Le cose a metà: Quando amare significa andare oltre
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Un romanzo profondo e toccante, che parla di perdita e di sentimenti antichi, ma anche di amore ed equilibri difficili, di scelte dubbie e tanta tenerezza. Un libro che ha meritato di vincere l'edizione 2019 del Premio Giorgione Prunola.
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Le cose a metà - Marina Martelli
altro.
1. Fermo immagine
È come se fosse uscita un attimo fa.
Le pantofole sono lì, di fianco al letto, pronte per essere infilate.
Sul comodino la sveglia − che squilla a vuoto tutte le mattine alle 7 in punto − un romanzo col segnalibro infilato dentro, alcune riviste, un Vangelo con le orecchie alle pagine. E poi la cornice d’argento con la foto in bianco e nero dei suoi genitori già anziani, su una panchina, in un pomeriggio d’estate: la madre con uno strano cappello che, da bambina, credevo fosse il guscio di una tartaruga, e gli occhi socchiusi per il sole; il padre con le mani sulle ginocchia e il sorriso mite. C’è anche un’icona un po’ sbiadita, acquistata durante un pellegrinaggio di almeno trent’anni fa.
Il letto è stato rifatto, nonostante la frettolosa partenza per l’ospedale. Da sotto il cuscino fa capolino la camicia da notte ripiegata: una camicia a piccoli fiori rosa felpata, sebbene si fosse d’estate.
Riversi sulla sua poltroncina di velluto chiaro, alcuni capi di vestiario: un golf di cotone, una gonna e una camicetta di lino.
È tutto piuttosto ordinato, quel tanto che un ricovero improvviso, eppure negli ultimi tempi spesso messo in conto, ha potuto consentire.
Una folla di volti ormai scomparsi sorride dalle fotografie infilate nella cornice dello specchio.
Sul ripiano del comò, l’ennesimo paio di occhiali da vista, la scatola di fazzoletti di carta, la crema per le mani dal tubetto già spremuto per metà.
E poi le medicine. Un piccolo plotone di medicine, con scatole diverse per dimensioni e colori, ordinatamente schierato e pronto per l’uso.
Ovunque, nelle stanze, quel senso di incompiutezza, di sospensione di chi è certo di ritornare di lì a poco.
In cucina, le stoviglie rigovernate, le pentole al loro posto, i piatti in fila sulla rastrelliera, i canovacci appesi al gancio vicino alla finestra. Tutto pronto per essere usato.
Nella fruttiera, qualche frutto vizzo e un limone ammuffito rivelano però che i giorni trascorsi sono ormai tanti. Che dalla sua partenza il tempo è trascorso abbondante nell’immobilità esterrefatta della casa.
Sulla credenza, cartoline illustrate si mescolano a bollette, articoli di giornale, necrologi di amici, ricette di cucina ritagliate da riviste, prescrizioni mediche e cianfrusaglie.
Sul frigorifero, appesi con le calamite, i disegni dei nipoti: buffi, imprecisi, colorati a pennarello.
Dal balcone, cassette di fiori implorano acqua. Piante sofferenti, eppure in fiduciosa attesa, non potendo dubitare nemmeno per un momento che non verranno più accudite dalle sue mani premurose.
Nella penombra delle persiane chiuse, i divani dai cuscini un po’ consunti, muti spettatori del televisore buio (ma con la lucetta di preaccensione ancora inserita, quasi dovesse trasmettere di lì a poco il notiziario della sera). Nella semioscurità, ovunque aralie, dracene, felci disposte con sapienza secondo le esigenze di ciascuna. In questa innaturale penombra, cercano la luce, ma, soprattutto, cercano lei, inspiegabilmente assente.
Anch’io, aggirandomi per le stanze con la valigetta delle cose che aveva con sé in ospedale, mi sento pianta, sveglia, televisore.
Non riesco ad accettare l’idea che lei non si affacci all’improvviso da una porta o mi chiami dal salotto dicendo il mio nome, come lo diceva lei, arrotando un poco la erre.
Sento che dovrei fare un sacco di cose: spalancare gli scuri, arieggiare le stanze, svuotare il frigo, gettare gli ultimi rifiuti. Dovrei fare telefonate, controllare scadenze, bollette, svuotare la cassetta delle lettere.
Invece mi metto a sedere sulla sua poltrona preferita e resto lì, immobile, con la valigetta che odora di ospedale stretta nelle mani. Resto a guardare là sul tavolo, il suo vocabolario di latino spalancato e i testi di autori ammonticchiati in pile ordinate, una a destra e una sinistra. Le penne nel portamatite in compagnia del tagliacarte a foggia di pugnale.
Mi pare di vederla ancora lì che sfoglia nervosamente i libri e scrive con quella sua elegante grafia puntuta. Assorta, con gli occhiali dalla montatura di metallo calati sul naso e i capelli bianchi dalle ciocche ribelli a spioverle sulla fronte.
C’è un libro ancora aperto con note a margine scritte a matita. Così fini da leggersi appena.
Dovrò inscatolarli, mi dico. Dovrò inscatolarli tutti, questi suoi libri, compagni fidati e amatissimi di tante ore di lavoro, prima da brillante studentessa, poi da insegnante al liceo Parini e infine da studiosa mai stanca.
Dovrò inscatolarli, penso. Ma per farne cosa? Chi li conserverà, chi li consulterà?
Resto seduta con la sua valigetta strettamente impugnata, senza risolvermi a fare ciò che sarebbe giusto facessi.
2. Che ore sono?
Preferisco pensare a lei qui nella sua casa, tra le sue cose, che a ciò che ne era rimasto tra le pieghe delle lenzuola dell’ospedale. Un uccellino indifeso, incapace di reagire alle piccole torture quotidiane.
Quando la si andava a trovare, era sempre assopita.
Io avrei voluto approfittare di ogni istante, di ogni momento che ci era ancora concesso, ma lei sonnecchiava, le palpebre pesanti che calavano inesorabilmente sui begli occhi azzurri.
Che ore sono?
chiedeva poi all’improvviso, con tono di voce troppo alto.
"Sono