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Bucaneve Calpestato
Bucaneve Calpestato
Bucaneve Calpestato
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Bucaneve Calpestato

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About this ebook

La guerra, il rapimento, un’infanza rubata.
Questo è ciò che accade a Mariah ed ai ragazzi della sua città. Privati di tutto, anche della facoltà di odiare i loro rapitori. Questi infatti sono i loro stessi connazionali; tutti loro si ritroveranno uniti nella guerra contro la Russia. 
Nonostante la morte sia sempre presente la vita pretende di esistere e rivendica i sentimenti che la nutrono: amore e amicizia.
Mariah non dimenticherà mai ciò che ha vissuto, ed è per questo che in età adulta deciderà di raccontare al mondo le atrocità della guerra di Cecenia. 
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateApr 28, 2021
ISBN9788833668727
Bucaneve Calpestato

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    Bucaneve Calpestato - Khrystyna Gryshko

    dell’autore.

    PARTE PRIMA

    Nel principio era il Verbo, il Verbo era con Dio, e il Verbo era Dio.

    Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lui; e senza di lui neppure una delle cose fatte è stata fatta.

    In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta."

    (Vangelo di Giovanni/prologo)

    Questo libro è dedicato alla memoria di:

    Anna Politkovskaja, la donna che ha sacrificato la propria vita per la Parola, una vera giornalista in un mondo pieno di menzogna;

    Anne Frank, la ragazzina che con il suo diario mi ha insegnato a scrivere.

    ~0~

    Bucaneve

    Esiste una meravigliosa leggenda che narra su come Adamo ed Eva, dopo essere stati cacciati dall’Eden, furono trasportati in un luogo gelido, umido, buio, dove regnava sempre l’inverno. Il cielo era grigio, tetro.

    I due camminarono mano nella mano, in mezzo a quel freddo per molto e molto tempo. Non si sa esattamente per quanto avessero camminato. Si sa solo che ad un certo punto successe qualcosa.

    - Non ce la faccio più,- sussurrò Eva ad Adamo.

    - Non demordere,- cercava di consolarla il suo uomo.

    Ma lo sconforto della donna si trasformò ben presto in lacrime e le sue lacrime tentennanti sul gelo risvegliarono gli angeli dal sonno. Uno di loro, impietosito, volò subito da Eva e cercò di calmarla.

    -No… non piangere,- disse la creatura di Dio. Prese un pugno di fiocchi di neve, vi soffiò e ordinò a loro di diventare boccioli.

    I fiocchi si poggiarono dolcemente per terra e divennero bucaneve. E fu così che Eva sorrise per la prima volta fuori dall’Eden. E fu così che nacque bucaneve…

    -Muoviti! Forza!- gridavano i soldati. – Forza, vi ho detto!

    Le mani dei bambini tremarono. Erano alle porte di un bosco. Jura era quasi interamente nudo. In solo pigiama. I denti gli batterono all’impazzata come dei minuscoli martelli pneumatici. Ancora un po’ e sembrava che si sarebbero sgretolati, tornati alla polvere biblica.

    I piedi scalzi pestarono la neve con riluttanza. Era febbraio.

    Ad un certo punto il piede destro pestò qualcosa. Qualcosa di straordinario. Qualcosa di vivo.

    Era un fiore. Era un bucaneve.

    Il suo stelo si spezzò in un attimo, non sopportando la pressione del piccolo piede spoglio ed infreddolito, proprio come quel bosco, proprio come quella realtà.

    -L’ho ucciso! L’ho ucciso!- esclamò il bambino fissando il fiore con gli occhi luccicanti, vividi, lisci come la seta.

    -Ma non l’hai voluto. Non l’hai fatto apposta,- disse Jura.

    -Che importanza ha se l’ho voluto o no? L’ho ucciso e basta.

    Ed è così che a giorno d’oggi muoiono i bucaneve.

    Dagli angeli creati e dagli angeli distrutti.

    ~1~

    PRESENTAZIONE

    La guerra in un primo momento è la speranza che a uno possa andar meglio, poi l'attesa che all'altro vada peggio, quindi la soddisfazione perché l'altro non sta per niente meglio e infine la sorpresa perché a tutti e due va peggio.

    Karl Kraus

    So… so di non essere una scrittrice e di non essere nemmeno capace di scrivere bene, ma non importa. In quei pochi libri che ho letto ho sempre guardato il contenuto. Da piccola spesso m’innamoravo dei personaggi, trovavo interessanti le loro vite e quasi mai, anzi mai, mi soffermavo sulla bravura dello scrittore e sui vari vocaboli. Credevo e sono convinta tuttora che un libro lo si possa leggere anche senza essere spinti dallo scrittore; senza cioè che lui sia persuasivo o meno. Secondo me, basta avere solo un po’ di desiderio d’ascoltare, il quale, ovviamente, spero che voi abbiate.

    Dunque, inizio e incomincio proprio dalla mia presentazione. Mi chiamo Mariah Zahariovak, ma è da molto tempo che nessuno mi chiama più così. Per molto tempo il mio nome è stato 223, ma ovviamente non vi obbligo di ricordarlo. Sono cecena. Questo invece dovete memorizzare per bene giacché, purtroppo, la mia vita dipendeva e tuttora è condizionata molto dalla mia nazionalità.

    Oh, che cosa triste,- direste voi,… - tali realtà non dovrebbero esistere. Ovviamente non posso far altro che concordare. Le storie come la mia non dovrebbero esistere a priori. Forse persino la mia vita non doveva esistere. Non secondo i russi, ovviamente.

    La prima data importante della mia vita è stata il 1995. Quell’anno fui rapita dai miei connazionali all’età di soli diciassette anni, anche se credo che sarebbe stato molto meglio se ne avessi avuti un po’ di meno. Sono tuttora convinta che più giovani si è, meno si capisce; e se meno si capisce, meno si soffre. E non soffrire in quegli anni era l’unica cosa che cercavo e che maledettamente non riuscivo a trovare. Era l’unica cosa che desideravo. Non chiedevo nient’altro. Non chiedevo la felicità, no. Quello era troppo. Non soffrire era l’unica cosa per cui avrei accettato di bruciare… ardere, spezzarmi, sgretolarmi, paralizzarmi, polverizzarmi… qualunque cosa pur di non soffrire mai più. Per essere felice la posta in gioco era troppo alta. Era inimmaginabile. All’epoca credevo che solo la morte avrebbe potuto rendermi felice. Ma morire era più complicato di quanto in realtà si possa credere ed io, semplicemente, ero ancora troppo giovane per amare le cose complicate.

    Per quanto riguarda i miei genitori, invece, mi ricordo ben poco di loro. Le terribili immagini di guerra mi hanno oscurato la memoria per cui non credo di riuscire ad essere fedele alla verità della vita. Si, proprio quella vita che a volte sembra essere solo una menzogna. Solo una recita in un teatro puzzolente. Sì, proprio quella vita che mi ha reso incapace di descrivere i miei genitori. Sì, quella crudele vita.

    Credetemi, ho cercato persino di disegnarli due o tre volte per facilitare tale compito, ma niente da fare. I loro sguardi sono talmente fugaci, eppure sono fermi, spenti, putrefatti come quelli di un pesce non più fresco. No, non ci riesco.

    E raccontare la tua vita precedente al rapimento?- probabilmente voi chiedereste.

    Beh, ecco, mi rincresce parecchio deludervi ma nemmeno questo rientra nelle mie capacità. Credetemi, la mia non è un’arroganza. È solo che non so più chi sono. Come faccio a sapere chi ero?

    Inoltre, raccontare della mia infanzia felice sarebbe completamente inutile. Sarebbe come mostrarvi una farfalla svolazzare alla luce del sole per poi buttarla nel buio ed annientarla. Non voglio ricordare il momento in cui fui annullata. L’annullamento è così triste. Preferisco ricordare solo il giorno in cui sono partita da zero per essere d’incoraggiamento a chi si trova ad incominciare da capo ogni attimo della sua vita. Volta per volta, virgola dopo virgola, senza mai un punto.

    A volte stranamente persino mi sembra d’essere nata col primo bombardamento. È un pensiero sciocco, lo so, ma il fatto sta che non avendo più nulla, mi ritrovo forzatamente senza più nulla a cui pensare. Quando le preoccupazioni quotidiane se ne vanno rimango qui, seduta davanti a questo tavolo, col nulla… Né foto, né ricordi: nulla. Questo è il prezzo di quel annullamento.

    Non ricordo assolutamente nulla dei miei genitori. Non mi ricordo i loro volti. Nessun lineamento. Non mi ricordo le loro voci. Ricordo solo i loro nomi: Thamara e Pavel. Tutta altra gente che conoscevo prima, invece, è scomparsa del tutto. Rimane senza nomi.

    Non ricordo se i miei genitori si amavano. Non so se eravamo una famiglia felice o meno. Anzi, mi sembra a volte quasi davvero di non aver mai avuto dei genitori. Penso a quei nomi e cerco di spremere un ricordo, ma niente. Gli sforzi non comportano alcun risultato. Ricordo solo che mi amarono e che non poteva essere altrimenti perché ero la loro unica figlia. Questo è tutto quello che ricordo della mia infanzia. Poi subito tutto scompare ed una forza misteriosa mi proietta in quel giorno. La mia mano inizia a tremare, ma dentro di me so di non dover avere paura; la forza misteriosa non è altro che la mia memoria.

    Vedo davanti a me l’uomo e la donna a cui appartenevano quei nomi… Poi il nulla nei loro occhi…

    Loro mi amarono così tanto che avevano persino il coraggio per protestare contro i miei rapitori, nonostante che questi fossero armati. Papà non voleva proprio cedermi. Era un uomo coraggioso e non uno sciocco. Mi ricordo bene che era molto intelligente. Devo averlo apprezzato molto per questa qualità. Sin dall’inizio del conflitto ricordo come papà mi ripeteva che le trattative possono risolvere tutto. Ormai dal 1991 al 1995 erano passati quattro anni ma lui comunque stava sul suo. Era proprio testardo. Buffo, …ma non era un idiota, no. Era solo ingenuo. Così ingenuo da cercare persino di trattare con i miei rapitori. Oh, ma quanto era cieco da non vedere che quei kalashnikov facessero paragonare quegli uomini ai veri dei… forti, invincibili. Li facevano sentire immortali. Ed era strano per me, strano per mio papà, vedere come un oggetto, anche se non del tutto semplice, complesso, sfigurava l’animo di quegli uomini. Sì, sfigurava… perché era impossibile per noi, per noi semplici civili, credere che quelle anime fossero già così del suo, semplicemente per la loro natura malvagia. Credere che la natura umana potesse essere così violenta... Per poter crederci la nostra mente doveva violentare sé stessa. Doveva aggredire se stessa e soffocare ogni ricordo piacevole. Come un fungo maligno, come un parassita spietato. Doveva rendere cupa la nostra visione del mondo oppure lacerarci gli occhi e farci diventare ciechi per sempre così da non poterlo vedere mai più.

    Secondo me, la metamorfosi che avviene quando un soldato prende in mano un fucile è più terribile dello stesso significato della guerra. Innanzitutto quella metamorfosi è più triste e disgustosa. La guerra è un avvenimento ed un avvenimento rimane, ma un uomo che prende in mano un’arma per uccidere non rimane un uomo, ma piuttosto diventa un animale. La guerra è un contenitore degli uomini che sono diventati degli animali. È una sorta di gabbia, involucro. È l’inferno sulla faccia della terra.

    No, erro. Forse non è una gabbia. La gabbia obbliga. La gabbia è involontaria. Nella guerra, invece, c’è della volontà, anche se molti vorrebbero farci credere l’opposto. Ovviamente hanno le loro ragioni. Nella guerra domina la volontà di chi ha più armi. Tutto qui.

    D'altronde un uomo non può uccidere senza un’arma. L’arma per conto suo può essere tutto: un pugno, un coltello, il fuoco, l’acqua, una pistola superdotata, un pezzo di vetro, una corda, un’automobile, una mitragliatrice, una centrale nucleare, una bomba atomica… Allo stesso modo un uomo non può uccidere senza prima uccidere la propria anima. Senza prima portarla all’autodistruzione, allo stritolamento.

    Per fortuna, per quella poca fortuna che sia mai esistita nella mia vita, non mi è mai capitato di tenere un kalashnikov fra le mani, dunque non ho mai potuto nemmeno realmente apprezzare o disgustarmi dell’effetto che quell’oggetto avrebbe fatto su di me; ma non importa. Credo comunque di capire meglio di molti appassionati d’armi quale sia la sensazione. Ho visto gli occhi degli assassini dei miei genitori sfavillare dall’eccitazione prima di sparare. Il mio cuore lacerato e sanguinante di allora poteva capire solo in una maniera, ma stringo i denti e ribadisco che la maniera in cui capivo era l’esatta e lo rimane tuttora. Credo proprio che lo rimarrà per sempre.

    L’altra cosa, invece, che capivo alla perfezione era che ero viva. Avevo il cuore a pezzi, è vero, ma ero viva. La mia ora non era ancora arrivata. Il mio destino aveva preparato ancora qualcosa per me. Che cosa? Non lo sapevo ancora. Solo dopo scoprii che le ragazze rapite dovevano cucinare per i soldati e, quelle più grandi, anche …insomma, suppongo che lo abbiate intuito. Sarebbe stato uno sfruttamento totale, orrendo.

    Ora mi sembra molto più chiaro il significato per cui prima scrissi che sarebbe stato molto meglio se io avessi avuto un po’ meno anni. Ma d’altra parte, confesso, quando vedevo le altre, le bambine di sette, otto, nove anni, mi si lacerava il cuore e mi dicevo che non era giusto. Io almeno la mia infanzia l’ho avuta. Ho saltato la cordicella, ho canticchiato le canzoni, ho frequentato un po’ di scuola… Rispetto a loro ho avuto un’infanzia meravigliosa. Ed ora… ora era anche giusto, sebbene la parola giusto non sia proprio una delle più adatte, era giusto che, nella nostra situazione, fossi io la più soggetta alle violenze dei soldati. Avevo goduto dell’infanzia e questo era il prezzo da pagare. Prezzo da pagare per non spezzare l’infanzia degli altri. Prezzo da pagare per non esse morta. Prezzo da pagare per poter esistere ancora… in quel mondo… in quella realtà.

    Ogni realtà, ma non questa, - pensava la mia giovane mente orgogliosa, sanguinante ma ancora viva. – Non in questa realtà. Non in realtà della guerra. Non nella nostra realtà che è troppo crudele e sporca; sporca di sangue degli innocenti.

    Tutti i sogni, tutte le mie speranze per il futuro, si sono sgretolati in un attimo lasciando che le schegge schizzassero su di me. Lasciando che le schegge mi ferissero.

    Tutto era successo così in fretta. Non mi fecero nemmeno abbracciare mia mamma che piangeva nell’angolo della stanza, che si strusciava sui muri come un serpente, aggrappandosi alle finestre volendo evadere ma non potendo lasciarci si voltava indietro e piangeva, piangeva e piangeva... Il destino era così rude, crudele con lei, con mio papà, con me. Con le altre bambine. Con quelle piccole creature che non avevano nemmeno avuto il tempo per iniziare a sperare in un futuro. Il loro futuro era volatile come la benzina. E puzzava di sporco come la benzina. Il loro domani era stato bombardato da quelli che loro chiamavano gli uccelli di ferro.

    Oh mio Dio, è così difficile comprendere che quelle bambine… sin da piccole loro odiano. Odiano i russi. Sanno perfettamente che loro sono i nostri nemici. Sanno che loro non ci vogliono liberi. Sanno che loro ci odiano allo stesso identico modo come noi li odiamo. E, infine, sanno che loro hanno ucciso i nostri genitori. Non direttamente, ma sanno. Sanno che tutto quello che hanno dovuto passare era solo per causa loro.

    Ed io?… Io da parte mia sapevo che niente mai più sarebbe riuscito a stupirmi e a sdegnarmi più della violenza dei bambini; più della violenza stessa sui bambini.

    Quando un diavolo stermina è normale, è ovvio, è nato per farlo, è un diavolo; ma quando un angelo uccide è peccato. È il vero terrore che abbraccia le stanche viscere, qualsiasi cosa che rimane, qualsiasi cosa che palpita ancora di vita dentro di noi…

    Fra le montagne, dove avevano portato tutti noi, -bambini rubati o poco più che adolescenti,- appena fummo sistemati, o più precisamente rinchiusi dentro a delle grotte come degli animali, una ragazza mi si avvicinò e mi disse sussurrando:

    - È un miracolo che siamo ancora vivi. È un miracolo che i nostri soldati hanno deciso di portarci qui. Ci hanno salvati dal bombardamento. Ci hanno salvato la vita.

    I suoi occhi erano rossi come di chi aveva pianto poco prima ma una lucentezza particolare irradiava entusiasmo dal suo volto. Quest’ultimo era radioso. Persino troppo radioso. Radioso nella sua speranza vera, nei miei occhi – finta.

    Io non le risposi. Il mio pensiero era tutt’altro che entusiasta. Ero più pessimista, ero più realista e non volevo distruggere la sua perfida illusione. Sapevo benissimo che non c’era nulla di peggio della disillusione. È già triste abbastanza accorgersene da solo che tutti i propri sogni, il proprio credere è nulla, è fine a se stesso, ma… ma quella ragazza se l’avrebbe presa in particolar modo con me se io solo avessi tentato di distruggere quello in cui lei tanto credeva, se io solo avessi cercato di sfiorare le sue speranze. Probabilmente mi avrebbe odiata per il resto della sua vita.

    La mattina seguente il mio pensiero fatalista fu confermato. Ci avevano salvato la pelle per convenienza e non per il cuor misericordioso come credeva Natasha, la ragazza del giorno prima che ben presto divenne mia migliore amica alla quale, durante tutto il mio soggiorno lì, non ho quasi mai smesso di confidare nulla.

    Tutta quella messa in scena consisteva nel fatto che la Cecenia è un Paese molto piccolo. All’epoca il numero di abitanti ammontava a circa 780’500 anime. Troppo pochi per trovare abbastanza uomini pronti a combattere per una miseria di paga. Ma non solo. Insomma, si sa benissimo che un bambino non chiederà mai un ricompenso ed anche se lo avrebbe fatto ne sarebbe rimasto punito.

    Con gli schiaffi impara e non se ne azzarderà mai più!- questa era la morale.

    Qui picchiare aveva un nome proprio: l’equa punizione per la mancanza di rispetto. Inoltre, come militarmente si usa dire, i bambini da sempre sono stati comodamente sacrificabili. È la legge della storia. È la legge del disprezzo delle vite. E, a dirla franca, a quasi nessuno importava effettivamente se quei bambini fossero vivi o morti, o se si fossero ammalati e deceduti silenziosamente come dei topi. Fra le grotte, soprattutto nei primi giorni dai rapimenti, dominava un menefreghismo quasi totale.

    In giro si diceva che Siamo una nazione! … Ma secondo me in realtà non eravamo niente. Niente, perché in una nazione non si uccidono i bambini. In una nazione la gioventù è il futuro, e qui il futuro veniva annientato. In realtà solo per questo non eravamo una nazione. Avevamo delle buone prospettive, dei requisiti sufficienti, per poterlo essere, ma questo passaggio era fallimentare. Non eravamo in un mondo machiavelliano in cui il fine giustificava il mezzo. La morte dei bambini non poteva essere in alcun modo il buon mezzo per la nascita di uno Stato e inoltre credo che non servono ulteriori parole per confermare quanto in realtà il mezzo era ingiustificabile. Eravamo solo un popolo un po’ civile e un po’ no che voleva essere autonomo e, essendo stato da sempre oppresso, non sapeva ancora valorizzare nulla di quello che realmente possedeva. A dir vero, non sapeva nemmeno come in realtà fossero i suoi possedimenti. Proprio per questo motivo, in ragion dell’ignoranza, alcuni ceceni filorussi si definivano conservatori e si opponevano alla resistenza.

    A volte mi chiedo ancora oggi: siamo stati noi o erano i russi poco più che animali? Sì, il prezzo del petrolio aumenta costantemente. Sì, è una risorsa non rinnovabile, ma anche la vita è una risorsa non rinnovabile. È la più non rinnovabile di tutte. Come mai un combustibile può valere più delle vite umane, più delle vere risorse? E se uno di quei bambini uccisi fosse intelligente quanto Einstein? Se fosse persino più intelligente di lui? Lo avrebbero lasciato morire? Probabilmente in questo caso si sarebbero rimangiati le mani, avrebbero pianto per lui e l’avrebbero ammirato senza nemmeno mai conoscerlo. La vera e propria fama lo avrebbe abbracciato e lo avrebbe soffocato lentamente. Non la fame come accadeva per noi, ma la fama, sua sorella più grande. Ma lasciamo da parte le capacità individuali e l’intelletto e consideriamo ciò che tutti noi indistintamente possediamo. La mia domanda quindi è: Forse il carburante è più prezioso del cuore?... Solo chi non ne ha uno può dir di sì.

    L’anima del popolo dice no, ovviamente, ma spesso senza rinunciare al proprio comodo. Il popolo stesso spesso si rifiuta di vedere il problema. Chi ci governa, invece, con le sue azioni risponde di sì balbettando fra i denti qualcos’altro. Loro non sanno quel che fanno. Credono di avere l’assoluto controllo sulla nazione. La gente, da parte sua, non vede le differenze fra il proprio desiderio e quello dei propri rappresentanti anche se è tutto evidente: il popolo muore mentre chi ci governa resta. Chi avrà tutto quel petrolio se non ci sarà più una nazione? Quale generazione perduta? Quale morta gioventù?... Solo quei vecchi maiali seduti comodamente sulle proprie poltrone. Si mangeranno tutto e a noi non resterà altro che violenza. Violenza ed ancora violenza. Forse una sanguinosa rivoluzione.

    Come uno stalker che perseguita la sua vittima ed è assetato di possederla, così, nello stesso identico modo, quegli uomini sono assetati di potere e perseguitano e tormentano il popolo. Come uno stalker è travolto dalla propria passione e dalla follia, e cerca di persuadere la vittima e dirle che l’ama, allo stesso modo i politici travolgono la gente comune a commettere omicidi per le loro folli promesse, e marciano decisi sui cadaveri convincendo i popoli che tutto questo sia necessario, che tutto questo sia per l’amore verso loro, che non esistono passioni personali, che tutto il loro essere appartiene al popolo e che tutto quello che un politico fa, lo fa per l’interesse di chi l’ha eletto.

    Io vi dico invece che sono tutte balle! Questa non è una guerra per la libertà. Questa è la guerra delle risorse ed io ne sono solo una delle tante passeggere vittime.

    Chissà?- a volte scherzo per sdrammatizzare almeno un pochino.- Magari anche il mio stanco corpo un giorno diventerà petrolio! Esclamo queste parole in silenzio per non essere presa per una folle. E poi, nello stesso silenzio, persino più agghiacciante di prima, mi rispondo da sola.

    Mah, questo sarà per sempre un enigma per me…- sussurro ogni tanto. –Semplicemente perché quando lo diventerà sarò ormai morta.

    L’umorismo noir non mi convince ed alla fine smetto, confusa come non mai.

    Come vedete, è stato doloroso per me ricordare quegli anni, tuttavia, infine a questa mia presentazione, ci tengo molto a precisare che non odio i russi come tanti miei connazionali fanno e come molti di voi hanno immaginato sino ad ora. Spero solo che questo non limiti per i miei connazionali il mio senso di patriottismo. Amo molto il mio paese, ma non amo l’odio. Non odio gli uomini in sé. Non li ho mai odiati. Odio solo la loro razionalità che scava il fosso e sotterra ogni insegnamento morale. Non intendo nemmeno gli insegnamenti religiosi, no. Comprendo perfettamente che a giorno d’oggi ci sono più atei e agnostici che professanti. Parlo solo dell’umana coscienza che deve esistere. Insomma, deve esistere per forza, se ci sono ancora dei giorni da condividere insieme su questa terra prima dell’apocalisse, semmai un giorno simile possa arrivare.

    È il nostro dovere. È il nostro dovere essere civili e comportarsi come tali. Però in guerra?... In guerra uccidere diventa un dovere.

    Il dovere, per conto suo, rimane allibito e in disparte. Il dovere è un concetto molto umano ed è assurdo, non è concepibile nemmeno per esso stesso, che sia proprio lui, il senso del dovere, così pudico e disciplinato, a degradarci, a far di noi quasi meno degli animali.

    ~2~

    RISVEGLIO

    (Febbraio 1995)

    Ogni sogno è un castello di sabbia che si costruisce meticolosamente ogni notte... ma al risveglio come ogni castello che si rispetti... un'onda violenta s'infrange sulla battigia e in un minuto lo spazza via.

    Graziella Veri

    Quando il bucaneve si risveglia a febbraio, apparentemente non accade nulla. Si risveglia sotto la neve, sotto la sua soffice coperta bianca e resta lì. Pensa. Graffia tutto ciò che tocca. Combatte. Vuole vivere. Non chiede altro che essere libero. D'altronde il febbraio è il suo mese. È la sua era e guai a chi dice il contrario.

    Beh, ecco, l’adolescenza è molto simile al bucaneve. L’adolescenza è precoce. L’adolescenza è ribelle. E chi se non una fragile pianta che sboccia d’inverno sappia più della ribellione?

    L’adolescenza è la ribellione nel senso più ampio. L’adolescenza non è una ribellione contro gli adulti. L’adolescenza è molto di più. L’adolescenza è la ribellione contro il tempo. La stessa ribellione che ogni anno compie coraggiosamente il bucaneve: la ribellione contro l’inverno…

    La mattina noi, piccoli ometti dagli occhi smarriti come quelli degli animali persi, erranti fuori dal gregge, fummo svegliati dalle bestie feroci. Per tutta la notte quegli uomini ci avevano sorvegliati senza mai toglierci i loro crudeli occhi di dosso. Quegli sguardi mi terrorizzarono e mi facevano bollire il sangue di rabbia. L’unica consolazione che avevo era quella di sperare che, poiché si trattasse di nostri connazionali, non ci avrebbero fatto del male. Doveva esserci uno scopo. Doveva esserci un qualcosa per cui li servivamo… Ma era inutile. Era inutile ed infantile, da idioti, da totali cretini, poter sperare in qualcosa. Sperare in una ricompensa per quello che eravamo costretti a fare. O forse destinati.

    I nostri destini erano insensati. Ecco in cosa credevo. Era l’unica verità. Tutto il resto era menzogna. Noi stessi eravamo menzogna. Eravamo dei burattini di quel destino buio, tetro. Burattini su un palcoscenico senza illuminazione.

    Continuare a credere nell’esistenza della luce, anche se fosse la più fiacca di tutte, dopo quasi un giorno intero che ci trovavamo nel buio più totale, nel buio e nell’umidità di una grotta, era semplicemente patetico.

    - Alzarsi! Alzarsi!- sentimmo rimbombare delle voci.

    Cinque uomini armati erano entrati nella grotta dove dormivamo per svegliarci. Svegliare noi, noi piccoli, attorcigliati, schiacciati e stretti, esseri umani simili più ai pinguini. Piccoli pinguini che si stringono fra di loro in un cerchio per ripararsi dal vento e dal freddo.

    Io, appena visto i kalashnikov, che quegli uomini non cercavano nemmeno di nascondere, capii che, in caso di necessità oppure per un singolo capriccio di qualcuno di noi, li avrebbero usati. Sì, sì, non avrebbero esitato. Dunque, mi alzai di scatto e senza tentennamenti aiutai Natasha a sollevarsi a sua volta.

    - Grazie,- mi sussurrò lei non mollandomi la mano,- grazie.

    Di nulla..- volevo dirle, ma un altro urlo di far silenzio schiacciò violentemente la mia debole voce. Come una mosca, o forse come una sottile zanzara pungente.

    Poi ci fu ordinato di metterci in fila e ci fu spiegato il motivo per cui ci trovavamo lì. Lì… in quell’inferno.

    - Ascoltatemi, - disse uno dei cinque uomini e si avvicinò a noi.

    Quell’uomo portava la barba ma era giovane ed era l’unico disarmato. Era come se non avesse nemmeno bisogno di un’arma. Era come se gli altri quattro fossero la sua guardia del corpo o cosa simile. Incuriosita strizzai gli occhi per guardarlo meglio.

    - Ascoltatemi, - continuò egli.- Groznij è stata presa dai russi. Vi abbiamo portati qui affinché voi possiate diventare dei veri soldati e riprendervela indietro. Noi vi abbiamo salvati…- la sua voce si spezzò.

    Si accarezzò lentamente la barba tutto pensieroso e dopo solo un minuto riprese nuovamente il discorso.

    - Siamo in guerra e per vincerla dobbiamo combattere tutti insieme,- disse.- Dobbiamo unire le nostre forze per combattere per una buona causa: per il nostro Paese.

    Allora era meglio morire che essere salvi in questo modo- pensai. Se fossi morta… forse sarei finita al purgatorio… ma vivere e trovarmi all’inferno sulla terra era peggio di ogni mia aspettativa.

    - Forza, - continuò l’uomo accarezzandosi la barba, pensieroso. - Ora, uno per volta, avvicinatevi a me e ditemi la vostra età e provenienza. Non temete. Non siamo intenzionati a farvi del male.

    Dopo quelle assicurazioni, io ebbi ancora più paura di avvicinarmi. Non avevo creduto nemmeno ad una parola del suo discorso. Comprendevo alla perfezione il fatto che ci avrebbero usati e dopo…sì, la nostra morte era solo una questione di tempo. Ne ero convinta. Se non sarebbero stati loro a farlo; allora a ciò avrebbero adempiuto i russi. Niente di più comodo per loro.

    In ogni caso l’uomo barbuto era gentile. Era un ventiquattrenne calmo e da modi delicati. Sin troppo delicati affinché potessero essere veri. Tutta diffidente, cercai dunque di allontanarmi, di spostarmi più lontano da lui.

    - Vieni qua, - tutt’ad un tratto qualcuno mi afferrò per la spalla.

    Solo la sua mano poteva essere così leggera e fine. Non so perché, ma pensai subito a lui.

    - Mi serve il tuo aiuto,- aggiunse l’uomo barbuto.

    - Mio aiuto?- mormorai stupefatta.

    Non avevo alcuna intenzione di aiutarlo.

    - Sì,- annuì quello.

    Un bel, largo sorriso spuntò in mezzo alla sua barba.

    - Ehm, …- non sapevo che dire.

    Non volevo mettermi in pasticci. Non volevo comportarmi da dissidente, da ribelle o da che altro; ma non volevo nemmeno collaborare coi nostri rapitori. Ma per fortuna l’uomo barbuto non badava molto alla mia reazione.

    - Compila questo, - mi disse, senza nemmeno degnarmi di uno sguardo, e mi passò fra le mani una piccola agenda, una penna ed una lanterna affinché potessi scrivere.

    Subito dopo, in giro di solo un minuto, il primo bambino si avvicinò all’uomo barbuto e gli disse il suo nome.

    - Scrivi, - mi ordino l’uomo. – E di dove sei?- poi chiese al bambino, dolcemente.

    Fissai quell’uomo senza mai togliergli gli occhi di dosso. Era troppo, troppo gentile con quel ragazzino. Era strano. Era… insomma, tutti gli altri prima erano stati molto rudi con noi, mentre lui era… diverso.

    - Di Groznij, - rispose il bambino, anche lui guardandolo incuriosito.

    Nella colonna città scrissi la parola Groznij, senza più che l’uomo me lo dicesse. Ormai avevo capito il mio compito.

    - Bene,- annuì quello.- E ti ricordi il tuo indirizzo? Dai, è facile. Certo che te lo ricordi. Sei abbastanza adulto per ricordartelo, vero?

    - Via Kara, 56, - sussurrò il bambino grattandosi la fronte corrugata come quella di un vecchietto.

    Io rimasi inorridita. Per un po’ non ce la feci a riprendere di scrivere. La mia mano iniziò a tremare come se fosse posseduta da uno spirito maligno. Quella via era solo a due isolati da casa mia. Forse lo avevano rapito dopo che lo avessero fatto con me. Ma dov’ero io? Perché non me lo ricordavo? Non ricordavo alcun cammino per gli isolati… non ricordavo altri bambini…

    Poggiai di scatto l’agenda ed iniziai nervosamente a controllarmi le mani e le braccia. Ero l’unica che aveva la lanterna. Di conseguenza, dato che eravamo rinchiusi in una buia grotta, ero l’unica che poteva controllarsi.

    - Che stai facendo?- mi chiese Natasha vedendomi in difficoltà. Io, infatti, mi dimenavo come un pesce fuori d’acqua. Trovare un foro di una siringa sul mio corpo in tutto quel buio era un’impresa assai difficile.

    - Forse ci hanno drogati, - sussurrai fra i denti come un serpente viscido e squallido.

    Gli occhi di Natasha, invece, si fecero grandi come quelli di una vipera.

    - Però…- lei voleva spiegazioni. Ma ormai era troppo tardi. Un altro bambino si avvicinò all'uomo e fui obbligata a rimettermi a scrivere.

    Alla fine dell’operazione compresi che nella grotta eravamo in trentanove. C’erano due ragazze ed un ragazzo di 19 anni; due ragazzi di 18; cinque ragazze e tre ragazzi di 17, compresi Natasha ed io; due ragazzi di 16; due ragazze di 15; un ragazzo un po’ strano di 14; tre ragazze di 13; quattro ragazzi e tre ragazze di 12; due ragazzini di 11; quattro ragazze ed un ragazzino di 10; ed in fine, una ragazzina di 8; due ragazzine di 6, ed un fanciullo anche lui di 6 anni.

    Ad ognuno di noi era attribuito un numero di tre cifre. Il mio, come ho già detto prima, era 223. Quello di Natasha era 345, ma non ho mai osato chiamarla in quel modo anche se lei spesso scherzava e mi chiamava per il numero. Io, ovviamente, mi irritavo un po’, poi però la perdonavo. Natasha era troppo birichina per non poter essere perdonata. La sua ingenuità disarmante era la sua arma letale. L’arma con la quale attirava chiunque verso di sé. L’arma con la quale si lasciava voler bene da tutti. Io, invece, ero l’esatto opposto. Ero quella scontrosa. Ero il bucaneve.

    - Abbiamo finito, - mi disse l’uomo barbuto allungando la mano per riprendere la sua agenda.

    Io avaramente cercai di sfogliare le ultime pagine. Le mani mi tremarono ancora più di prima. Ma dovevo scoprirlo.

    La tabella di dati anagrafici non finiva più. In fondo all’agenda c’erano ancora molte pagine da riempire e numeri di tre cifre da distribuire. Aggrottai le sopracciglia e, per un istante, il sangue mi si gelò nelle vene. Credevo che mai più avrei ripreso a muovermi. Sorprendentemente, però, il mio braccio si allungò e passò macchinosamente l’agendina al suo legittimo proprietario.

    - Grazie, - sussurrò quello.

    Io chinai il capo infastidita. Grazie per cosa?- pensai.- Prima uccidi i miei genitori e poi mi dici grazie! E non me ne frega un accidente se sarebbero morti lo stesso per colpa dei bombardamenti! Che senso ha? Quale?

    Ma non potevano lasciare vivi i miei genitori e farli venire qua con me. No. Ed io lo comprendevo alla perfezione. Non temevano di dare un fucile ad un bambino, ma avrebbero temuto i miei genitori. Non gli avrebbero mai dato fiducia. Non gli avrebbero mai passato un kalashnikov fra le mani. Lo scopo, invece, per cui tenevano quei bambini lì, era proprio quello di insegnargli a sparare. Insegnargli a fare ciò che un bambino non dovrebbe mai fare. Ciò per cui non è nato, anche se credo profondamente che nessuno, nemmeno gli adulti, sia nato per farlo.

    - Passami anche la lanterna,- mi disse l’uomo indicando l’unica debole luce che c’era nella grotta.

    - Io?- borbottai, e presi la lanterna.

    Ad un tratto, però, qualcuno arrivò e di scatto me la strappò dalle mani. Mi voltai per vedere chi fosse ma la luce accecante, sollevata all’altezza dei miei occhi, non me lo permise. Fui accecata completamente e mi voltai dall’altra parte per risparmiare i miei occhi.

    - Toglietele la lanterna, presto!- sentii la voce dell’uomo barbuto gridare come mai avevo sentito prima.

    Ad una velocità incredibile due soldati si gettarono su Natasha. Tutto successe così in fretta che non riuscii nemmeno a capire cosa fosse realmente accaduto. Sentii solo Natasha strillare e poi due soldati andare via con la lanterna. Ringraziai il cielo che non l’avessero portata via da me.

    Mi gettai immediatamente nel buio verso di lei.

    - C… che ti hanno fatto? - balbettai presa dall’ansia.

    Sentii dei singhiozzi.

    - Ti hanno fatto del male?- domandai, cercando di sfiorare nel buio il suo volto.

    - No, - la sentii farfugliare.

    Accertatasi che lei stesse bene, iniziai a rimproverarla.

    - Ma cosa ti è saltato in mente?- farfugliai a denti stretti.- Perché mi hai tolto dalle mani la lanterna?

    - Volevo verificare quello che hai detto, - sentii di nuovo i suoi singhiozzi. – L’ho trovato. Mariah, l’ho trovato!

    Ad un tratto lei mi afferrò per la mano e mi fece toccare un punto preciso sul suo braccio.

    - È questo, - spiegò.

    Io sulla sua pelle non percepii nulla, ma, appena toccai il mio braccio sinistro nel punto che era simmetrico al suo, avvertii un leggero dolore. Capii che le mie supposizioni erano vere: ci avevano drogati per trasportarci lì. Per questo non mi ricordavo nulla. Per questo i miei riflessi erano lenti e quasi-quasi non mi ricordavo nemmeno più come si scrive. L’alfabeto mi sembrava fantascienza; caratteri cinesi.

    Tuttavia, compresi ben presto che questo era il male minore. Come ci avrebbero marchiati con i nostri numeri?- questa era la domanda seguente.

    I miei occhi si riempirono di lacrime a tal pensiero.

    L’uomo barbuto stava per andarsene. Scattai in piedi per fermarlo.

    - Come può credere che dei bambini così piccoli possano ricordarsi il loro numero?- lo domandai nervosa, stringendo i denti.

    Ero come un lupo mannaro, pronta a saltargli addosso ed afferrarlo per il collo. I due soldati armati fecero immediatamente un passo in avanti per proteggerlo.

    - Come farà a marchiarci?- ringhiai una seconda volta.

    La mia mossa era pericolosa ma ora non m’importava più nulla. Non avevo nulla da perdere. Non avevo più la mia casa, non avevo più i miei genitori, e non avrei più avuto il mio nome…

    - 223, - aggiunsi a denti stretti. Non volevo che nessun altro mi sentisse. Non volevo creare il panico.- Come farà ad incidermelo sulla pelle?

    L’uomo barbuto mi prese per la spalla e mi tirò verso di sé leggermente, con calma, com’erano d’altronde tutti i suoi modi di fare.

    - Con il fuoco, - mi sussurrò all’orecchio, quando ormai ero abbastanza vicina da poter sentire i suoi sussurri.

    Ero pronta a ribellarmi e sputargli in faccia. Ero abbastanza vicina persino da colpirlo e fargli del male. La mia rabbia aveva preso il soprassalto sul mio corpo… Ad un tratto, però un soldato ci passò accanto con una lanterna in mano. Il fiacco raggio di luce illuminò il volto dell’uomo barbuto e mi paralizzò. I suoi occhi color grigio-azzurro comunicavano frustrazione. Le sue labbra erano piegate in una smorfia, disgustata di quello che la sua bocca aveva appena detto. Il mento leggermente tremava.

    - Ma tu…- volevo dirgli qualcosa, ma non ci riuscivo.

    Non riuscivo a crederci che lui non volesse farci del male. Non riuscivo a crederci che l’idea di marchiarci con il fuoco lo disgustasse e lo addolorasse altrettanto quanto tutto questo angosciava me.

    L’uomo barbuto non disse più nulla. Mi voltò le spalle ed uscì dalla grotta. I quattro soldato lo seguirono.

    ~3~

    MAKSIM

    I soldati combattono per un re che non hanno mai visto.

    dal film Troy di Wolfgang Petersen

    Dopo che i cinque soldati se ne furono andati i bambini ricominciarono a chiacchierare. Il loro chiacchiericcio era rapido ed incantevole come quello dei teneri passerotti primaverili.

    Io, da parte mia, raccontai subito a Natasha ciò che avevo visto in agenda dell’uomo barbuto.

    - Non siamo gli unici… Non siamo gli unici, - balbettai.

    Lei mi guardò con gli occhi terrorizzati.

    Per la prima volta nella mia vita riuscii a comprendere il senso della frase l’ignoranza è la forza.

    Ecco, quei bambini, - pensavo. - loro non sanno quasi nulla. Non sanno di essere stati drogati. Non sanno come sono arrivati sin qui e cosa li aspetta… non sanno nulla e chiacchierano amabilmente fra di loro. Si scambiano impressioni, speranze, sogni, desideri, ricordi… Ed io, invece, sapevo la verità, leggevo fra le righe della realtà e sapevo quanto dolore ci aspettava nel futuro. Avrei voluto essere meno istintiva, meno sensibile… e persino più rude ed ignorante. Volevo essere una pietra.

    L’ignoranza è la forza, - mi ripetevo.

    Si dice che se si è in tanti, si possono superare molti dolori, molte sofferenze, molte disgrazie. Io invece, ecco, non ci credevo. Non ci ho mai creduto per davvero. La cosa che desideravo più al mondo in quel momento era di essere l’unica. L’unica ragazza rapita. L’unica che sarebbe stata marchiata col fuoco. L’unica che doveva subire tutto questo.

    Quando immaginavo quei bambini soffrire, soffrivo dentro di me ancora di più. Sanguinavo. Prendete me!- volevo gridare, ma io purtroppo non ero abbastanza.

    - Tutto questo è terribile, - disse Natasha. - Dove hanno trovato tutti questi bambini? Dio sa che ci faranno? Credi che ci fucileranno oppure ci manderanno fra il fuoco nemico?

    Io tacevo. Sapevo cosa risponderle ma non volevo. L’ignoranza è la forza- mi ripetevo. Dovevo fare in modo che Natasha sapesse il meno possibile per non lasciare che impazzisse. Il suo gesto

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