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Un ebreo contro: Intervista a cura di Livio Pepino
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Ebook101 pages1 hour

Un ebreo contro: Intervista a cura di Livio Pepino

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«Per l’ebreo, nella sua tradizione, gli uomini sono tutti uguali: dal re allo scemo del villaggio. Questo è l’ebraismo introdotto da Abramo. E in questa visione si compie una delle più grandi rivoluzioni della storia: la liberazione dell’uomo». 
«Sono orgogliosamente estremista. Anche se nel mio estremismo c’è una cosa che mi distingue dalle versioni stereotipate che se ne danno: il rapporto con la violenza. Io non credo alla violenza».
LanguageItaliano
Release dateMay 5, 2021
ISBN9788865792469
Un ebreo contro: Intervista a cura di Livio Pepino

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    Un ebreo contro - Moni Ovadia

    instagram.com/edizionigruppoabele

    Il libro

    «Per l’ebreo, nella sua tradizione, gli uomini sono tutti uguali: dal re allo scemo del villaggio. Questo è l’ebraismo introdotto da Abramo. E in questa visione si compie una delle più grandi rivoluzioni della storia: la liberazione dell’uomo».

    «Sono orgogliosamente estremista. Anche se nel mio estremismo c’è una cosa che mi distingue dalle versioni stereotipate che se ne danno: il rapporto con la violenza. Io non credo alla violenza».

    Gli autori

    Moni Ovadia è attore, musicista, teatrante e scrittore. Autorevole esponente della cultura yiddish nel nostro Paese è da sempre impegnato sul piano politico dalla parte degli ultimi e in difesa dei diritti fondamentali di tutte e tutti.

    Livio Pepino, già magistrato, è direttore editoriale delle Edizioni Gruppo Abele.

    Indice

    I. Ebreo per scelta

    II. Musico, teatrante, saltimbanco

    III. Popoli dell’esilio: ebrei, rom, migranti

    IV. La politica

    V. Palestina e altre polemiche

    VI. Post scriptum

    L’intervista che segue si è svolta in più riprese nel marzo 2021. Le domande di Livio Pepino sono riportate in corsivo, le risposte di Moni Ovadia in tondo.

    I.

    Ebreo per scelta

    Comincio azzardando una presentazione in pillole. Moni Ovadia: ebreo, musico, teatrante, sempre dalla parte degli ultimi, spesso controcorrente, riconoscibile anche per la sua inconfondibile kippah. Possiamo partire da qui? È una sintesi in cui ti riconosci?

    Più che un identikit può essere una guida per la nostra conversazione. Ma devo correggere un errore.

    Ti ascolto, pronto a fare ammenda.

    Non ti preoccupare, è un errore marginale. La mia non è una kippah, lo zucchetto che gli ebrei maschi indossano nei luoghi di culto o quando pregano o mangiano (e che alcuni indossano sempre, pur non essendo uno dei 613 precetti, o mitzvòt, previsti nella Torah che prescrive solo di coprirsi il capo in segno di rispetto verso Dio). Il mio copricapo non ha niente a che fare con la kippah della tradizione ebraica, anche perché io non sono religioso. Quello che porto è un cappellino fatto da mia moglie che è diventato per me un po’ come la coperta di Linus… Anche la forma non è quella della kippah ebraica ma, piuttosto, quella di un copricapo marocchino. Infatti gli ebrei non lo riconoscono come kippah mentre mi accade qualche volta, incontrando un musulmano, di essere salutato con l’espressione tradizionale Salam Aleikum (La pace sia con te).

    L’immagine ha la sua importanza ed era giusto chiarirlo. Ma passiamo ai contenuti. Ti ho presentato anzitutto come ebreo. Non per caso ma perché spesso, negli scritti, nei libri, nelle interviste sei tu a definirti così. La cosa è un po’ anomala e mi incuriosisce. Ho, infatti, molti amici ebrei, più o meno credenti, le cui origini ho appreso solo nel tempo o, magari, desunto dal cognome. Non, ovviamente, perché lo vogliano nascondere ma perché non sentono la necessità di esplicitarlo. Come del resto accade per altri appartenenti a minoranze religiose. Penso, per esempio, ad amici valdesi delle valli del Pinerolese. Difficile che qualcuno si presenti come valdese. Tu invece lo fai, quasi rivendicandolo.

    Hai ragione. Faccio spesso riferimento al mio essere ebreo: non per ostentazione ma perché l’ebraismo è stato ed è per me, sia pure a fasi alterne, una fonte inesauribile di formazione umana ed etica. Di più, l’ebraismo, almeno per come lo interpreto io, non è tanto una religione quanto un’ortoprassi, un insieme di norme etiche e comportamentali che caratterizzano l’essere umano. Per questo, non per segnalare un’appartenenza, vi faccio spesso riferimento.

    Partiamo, dunque, dall’inizio. Tu sei nato nel 1946 in Bulgaria da padre e madre ebrei.

    Esatto. Ma la formazione a cui ho fatto riferimento non è di carattere familiare. Pensa che mio fratello non ha pressoché nulla a che fare con l’ebraismo anche se abbiamo lo stesso padre e la stessa madre e siamo cresciuti nella stessa famiglia. Sì, la mia famiglia era ebraica. Mio padre aveva la licenza liceale, che per i primi anni del Novecento era un livello di studi elevato. Lui avrebbe voluto fare il medico ma non aveva potuto perché in Bulgaria, dove viveva, c’era il numero chiuso e mia nonna si era opposta al suo progetto di andare all’estero. Forse perché mio zio Samuil, suo figlio maggiore, si era trasferito per studiare a Parigi e da lì, avendo la cittadinanza italiana, aveva scelto di andare a combattere in Italia dove era morto. Così mio padre aveva avviato un’attività commerciale. Era un uomo sobrio, parlava un ottimo ebraico, sapeva leggere i libri delle preghiere. Ma nulla più. Col tempo, quando ci trasferimmo in Italia (l’antisemitismo e le persecuzioni degli ebrei indussero mio padre a quella scelta anche se i bulgari, tra i pochi in Europa, avevano salvato i loro ebrei – tra cui la mia famiglia – dai nazisti) l’ebraismo dei miei genitori si ridusse al Capodanno (Rosh Ha-Shanah), al Kippur (il giorno del digiuno per l’espiazione dei peccati), al pranzo pasquale della prima sera del Pesakh (in cui si ricorda la fuga dall’Egitto e la costituzione dell’identità ebraica con la consegna della Torah) e all’affermazione «voglio bene a Israele». Questo era l’ebraismo dei miei genitori.

    E tu che scuola hai frequentato?

    Da quando sono arrivato in Italia – avevo tre anni e mezzo – ho sempre frequentato la scuola ebraica: l’asilo dei piccoli, l’asilo dei grandi, le elementari, le medie, il liceo scientifico (sostenendo poi la maturità al liceo Leonardo da Vinci). Quella scuola prevedeva cinque ore settimanali di ebraico. Ma la materia, allora, non mi ha mai appassionato, forse perché gli insegnanti non erano particolarmente coinvolgenti e, poi, perché l’obiettivo dell’insegnamento mi sembrava un indottrinamento conformista e, soprattutto, normativo a cui sono sempre stato refrattario. Dunque non è stata neppure la scuola a indirizzarmi all’ebraismo.

    E allora?

    E allora potrei dire di essere un ebreo per scelta. Mi sono infatti avvicinato all’ebraismo dopo la fine della scuola, ormai in età adulta. L’ho fatto quando ho incontrato un maestro di ermeneutica ebraica che mi ha messo in contatto con una cultura, con dei valori e con un livello di pensiero vertiginosi, formidabili, rivoluzionari. E quella cultura ha segnato per me una svolta, aggiungendosi all’illuminismo e al marxismo che sono state le altre fonti della mia formazione.

    Parlami, dunque, di questo maestro.

    Si chiama Haim Baharier, matematico, psicoanalista, figlio di ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah e cresciuto in Francia. Le sue radici sono quelle dell’ebraismo dell’Europa centro-orientale, della grande cultura yiddish (quella tramandata dagli ebrei ashkenaziti, discendenti delle comunità stanziatesi sin dal Medioevo nella valle del Reno e nell’attuale Germania), ed è stato allievo di due grandissimi studiosi: Emanuel Lévinas (che oltre essere stato un filosofo di primo piano, è stato un altrettanto grande maestro di ermeneutica ebraica) e Léon Ashkenazi, soprannominato Manitù (anche lui importante studioso di ermeneutica biblica). Haim Baharier svolge tuttora il suo magistero anche se io mi sono allontanato da lui, con una separazione dolorosa legata alle contraddizioni che molti ebrei albergano in sé. Quando lui parla di ermeneutica talmudica il suo pensiero è quanto di più raffinato, spericolato, vertiginoso si possa immaginare, mentre quando parla dello Stato di Israele e della questione palestinese scade al livello di un mediocre agit-prop. Una sorta di dottor Jekyll e mister Hyde. Io non mi permetto di dare giudizi personali e capisco che questa discrasia deriva anche da una storia personale e umana tragica, come quella di molti ebrei della sua generazione. E tuttavia non ho potuto fare a meno di rompere con lui e di dirglielo apertamente: «Quando entra il maestro io mi alzo in piedi, ma quando parli come l’agit-prop scendi a un livello di mediocrità davvero imbarazzante. Non perché tu sostenga Israele ma

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