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Il fuggitivo: Oscar Levy, nicciano e "antisemita"
Il fuggitivo: Oscar Levy, nicciano e "antisemita"
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Ebook272 pages3 hours

Il fuggitivo: Oscar Levy, nicciano e "antisemita"

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L'unico vero interprete del pensiero politico e religioso di Friedrich Nietzsche nel primo Novecento è uno sconosciuto medico ebreo tedesco, responsabile della prima edizione inglese delle opere del filosofo tedesco. Quest'antologia raccoglie gli scritti sparsi di Oscar Levy (1867-1946).
LanguageItaliano
PublisherFree Ebrei
Release dateApr 23, 2021
ISBN9798736062638
Il fuggitivo: Oscar Levy, nicciano e "antisemita"

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    Il fuggitivo - Oscar Levy

    antisemita

    Premessa

    E qualunque sia il male che possono fare i cattivi:

    il male dei buoni è il più nocivo di tutti!

    (Così parlò Zarathustra, Delle Antiche e delle Nuove Tavole, 26)

    Presentiamo al pubblico italiano un’antologia della produzione saggistica di Oscar Levy (1867-1946). Medico tedesco di origine ebraica, Levy è noto soprattutto quale curatore della prima edizione completa in lingua inglese delle opere di Friedrich Nietzsche. Di Levy è uscita l’anno scorso la lettera aperta ad Adolf Hitler (Bellinzona, Casagrande).

    Quest’antologia contiene estratti da alcuni suoi saggi organici (come Il Secolo XIX e L’idiozia dell’idealismo), nonché alcuni componenti poetici (tratti dalla raccolta Dall’esilio) e, soprattutto, introduzioni e commenti a opere di altri autori. Oltre a Nietzsche ricordiamo Gobineau, Heine e Disraeli.

    Levy è un autore dimenticato dai libri di storia per via del suo dialogo con gli antisemiti (quegli autori oggi condannati dalla storia ufficiale). Un lettore attento e privo di pregiudizi avrà modo di capirne le ragioni analizzando le sue tesi e quelle dei interlocutori.

    Torino, aprile 2021

    Antologia

    Il Secolo XIX (1904)

    Il titolo di questo saggio tradisce la missione pubblicistica e culturale di Oscar Levy: estirpare il «mito ebraico». Das neunzehnte Jahrhundert (Il Secolo XIX), tradotto e pubblicato in italiano a Venezia da Rosen nel 1906 (col titolo Il Rinascimento dell’aristocrazia), è un saggio di storia morale dell’Europa contemporanea, che riecheggia il tomo di Houston Stewart Chamberlain sui «fondamenti» apparso alcuni anni prima. Levy enuncia il suo auspicio fondamentale: formare una nuova aristocrazia dello spirito (e del sangue) che salvi il continente europeo dal suo inarrestabile declino.

    Niente popolo «eletto«» (o «maledetto»), semmai singoli «eletti» (e spiriti «affini»). Il «male» del XIX secolo è consistito nella progressiva secolarizzazione della morale giudaico-cristiana (dalla Riforma protestante alla Rivoluzione francese), che ha prodotto il livellamento delle eccellenze, il dominio della mediocrità: etica puritana, democrazia e nazionalismo sono tre facce della stessa medaglia. I nemici della «reazione servile» sono gli individui «cosmici» come Napoleone (che cercò di unificare l’Europa e di vivificare l’aristocrazia con la sua politica dell’amalgama) e i suoi eredi spirituali: Goethe, Stendhal, e, soprattutto, Nietzsche, profeta della nuova religione individualista. Questi personaggi sono stati gli unici autentici «uomini», stelle pagane in mezzo all’oscurità giudaico-cristiana: hanno tentato di dar vita a un progetto estetico innovativo e qualitativo in mezzo all’ossessione (quantitativa) per il «numero».

    Ma che cos’è questo razza dei «migliori»? Levy lo spiega piuttosto bene nel corso del libro, ma è utile cercare di comprendere come la sua posizione si differenzi da quella di Chamberlain. Il mito della superiorità ariana è fallace non tanto perché si tratta di un «mito», cioè di una narrazione identitaria, ma perché è una scopiazzatura tedesca del «mito» ebraico dell’elezione. Levy è un medico e, come tale, cerca di scoprire i segni della malattia contemporanea anche attraverso i sintomi del suo paziente. I presagi sono l’emersione di ideologie politiche apparentemente diverse e tuttavia strutturalmente concordi: la grandezza è mortificata dalla mediocrità.

    Il tentativo germanico di narrare la superiorità di una razza è storicamente infondato per due motivi: innanzitutto, la superiorità è una qualità di singoli individui e non di gruppi, clan, etnie, ecc.; in secondo luogo, le tracce della storia passata ci dicono che i germani, ben lungi dall’essere un popolo creativo e innovativo, sono stati spesso volenterosi epigoni delle altre grandi civiltà. E per un motivo molto semplice: hanno sempre mortificato la grandezza individuale (salvo alcuni casi sporadici).

    Il capitolo 8 (che qui riportiamo) è dedicato agli ebrei e alla loro «superiorità». Pur accusandoli di essere alla base della degradazione morale dell’Occidente, Levy li ritiene gli unici individui capaci di porre rimedio ai loro errori. Errori che sono stati la logica conseguenza della cattività babilonese. Levy è «antirabbinico» (o anticlericale), perché ritiene che l’identità ebraica sacerdotale, pur storicamente comprensibile (la depressione genera riflessione), abbia castrato e svirilizzato gli ebrei. È «antisemita» nella misura in cui ritiene che il finanziarizzazione dell’economia non porti alla salvaguardia dell’aristocrazia (cioè dei migliori), ma all’emersione della plutocrazia e dell’oclocrazia (cioè dei più furbi).

    Levy non è figlio della logica aristotelica (e gnostica) del terzo escluso: il mondo ha bisogno dei «forti» come dei «deboli», presi singolarmente. Non ci sono popoli buoni o cattivi, belli o brutti, veri o mendaci. Esistono singoli individui capaci di elevarsi oltre le nebbie, che vanno sostenuti di fronte al livellamento generale della democrazia «cristiana». Analoghe espressioni le ritroviamo nell’autobiografia di Hitler, dove, tuttavia, la salvaguardia dell’individualità è funzionale alla salvezza del popolo tedesco. Quindi, la vera e sostanziale differenza tra le diagnosi di questi due «medici» è che l’uno resta coerentemente anarchico e libertario, l’altro piega la libertà al volere della nazione e della guida messianica. Adolf (Ben Yosef) non è altro che un ulteriore epigono distruttivo della morale ebraico-cristiana.

    Capitolo 8. Gli ebrei¹

    Come ha potuto questo popolo disprezzato da tutte le nature superiori del mondo antico, questa razza descritta già da persiani, medi e assiri come «despectissima pars servientium» – come hanno potuto questi orientali superstiziosi, indicati da Cicerone come «schiavi innati», queste talpe beffarde, fotofobiche, fanatiche, che hanno indebolito Roma dalle loro catacombe – ebbene come hanno potuto gli ebrei porsi dalla parte di Nietzsche? Com’è potuto succedere che quella combriccola da cui sorse il cristianesimo, di cui Cristo stesso fece parte – applaudire all’Anticristo in carne e ossa? Com’è possibile che coloro che annerirono il bianco, che falsificarono tutte le parole antiche, che bollarono come follia ogni forma di saggezza, sostengano il saggio che lanciò le peggiori accuse al loro popolo, che bollò il salvatore come avvelenatore del globo e il suo Vangelo come Disangelo? Come hanno potuto gli ebrei porsi dalla parte di chi bollò la loro grande opera come una macchia, come la peggiore onta su tutta l’umanità?

    Il motivo è semplice: gli ebrei di oggi non sono più gli ebrei di ieri – i convertiti sono gli autentici ebrei, ebrei all’ennesima potenza: i cristiani. La storia dell’ebraismo è quella di un popolo esauritosi (nel cristianesimo) – ma che così ottenne da madre natura la peggiore delle punizioni: con un gelido spruzzo d’acqua subì le sofferenze più terribili. Ma la storia del popolo ebraico è anche quella dell’assassino della saga medievale, rievocativa dell’antico crimine, che la coscienza, e non solo lei (anche l’esperienza) tormenta costantemente; un popolo nauseato dal pensiero: «Ho fatto bene? È stata così brutta quella bella morte? I miei figli non sono più brutti dei loro?... Perché ho distrutto Roma?» L’ebreo vaga inquieto per il mondo – deriso, disprezzato, perseguitato, ridicolizzato, scacciato. Ma di questo se ne preoccupava poco. Egli disprezzava la sua carne e il suo sangue: gli ebrei non di razza, ma, quel che è peggio, di spirito… Se solo non l’avessero ucciso! Quale pericolosa intossicazione della grande pagana, di quella pagana che la pensava diversamente sul bene e sul male! Aveva ragione Roma? Sarebbe terribile sacrificare qualcuno al suo odio, un signor nessuno, deprecabile, e indifferente – potremmo dimenticarcelo – ma che dire di uno, del più grande, del più nobile di tutto noi – di colui che forse conosceva il bene e il male! E quando i cristiani intorno a lui urlavano con pietre, escrementi, pugni chiusi e occhi pieni d’odio – l’ebreo reagì con la sua conoscenza, con la sua religione, con la sua trasvalutazione, con la sua cultura, col suo «bene». Si era forse sbagliato? Un Dio doveva averlo accecato? Una temibile follia ne ha obnubilato la mente da migliaia di anni? Perché insultava e sputava sul padre di questa follia, sul diffusore di questa pestilenza, sul nemico mortale di qualunque autentico bene? Perché il capo di ogni canaglia lo perseguitava, lo diffamava e gli sputava addosso? Fiaccato dal dubbio e dalla rabbia, l’ebreo errante discende la sua strada solitaria lontano da tutti i popoli, lungo un pendio, la sua mente turbata riposa sul sostegno della mano e il suo capo, maestoso e sfortunato come quello del Geremia di Michelangelo, rimugina: «Che cos’è il bene? Che cos’è il male?»

    Queste furono le domande che impegnarono tutte le migliori menti ebraiche durante la notte del cristianesimo – ma tutte le altre risposero sempre in senso cristiano. Ma non erano mai state ridestate come quelle degli ebrei: nessun pericolo, quel padre severo che educa il grande guerriero e il grande pensatore, li aveva minacciati. Non erano benedetti dalla persecuzione che aveva martellato così duramente gli ebrei. I cristiani mancavano delle sofferenze dei loro antenati, da cui trarre beneficio. Nessuna inondazione si rovesciò su di loro per prepararli, come gli abitanti della laguna veneziana, a dominare il mondo. Nessuno aveva aspramente proibito loro di «contare bene, perché se speculi male è la fine». Non avevano imparato la lezione della punizione, della schiena livida e dalle ferite lancinanti che l’ebreo aveva provato dopo aver diffuso il delirio cristiano dell’amore. Così è accaduto che, persino nel Medioevo, le grandi questioni furono affrontate più umanamente dai pensatori ebrei, più occidentalmente e paganamente rispetto ai discendenti dei greci e dei romani, e che i filosofi ebrei trovarono la salvifica via ellenica grazie alla lingua araba, mentre gli ariani vagavano disperatamente nel giardino incantato orientale. Nietzsche aveva già riconosciuto questo tratto pagano nei filosofi ebrei.

    Questo valeva naturalmente per i filosofi ebrei, per gli ebrei che erano tali, per gli ebrei che vivevano ancora nello spirito veterotestamentario – non certo per quella nullità informe che il Secolo XIX designava come razza ebraica. Cosa intendeva per «popolo»? Il senso di una nazione dovrebbe essere quello antico: popolo meno schiavi. Non commercianti e coltivatori, economisti e chirurgi, archeologi e parlamentari. Parliamo di uomini liberi. Ma il Secolo XIX non conosceva questa differenza: l’epoca della democrazia universale identificava popolo e razza, senza preoccuparsi che un albero, per quanto importanti siano le sue radici, si riconosce solo dai suoi frutti. In media, gli ebrei, come popolo, sono sempre stati molto mediocri. Nietzsche, invero, ci vedeva molto di glorioso; pensava che il consensus populorum avesse sempre torto. Affermò che gli ebrei furono perseguitati per via delle loro virtù «viziose». Osservò che fosse una benedizione incontrare un ebreo tra i tedeschi. Forse concordava con Goethe:

    Non posso discuterne,

    che il diavolo mi rimpicciolisca:

    un uomo odiato da tutti,

    quello voglio essere!

    Ma oggi non possiamo evitare l’irresistibile impressione che l’advocatus diaboli fosse troppo generoso e che le virtù ebraiche fossero comuni; che tra la plebe ebraica e quella cristiana esistessero solo differenze esteriori e che, tra il popolo eletto, pochi fossero abbastanza «eletti» da speculare sul bene e sul male.

    La maggior parte di loro speculò su altre monete, il cui bene e male è assai più semplice. L’aspirazione della razza ebraica non si rivolse verso la filosofia, né verso la religione, ma verso il denaro. Mammona divenne il loro secondo Dio, già introdotto nel Medioevo, quando alcuni miscredenti si opposero violentemente al loro primo Dio. La seconda conversione ebraica avvenne in modo più rapido e scrupoloso rispetto alla prima: la sua influenza riuscì a debellare ogni ateo. Nel Secolo XIX tutti credevano – a Mammona. Tutti mercanteggiavano. Lo Stato era diventato una sorta di società commerciale: lo smercio di prodotti, il reperimento di mercati stranieri era la sua occupazione principale; i diplomatici erano gli agenti stranieri del commercio. Raramente gli Stati si affrontavano sul campo, preferivano mercanteggiare – e quando si affrontavano a viso aperto, il vincitore era troppo debole per sfruttare la sua vittoria – e si ricorreva a una pace mercanteggiata. Si mercanteggiava con le nazioni straniere nei palazzi ministeriali, si mercanteggiava con il proprio popolo nei parlamenti. Gli ebrei avrebbero potuto inorgoglirsi del successo della loro attività missionaria; ma l’orgoglio della loro vittoria durò poco: il mondo ingrato rivolse rari applausi ai suoi benefattori. Preferiva onorare gli dèi ebraici, ma non gli ebrei. Ma coloro che erano esteriormente oppressi avrebbero salutato ogni segno d’intelligenza fra di loro? Al contrario: gli ebrei, come gli altri popoli, non solo non sostennero i loro grandi uomini, ma li contrastarono con inimicizia. Matrimonio, patrimonio, famiglia, quiete, soddisfazione, tranquillità erano i desideri di tutti i popoli, ebrei inclusi.

    Anche la persecuzione non arrecò alcun vantaggio agli ebrei del Secolo XIX. I loro avversari, animati da profondo spirito cristiano e da un commovente amore per il nemico, fecero del loro meglio per favorire la grandezza di un popolo straniero: perché la loro persecuzione non fu né così severa da paralizzarlo, né così leggera da non irritarlo. Ma fu tutto vano. Gli speroni antisemiti più infuriati non poterono galoppare liberamente sul cavallo zoppo degli ebrei. Gli ebrei trottavano più allegramente per il mondo rispetto agli altri popoli – ma il loro odio e la loro bile si sfogarono solo nell’usura e nell’estorsione. I nobili ebrei, i veri figli di Yahwé, gli Shylock che disdegnavano l’oro e chiedevano la rivincita, furono sempre e solo le eccezioni. Il popolo ebraico non fu migliore degli altri ed ebbe di gran lunga più motivi e opportunità per esserlo. Sino all’inizio del Secolo XX si trovò in una posizione privilegiata: gli era quasi ovunque precluso l’impiego statale ed era tuttavia tollerato. Precedentemente – in Spagna – era stato non solo escluso, ma pure bandito: poi gli Stati moderni furono troppo deboli per farlo. Lo Stato del Secolo XIX era così informe da essere tollerante e troppo tollerante per scacciarli. Così gli ebrei vissero in relativa quiete, senza provare i dolori della tortura statale. Marciarono leggeri, mentre i membri delle altre religioni dovevano trascinare le loro pietre negli zaini. Pagavano le tasse, come gli armeni in Turchia. I quali non erano esclusi come gli ebrei dal servizio militare, ma erano esonerati dall’amministrazione statale. Avrebbero dovuto esserne grati? Certo, alcune individualità avrebbero potuto emergere in quell’epoca informe tra i più derelitti dei derelitti che dovevano trascinarsi dietro le catene dell’amministrazione statale. Ma quanto fosse infinitamente cieco l’ideale popolare del Secolo XIX lo dimostrò il caso ebraico: gli ebrei aspirarono e si spinsero verso l’amministrazione statale. Sacrificarono a questo Moloch i loro figli nelle scuole e nelle università – avrebbero sacrificato anche i loro genitori. Furono accusati – a torto – di essere presuntosi: erano così umili da voler diventare funzionari governativi!

    Allora il loro incessante clamore era: tolleranza. «Siate cristiani, miti e tolleranti», chiedevano ai popoli tra cui vivevano. Se tra gli ebrei qualcuno osava dire che i governi avrebbero fatto bene a sbarazzarsi degli ebrei, i correligionari lo avrebbero accusato di essere un mostro. Se questa mostruosità fosse proseguita con la tesi che la tolleranza sorta dal disinteresse era un insulto (come quella dei romani verso gli ebrei), che l’odio era comunque preferibile al disprezzo, avrebbero fissato quel tizio con sguardo sperso, gli avrebbero citato Machiavelli e avrebbero soffiato volentieri il sacro corno di cervo, lo schofar, per scacciare via dalla comunità di Israele «l’indegno fratello che insozza il suo nido». Ma il suo istinto si era indebolito nel Secolo XIX, così come quello dei suoi avversari – e il rabbino nella sinagoga, sotto il rumore della tromba, non annunciava più davanti alla Sacra Arca aperta il terribile bando già emesso in passato contro il loro più grande pensatore:

    «Secondo la decisione degli angeli e del giudizio dei Santi, bandiamo, scomunichiamo, malediciamo e cacciamo Baruch de Espinoza […] Sia maledetto nel giorno, sia maledetto nella notte, sia maledetto quando si posa, sia maledetto quando si leva, sia maledetto se esce, sia maledetto se entra […] A voi che siete fedeli al Signore, al vostro Iddio, che siate oggi benedetti, ordiniamo che nessuno abbia rapporti orali o scritti con lui, che nessuno lo

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