all’apparenza tremante.

    Il vecchio guarda nella direzione dove sono andate le quattro persone. Ha soltanto il tempo di vedere l’ultima, l’agente che si era attardato per la sua goffaggine, scomparire dietro uno scoglio. Riprende posizione sulla panchina e la sua schiena ripete l’identico suono di prima, come se si riassestasse.

    Estrae gli occhiali dalla custodia di cuoio, dispiega la sua copia de Il Secolo XIX e comincia a leggere dalla cronaca cittadina. Perché di quello che succede nel resto del mondo non è che gli importi molto. Per non parlare delle chiacchiere dei politici. Dalle cui bocche, nel corso della sua vita, ne ha sentite uscire di cotte e di crude sino ad averne le tasche piene.

    L’articolo principale è dedicato alla rapina del giorno precedente, compiuta ai danni di una gioielleria di Nervi. Pare essere andato tutto liscio ai ladri. La definizione di professionisti si spreca nella ricostruzione dei fatti, mal celando un’ammirazione che andrebbe semmai rivolta ai buoni.

    Altrettanta benevola sorte non ha baciato le due guardie giurate, trasportate all’ospedale San Martino. Uno con un braccio fratturato per il colpo violento inferto utilizzando un corpo rigido. L’altro con un foro di proiettile che gli ha trapassato da parte a parte - dieci centimetri sopra il ginocchio – la gamba. E, fortuna sua, non è stato colpito l’osso o perforato, in maniera irreparabile, il complesso sistema di circolazione del sangue nel corpo umano.

    La pallottola si è limitata a un rapido transito nella carne del malcapitato prima di conficcarsi in una base di legno. Lì si è fermata dopo aver infranto una vetrinetta, i cui frammenti sono schizzati nel raggio di oltre un paio di metri, e oltrepassato anche lo strato di gommapiuma coperto da un drappo di raso color porpora.

    Il vecchio distoglie lo sguardo dal quotidiano, sentendo sopraggiungere altri passi affrettati. Che traffico stamattina gli viene spontaneo pensare.

    Due uomini della polizia mortuaria trasportano una cassa metallica lunga un paio di metri. Dietro di loro camminano un uomo e una donna. Lui tiene le mani affondate nelle tasche del giubbotto. Lei regge una borsa di cuoio usurata, con le fibbie che trattengono a stento il gonfiore del contenuto.

    - 4 -

    Il cadavere giace adagiato su uno scoglio levigato dalla costanza delle onde del mare.

    Quando l’ispettore Francesca Arditi giunge sul posto, guidata dal ristoratore, dà ordine ai suoi due collaboratori di tirare in secco il corpo di quella donna. La parte inferiore è ancora a diretto contatto con l’acqua. La faccia è rivolta verso il basso. I lunghi capelli hanno formato delle ciocche irregolari, incollate e rese crespe dal salino. Le gambe nude sono violacee e i piedi non calzano scarpe, invero sarebbe stato sorprendente il contrario. Saranno finite sul fondo del mare, fornendo rifugio a qualche piccola creatura indifesa in eterna lotta per la sopravvivenza.

    Sin qui le annotazioni ordinarie. Quello che invece stupisce è che indossi una tonaca da monaca.

    La collana, sulla quale è appeso il crocefisso, le è rimasta al collo dopo essersi annodata su se stessa. Il velo, con ogni probabilità, è andato perso nei flutti. Andrà a depositarsi su qualche tratto di litorale insieme a tutte le schifezze che la gente butta nel mare, neanche fosse una gigantesca pattumiera.

    È chiaro che il corpo non sia restato tanto tempo immerso in mare, altrimenti ne avrebbe subìto le conseguenze in maniera ancora più evidente.

    Francesca si accoscia per osservarle i lineamenti da vicino. Con un’espressione assorta, eppure all’apparenza priva di emozioni, scosta i capelli della vittima sui lati del viso. Entrambe le orecchie sono lì, nella posizione che la natura e l’evoluzione della specie hanno deciso per loro. Sono impreziosite da una fila di brillantini multicolori, quattro da un lato e tre dall’altro.

    Alle suore è permesso portare orecchini sotto il velo? Una domanda cui non sa dare una risposta. Pensava di no, tuttavia non è il genere di argomenti su cui è particolarmente preparata. Appena rientrata al commissariato sarà il caso d’informarsi, almeno per soddisfare la curiosità.

    Quando si rialza fa un cenno a uno dei due agenti. Questi si infila una mano nella tasca della giacca ed estrae un telo con cui, aiutato dal collega, cela la salma. Agli angoli di quella copertura estemporanea vengono poste delle pietre per impedire al vento di sollevarla e di dare quel cadavere in pasto a occhi indiscreti.

    Dal lato in cui si trova seduto il vecchio, la scena rimane nascosta però, giungendo dalla parte opposta, non c’è nulla che impedisca la visuale.

    «Allora, mi racconti per bene quando ha notato il corpo» l’ispettore si rivolge al ristoratore.

    L’uomo - di statura media, i capelli canuti e un ventre prominente che risalta sotto la giacca sin troppo aderente - fissa con circospezione le mani dei tre tutori dell’ordine. Uno le tiene dietro la schiena, nella posizione militaresca del riposo. L’altro è ancora impegnato ad asciugarsele con un fazzoletto di carta dopo aver toccato il cadavere bagnato. L’ultima le tiene in tasca.

    «Ma... nessuno trascrive la mia deposizione?».

    Arditi solleva un sopracciglio.

    «Stia tranquillo signor...».

    «Pintori, Giuseppe Pintori. Ma tutti mi conoscono come Pino...».

    «Bene, signor Pintori. Questo non è un interrogatorio. Le ho soltanto domandato quando ha visto il corpo. Per la trascrizione ci saranno il momento e la sede opportuni. Tanto non credo abbia motivi per modificare la prima impressione...».

    Quando è il caso, mettere un poco di pressione all’interlocutore. Una buona regola per indurre in errore il colpevole o per sciogliere le titubanze del semplice testimone.

    «No, certo che no».

    «Non avevo alcun dubbio. Diceva, signor Pintori...».

    «Stamattina...».

    «Può essere più preciso con l’orario?» lo interrompe l’ispettore.

    «Sì, saranno state le sette e un quarto, sette e venti. Stavo venendo verso il mio ristorante con due sacchetti di pesce fresco che avevo comprato da alcuni pescatori della

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