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Donne è arrivato l'arrotino: Parole affilate per il taglio giusto
Donne è arrivato l'arrotino: Parole affilate per il taglio giusto
Donne è arrivato l'arrotino: Parole affilate per il taglio giusto
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Donne è arrivato l'arrotino: Parole affilate per il taglio giusto

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L’arrotino è una figura mitica per l’autore, perché il suo noto richiamo/appello ad accorrere, ha una duplice valenza: quella di invocare l’arrivo delle donne, ritenute (almeno fino a un po’ di tempo fa) le uniche depositarie della gestione degli utensili di cucina; e – seconda – proporre le sue abilità e i suoi strumenti per consentire un’operazione essenziale: il taglio giusto. Quel richiamo forte e delicato allo stesso tempo, con voce decisa ma non invadente, parole ripetute e amplificatee, lasciano intendere (per una mente normale?) qualcosa di più di coltelli affilati: è il taglio delle parole che contano, per chi, mese dopo mese da dieci anni, in una rubrica che si intitola proprio “Le parole che non ti ho detto”, prova a dare spessore ad un dialogo insistente tra un uomo e molte donne.
LanguageItaliano
Release dateMay 6, 2021
ISBN9788869601194
Donne è arrivato l'arrotino: Parole affilate per il taglio giusto

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    Donne è arrivato l'arrotino - Vittorio Sammarco

    Cover_Arrotino_1770x2500.jpg

    Vittorio Sammarco

    Donne

    è arrivato l’arrotino

    Parole affilate

    per il taglio giusto

    Logo Altrimedia

    www.altrimediaedizioni.com

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    Titolo dell’opera:

    Donne è arrivato l’arrotino

    © 2020 Altrimedia Edizioni

    ISBN: 9788869601194

    © Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    Prima edizione digitale: Maggio 2021

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    PREFAZIONE

    ANNACHIARA VALLE, Giornalista

    «Le parole che non ti ho detto», come il titolo del romanzo di Nicholas Sparks, e con un occhio al «Parla con lei» di Almodovar. Quando pensai al rilancio della rivista Madre mi sembrò indispensabile dare la parola a un uomo. Che potesse parlare alle donne con sensibilità e intelligenza. Non ho dovuto cercare molto per trovare la persona giusta per questa rubrica. Chi meglio di Vittorio Sammarco, che di parole, da donne di qualunque età, ne ha sempre ascoltate molte? Che è stato ed è educatore, fratello, amico, marito di una gran donna (che ho il privilegio di avere come amica), padre di figli maschi e femmine… Che ho conosciuto quasi ragazzina quando era segretario del Movimento Studenti di Azione Cattolica. Con cui sono cresciuta e a cui ho sempre raccontato.

    Da parte mia non ci sono parole che non gli ho detto, trovando sempre un ascolto lucido e comprensivo. Ha ascoltato crisi adolescenziali, confessioni di amori, dubbi sulla fede, discussioni sulla scelta universitaria, sulla ricerca del cosa farò da grande. Ha seguito e accompagnato i miei primi passi nella professione, pronto sempre a farsi da parte perché io e il resto della squadra potessimo prendere meglio la rincorsa verso i nostri obiettivi. Ha incassato sfoghi, urla, richieste di silenzio. Giudizi anche sulle sue scelte e sui suoi percorsi, senza sconti e senza ipocrisie. E lui c’è stato, tutte le volte che doveva esserci, discreto e presente anche senza parole.

    Un punto di vista, una vicinanza, uno stile che ho voluto regalare a tutte le lettrici di Madre. Perché facesse bene a tutte noi. Ogni mese, la sua rubrica, le sue frasi, rivolte a donne famose o meno note, sono un promemoria per noi. Ci ricordano chi siamo, da dove siamo partite, il bello e il bene che possiamo fare per noi stesse e per il mondo. Parlano anche agli uomini che di queste donne sanno poco o nulla. A quei maschi incapaci di stare accanto a compagne più talentuose, che entrano in competizione o in crisi se un posto di rilievo viene assegnato o conquistato dall’altro genere.

    Questa raccolta è come un regalo fatto a tutte noi, da leggere d’un fiato per ritrovare motivazioni, per diventare sempre più consapevoli del nostro valore, per sentirci apprezzate. Sinceramente. Senza secondi fini.

    Forse se tutti gli uomini imparassero ad ascoltarci profondamente e a tirare fuori, da questo ascolto, i loro pensieri più veri ne usciremmo – maschi e femmine - più forti, più capaci di relazioni virtuose. Più pronti e pronte, anche, a correggere i nostri errori per rendere migliori le nostre vite.

    In questo Vittorio, ogni mese (e adesso con questo libro), ci guida per mano. Con una dote rara, che però possiamo provare a coltivare: quella della generosità unita a una totale mancanza di invidia. Non l’ho mai sentito, in questi anni, recriminare su un torto subito, imprecare contro il destino (che pure con lui non è stato avaro di dolori), screditare il successo degli altri… Anzi, il contrario. Come se la felicità degli altri accrescesse un po’ anche la sua.

    Ecco, felicità credo sia la parola chiave. Quella conquistata seguendo le proprie inclinazioni e la propria strada. Senza mai temere, nell’insuccesso, il te l’avevo detto. Ma sentendosi invece puntellate nelle proprie scelte, anche quelle sbagliate. Sicure che, da una persona come Vittorio (e speriamo, imparando da questa raccolta da tutti gli uomini), ci si possa aspettare solo un «sono orgoglioso non perché hai seguito i miei consigli, ma perché – seguendoli o meno – hai trovato te stessa».

    INTRODUZIONE

    Questo libro/raccolta avrebbe dovuto intitolarsi: Amo tutte le donne. In particolare, una. Poi ho cambiato idea. Perché mi sembrava un po’ ruffiano, troppo proteso alla conquista di consenso da parte dell’universo femminile. Troppo facile, scontato, prevedibile.

    E in più, a rileggere questi 100 e passa articoli scritti in 10 anni di onorata collaborazione con la rivista Madre, ho scoperto che in fondo, no, non le amo proprio tutte (e poi, cosa vorrà dire amarle tutte… si può?), anzi alcune mi sono proprio antipatiche, insopportabili, preferirei proprio non solo non parlare con loro, ma neppure incontrarle per caso. E questo significa, per converso, che quelle che amo, che sono protagoniste involontarie e inconsapevoli di un immaginario colloquio, ecco, loro sì le considero davvero degne di attenzione e parole. Quindi nella selezione tratta da un generico inconsistente, e alla fine improponibile, amore collettivo… si dà invece credito alle singole, vere e concrete.

    E nasce quindi il nuovo titolo: mi permetto di chiedere di non ridere. Non è uno scherzo, un divertissement giocoso per attrarre, una capziosa esca. No: penso proprio che possa rappresentare il senso dell’operazione che ogni mese mi ha portato a scrivere le parole che non ti ho detto.

    Quell’appello lanciato con voce un po’ metallica e un po’ nasale, da un misterioso personaggio a bordo di un’Ape car, precaria e rumorosa, con un attrezzo a bordo e strumenti tecnici non ben identificati, mi ha sempre affascinato nelle mattinate estive della mia infanzia. Quando non si andava più a scuola, le ore passavano lente e appiccicose e si stava prevalentemente per strada. Strade sterrate e campetti di periferia, nella mia piccola città meridionale, dove l’arrotino, che ancora raramente circola, passava di frequente a offrire la sua particolare e preziosissima abilità. Preso dalla voce e dall’insistenza, io mi fermavo qualsiasi cosa facessi (no, nel pieno di un’azione d’attacco no, ma in difesa, forse…), o mi affacciavo al balcone. Per vedere quante donne accorressero al richiamo. Spesso rimanevo deluso, non erano molte. E persino qualcuna non con un coltello in mano, ma con un più prosaico ombrello da riparare. Io, in quel richiamo, ci leggevo una specie di narratore di altri tempi, un cantastorie, un favolaio, non un ombrellaio. Coltelli, coltellacci, lame, asce, rasoi, chissà cosa avrebbero raccontato solo se avessero avuto la possibilità di farlo. Conflitti nascosti? Trame? Delitti? Minacce? Segreti da proteggere? Lettore accanito e con una fantasia che d’estate si autoalimentava nella noia e nella solitudine, pensavo che l’arrotino fosse il parente più manuale e operativo dello scrittore di favole. Soprattutto di quelle un po’ truculente. Che fanno scintille, rumori, tagliano, colpiscono, affettano. Ecco: l’arrotino era un mio mito. Una lettura del tutto personale, è chiaro. Ma l’ho coltivata negli anni.

    E l’ho poi associata, nella maturità, alla possibilità di arrotare, affilare, le parole. Ecco dove nasce il titolo. Donne (pausa, sia chiaro, né troppo breve né troppo lunga, perché si abbia la percezione della bellezza e della profondità del primo richiamo. Spessore di una virgola…); è arrivato l’arrotino!. E il punto esclamativo sia sereno, non gridato, forte della sua intrinseca schiettezza. Come dire: avete ancora dei dubbi? Io sono qua, a vostro servizio. Che, per me, è il servizio della ricerca della parola giusta, della frase affilata, precisa, lineare, senza intoppi. No, riconosco senza alcun timore, che non sempre ci sono riuscito, anzi. Spesso avrei avuto davvero bisogno di un arrotino delle parole. Uno che con il sorriso sulle labbra mi potesse dire vai tranquillo, si può leggere…, ora questa tua lama riuscirà a tagliare il giusto, né troppo fine né troppo grosso, come si fa con un insaccato pregiato, che nei due eccessi all’estremo opposto, perde sempre un po’ della sua qualità. E, capirai, nella mia Calabria se parliamo di salumi…

    E allora ecco che mi è tornato utile in questo gioco di rimandi, il lavoro prezioso di un artigiano che (lo spero) non scomparirà mai definitivamente.

    Perché in questa fatica decennale (sì, per quanto mi piaccia scrivere e parlare con un pubblico genericamente femminile, ogni mese è una piccola fatica…), il rischio che le parole non siano quelle giuste (affilate non solo per tagliare, ma anche per andare a segno), non siano capaci di esprimere con esattezza quello che volevo dire, ebbene è stato un rischio che ho corso volentieri, ma mi ha tormentato non poco. E non mi si venga a dire, per favore, che altri sono i rischi che devono preoccupare: io faccio questo mestiere (che è sempre meglio che lavorare, s’intende, come diceva un grande giornalista anni fa), ma fare il parolaio senza scrupoli è una cosa, farlo con decine e decine di ripensamenti quotidiani, è un’altra. Io queste lettere che scrivo ogni mese (intitolate, si badi, Le parole che non ti ho detto quindi quelle mancate, chissà poi perché…?), le penso e le ripenso, le scrivo in prima bozza e le lascio raffreddare per qualche giorno, poi le riprendo, le correggo e le ricorreggo, aspetto il penultimo giorno stabilito dalla consegna e poi dopo averle riviste ancora, le rimando con qualche riluttanza. C’è una scadenza, e si deve rispettare, per non compromettere il lavoro di chi impagina. Bene. Ma poi, quando arriva a casa la copia stampata, e mi rileggo (sì lo so, non lo fanno in molti, ma io lo faccio con spirito critico, per nulla compiaciuto di ciò che leggo), trovo tante cose che avrei scritto diversamente. Corretto e modificato. E un po’ mi arrabbio. Se fossi stato un bravo arrotino, penso, avrei affilato meglio le parole che scrivo.

    Perché questo dialogo di un maschio con una o più donne, su un giornale che ha una storia lunga e onorevole, con il nome impegnativo, un taglio moderno ma poggiato su antichi valori, con una pagina posta lì, a conclusione di tante belle parole e foto di altri, quasi come una firma di chiusura (e per giunta con una fotina bene in vista, quando si dice metterci la faccia!), insomma, per me non poteva e non potrà mai essere una rubrichetta. Anzi.

    In questi tempi di dichiarata conflittualità tra generi, con un maschio che perde punti e considerazione sociale, che alza il tiro della violenza perché si sente ferito e ridimensionato, con una palese e scriteriata sottovalutazione del ruolo e delle donne nella nostra società (stipendi, ruoli dirigenziali, posizioni in politica, ecc); con uno squilibrio (molto italiano) tra ore spese in famiglia e ore lavorative, tutto a svantaggio delle donne; insomma con una questione femminile ancora aperta e da discutere, questa rubrichetta fissa con un fine preciso e un impegno non da poco, dite quel che volete, a me un po’ di ansia l’ha sempre messa. Esagerato? Sì, non c’è dubbio, ma ecco perché poi, alla fine, ho voluto rimettere mano a questi dieci anni di dialogo (non detto?), e raccogliere, però, i pezzi non secondo un mero e forse inutile sviluppo cronologico. Ma rileggendoli, rititolandoli, e lasciandoli pressocché intatti rispetto a come erano all’origine (qualche piccolo intervento anti-refusi mi sarà consentito...). Collegandoli, questo è l’intervento principale, secondo quattro caratteristiche. Che sono poi quelle che apprezzo in particolare in una donna.

    Se mese dopo mese mi sono posto davanti, non un generico comportamento o un modello, un’idea o un dettaglio, ma una vera e propria persona, con nome e cognome, è perché secondo me valorizzava: o l’autorevolezza, o l’ironia, o la sofferenza (le lacrime), o la grinta. E sono profili che – mi pare, tranne il terzo – non sempre vengono ben abbinati a una storia e a un volto di donna. Tutt’altro: sono, quasi sempre, attributi caratteriali maschili. La capacità di essere riconosciuti autorevoli (spesso con l’erronea idea di associarla all’autorità, che è tutt’altra cosa), in grado cioè di farsi accettare l’ultima e la penultima parola sulle gerarchie di valori che impongono scelte e progetti anche per la collettività; la leggerezza nel superare difficoltà e problemi con un atteggiamento e un pensiero, spesso paradossali, che si distaccano dalla mera realtà; la grinta, poi, quella volontà tenace e aggressiva di imporsi, di farsi valere… (Treccani), quanto fa paura a noi maschi del terzo millennio se la vediamo disegnata sul volto di una

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