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L'enigma delle due chiese
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L'enigma delle due chiese

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Torino, 1958. Tormentato da sogni ricorrenti in cui una giovane donna sembra volergli svelare qualcosa, Vittorio sa che soltanto un luogo potrà alleviare il suo tormento: la chiesa di Santa Giulia. Tuttavia, l’incontro con il parroco è soltanto l’inizio di un lungo cammino alla scoperta di qualcosa che mai avrebbe pensato potesse succedere. E mentre i sogni si fanno più pressanti e l’attrazione verso la sconosciuta sempre più forte, Vittorio prende una decisione che cambierà per sempre la sua vita.
Istanbul, 1958. Quando una lettera della bisnonna paterna capita tra le mani di Sabiha, la giovane si sente immediatamente attratta da quelle parole e dallo spirito ribelle di Dilek, che come lei vuole liberarsi dalle catene imposte dall’alta società di cui la famiglia fa parte. E quando sua madre, Elena, le impone di sposare l’aitante Murat, Sabiha capisce che deve fare qualcosa per affrancarsi e vivere davvero la vita che vuole. Ma niente è facile come sembra, e la giovane lo capirà ben presto.
Ambientato tra l’Italia del dopoguerra e la Turchia, “L’enigma della due chiese” è una storia romantica dalle tinte pastello, ma anche un mystery che condurrà i protagonisti alla ricerca delle loro vere origini. Il passato può ritornare, basta desiderarlo.
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateApr 20, 2021
ISBN9788833668611
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    L'enigma delle due chiese - Maddalena Tiblissi

    Maddalena Tiblissi

    L'enigma delle due chiese

    Pubblicato da © Pubme – Collana Policromia

    Tutti i diritti riservati

    Foto di copertina: noyan-ekin-COF_RYytg/unsplash

    ISBN:

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da considerarsi puramente casuale.

    Questo libro contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, trasferito, riprodotto, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’autore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941).

    UUID: a1f633b0-9714-4692-a341-14e0622280a6

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Torino-Istanbul, 1958

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    XXVII

    Seconda Parte

    Istanbul

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    Terza Parte

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    Epilogo

    Ai miei amici di Torino e Istanbul

    Nei sogni comincia la responsabilità

    (William Butler Yeats)

    Torino-Istanbul, 1958

    I

    Erano circa le sette del mattino e una Giulietta Alfa Romeo nera attraversava le strade di Borgo Po a Torino. Nonostante fosse luglio inoltrato, a quell’ora c’era una leggera e piacevole brezza e la macchina scendeva lenta per le vie dell’elegante quartiere. Il ragazzo che la guidava aveva aperto la capote per godersi il fresco e l’aria gli scompigliava i mossi capelli neri. Vestito con un completo scuro sul quale spiccava la camicia bianca, aveva allentato il nodo della cravatta, cosa che dava un aspetto meno severo e più confacente alla sua giovane età.

    Con un rombo potente, la vettura attraversò il ponte del Valentino e prese un ritmo costante che gli permise di ammirare il paesaggio illuminato dalla luce mattutina: i bagliori azzurrini si riflettevano, insieme alla sagoma maestosa degli alberi, sull’acqua del fiume e in lontananza si stagliava il profilo del Monte dei Cappuccini. Era, questo, un paesaggio che lo commuoveva per la bellezza che sprigionava e gli faceva ricordare gli studi sulle visioni urbane all’università. Nonostante ciò, il suo bel viso, dai caratteri mediterranei, non aveva l’espressione serena che si sarebbe potuta immaginare nel vederlo da lontano ma era assorta, e i suoi occhi sembravano cercare qualcosa che non si trovava nel panorama intorno a lui, quanto piuttosto nella sua mente. Era qualcosa che lo estraniava da quel contesto e l’aveva spinto a mettersi in macchina a quell’ora insolita.

    I suoi sogni ricorrenti erano cominciati qualche mese prima e da allora non gli avevano più dato tregua. All’inizio aveva pensato che fossero una rielaborazione del suo stato d’animo tormentato da un’ansia continua per il lavoro: dal momento in cui si era laureato in Architettura il suo desiderio più grande era stato correre verso una strada costellata di successi, rubando alle stelle il fulgore che intravedeva per lui. Per realizzarlo aveva provato a lavorare a turno in alcuni studi e ogni volta si era licenziato perché non vedeva la possibilità di emergere, solo quella di uniformarsi a una certa idea di lavoro comune in quegli anni del dopoguerra.

    «Figlio mio, se continui così ti ritroverai senza occupazione» gli ripeteva sua madre.

    «Resta in uno studio e prova per un anno almeno» gli consigliava il suo più caro amico, Carlo.

    «Vittorio… non è possibile che tu abbia cambiato ancora! Come faremo a sposarci?» lo rimproverava invece Raffaella, la sua fidanzata.

    Nessuno lo capiva. E nessuno capiva che all’università aveva avuto una formazione precisa, secondo la quale si doveva trattare ogni nuovo edificio come unico e irripetibile, non come parte di un programma della città, come lo consideravano in modo desueto gli architetti degli studi in cui aveva lavorato. Inoltre l’espressione fare la gavetta a lui non piaceva e non avrebbe mai accettato di farla, né ora né mai. Nella sua mente campeggiava solo un esempio architettonico da seguire: il progetto di Ignazio Gardella della Casa Cicogna alle Zattere a Venezia, perfetto modello di edificio unico ma dotato allo stesso tempo di dialettica con il tessuto storico preesistente. Un edificio prezioso che conferiva lustro alla città e dava agli abitanti la possibilità di non rinunciare alle prerogative della modernità. Oltre a questo, si univa in lui anche l’eccitazione della ribellione allo status quo del modo di pensare borghese, che non aveva mai sopportato benché venisse da una famiglia di quel tipo.

    Per fortuna il suo costante impegno era stato premiato: da pochi mesi aveva trovato lavoro in uno studio dalle idee innovative e vicine alla sua formazione. L’architetto capo, per mostrargli la sua fiducia, gli aveva subito affidato il progetto di una chiesa e lui ne era stato felicissimo. Era senz’altro un bell’inizio, ma non bastava.

    Vittorio sentì il bisogno di fermarsi a prendere un caffè e parcheggiò. Subito uno stuolo di ragazzini si fermò a guardare la sua macchina e lui sorrise di soddisfazione. Non si vedevano molte Alfa Romeo per le strade, solo utilitarie. Lui però l’aveva voluta con tutto se stesso e infine, con l’aiuto dei genitori, era riuscito a comprarla.

    In piazza Vittorio Veneto entrò in un bar e ordinò un caffè e un croissant al cioccolato velato da una glassa bianca, che lo riconciliò con se stesso. Seduto nel dehors, guardò la città che si stava risvegliando alla vita. L’atmosfera che si respirava, dopo nemmeno dieci anni dalla fine della guerra, era di una certa semplicità, di dignitosa laboriosità e riservatezza. In una parola: intimità, quell’intimità che tanto gli piaceva.

    Si rimise in macchina e, mentre si avvicinava a Vanchiglia, di nuovo si domandò cosa volesse comunicargli il suo inconscio con quei sogni ricorrenti e simbolici. Una cosa era certa: non ci aveva capito niente e non intendeva nemmeno capirci qualcosa da solo, per questo aveva deciso di chiedere un aiuto.

    Una volta arrivato, con una frenata mirabile parcheggiò e scese. A passo svelto si diresse verso il luogo che aveva visto nel suo ultimo sogno: la chiesa di Santa Giulia.

    II

    A Istanbul, quella stessa mattina e più o meno alla stessa ora, un bel sole dorato si rifletteva sulle placide acque blu del Bosforo, mentre la sagoma delle moschee imperiali e dei numerosi minareti si stagliava nell’aria tersa a definire il profilo della città. Sdraiata su sette colli a guardare sia l’occidente sia l’oriente, da millenni Istanbul si era fregiata del titolo di capitale dell’Impero Romano, di quello Bizantino e infine Ottomano. Un mondo al confine tra una cultura e un’altra, nel quale ci si poteva sentire protagonisti della storia, moltiplicando i personaggi e raffinando gli accorgimenti della narrazione di epoche diverse.

    In quest’atmosfera da sogno e un po’ irreale una ragazza, vestita con un elegante abito verde salvia, un cappellino sullo stesso tono di colore e scarpe bianche, saliva su una Rolls-Royce nera, guidata da un autista in livrea. La ragazza, che portava lo stesso nome della figlia di Atatürk, Sabiha, si accomodò sul sedile posteriore. A mano amano che la macchina si muoveva, diretta a İstiklal Caddesi, si rigirava tra le mani una vecchia lettera ingiallita.

    Nel momento in cui attraversarono il ponte di Galata, Sabiha la infilò nella sua elegante borsetta e guardò fuori dal finestrino: a destra vide le barche ormeggiate e alla sua sinistra le persone che oltrepassavano il ponte a piedi, tutte vestite con abiti occidentali.

    Da quando nel 1923 era nata la Repubblica di Turchia, l’allora capo di stato Mustafa Kemal, chiamato da tutti Atatürk, aveva varato una serie di riforme che avevano permesso di fare un salto di qualità alle donne turche, tanto che alcune erano già in Parlamento. Aveva inoltre promulgato il divieto di vestire all’ottomana e di portare il velo, di esercitare la poligamia, aveva assicurato l’assunzione delle donne nei posti di lavoro più svariati e il dovere dell’iscrizione, per tutte le bambine, alla scuola dell’obbligo. Più che un’innovazione era stata una vera e propria rivoluzione dei costumi e delle tradizioni, che aveva permesso a Sabiha, fin da piccola, la libertà di studiare e vestirsi con abiti alla moda francesi e italiani, che le conferivano un certo charme. Nel suo armadio c’era una lunga fila di abiti e tailleur, tutti visti sui giornali di moda parigina che sfogliava insieme a sua mamma, veneziana di nascita e perciò dotata di buon gusto innato e di amore per la bellezza e l’eleganza. Senza dubbio era stato un gran salto passare dai costumi ottomani a quelli occidentali, che permettevano alle donne di indossare vestiti appena sotto il ginocchio, vezzosi cappellini e guanti di seta. La fotografia di famiglia, in cui posava insieme a suo padre, sua madre e i suoi fratelli Selim e Beyazıt, scattata un mese prima da un fotografo professionista, sarebbe rimasta per le generazioni future una pietra miliare di quell’enorme e incisivo cambiamento.

    Certo, pensò Sabiha, la mia nonna paterna non ha mai avuto la fortuna di sfoggiare questo tipo di eleganza, benché appartenesse a una classe sociale molto agiata.

    Con quest’ultimo pensiero si accorse che erano arrivati al centro di İstiklal Caddesi, la strada più affollata del moderno quartiere di Beyoğlu.

    Non appena si trovarono di fronte alla basilica di Sant’Antonio di Padova, una delle più importanti chiese cattoliche di Istanbul, ordinò all’autista di fermarsi e scese in fretta dalla macchina. Oltrepassò il cancello, entrò nel grande cortile e si diresse verso un cancelletto laterale che portava, tramite un vialetto, all’edificio annesso, chiamato in turco St. Antoine Apartmanları, cioè la sacrestia e gli appartamenti del sacerdote.

    Suonò il campanello e, nell’attesa che le aprissero, osservò la facciata della chiesa in stile neogotico veneziano che si ergeva di fronte a lei. Fu mentre era intenta a guardare i grandi rosoni merlettati che si sentì chiamare. Si voltò. Con dei cenni della mano, don Armando le diceva di entrare. Le venne allora in mente la scena che più e più volte aveva immaginato nel leggere quella lettera ingiallita, scoperta per caso nel carteggio di famiglia. Era stata scritta da Dilek, la sua bisnonna paterna, ed era datata 1858. Giusto cento anni prima. In quelle poche righe Dilek confessava a sua madre di essersi sposata di nascosto ed essere partita per vivere in Italia. Le chiedeva infine perdono per quello che aveva fatto e le diceva che le voleva molto bene.

    In quel secolo ha davvero avuto una buona dose di coraggio per fare una cosa del genere. Una dose che solo l’amore può dare, si disse Sabiha andando incontro a don Armando.

    III

    Fermo davanti alla chiesa di Santa Giulia, Vittorio guardò con attenzione la facciata e si disse che all’interno doveva esservi celato di sicuro qualche segreto, visti i sogni che aveva fatto fino ad allora. Certo, altre chiese in Piemonte dovevano racchiudere dei misteri, ricche com’erano di simboli esoterici scolpiti in bassorilievi o addirittura sulle facciate: tartarughe, salamandre, rane e cavalli alati. Tutti avevano dei significati profondi che affondavano le radici in tempi remoti e stimolavano i sensi e la curiosità non solo dei fedeli, ma di qualunque persona. Ciascuno di quei simboli era però un elemento di comunicazione con questa realtà, non con quella onirica come la sua. Perciò la chiesa che aveva davanti doveva contenere un mistero in più, e lui era ben deciso a scoprirlo.

    Si concesse ancora qualche secondo per osservare la facciata rosso ocra in stile neogotico francese, le quattro statue di marmo e i tre rosoni, in particolare quello centrale con la scritta Absit gloriari nisi in cruce Domini Nostri Jesu Christi. Rispolverando le sue memorie di latino, la tradusse mentalmente: Di null’altro mi glorierò, se non della croce di Nostro Signore Gesù Cristo... e considerò che era un vero e proprio messaggio di umiltà e sottomissione.

    Davanti all’ingresso della chiesa trasse un profondo respiro, spinse la porta del vestibolo ed entrò. All’interno c’era un bel fresco, l’atmosfera era di pace e tranquillità. Si fece il segno della croce e si guardò intorno: tutto era proprio come nel suo ultimo sogno. Sia la luce, che filtrava dalle altissime vetrate policrome creando un’atmosfera mistica e serena, sia l’incantevole soffitto blu stellato. A passi lenti si incamminò lungo una delle navate laterali e non appena vide una donna alzarsi da un confessionale si avvicinò e si sedette al suo posto.

    «Padre» mormorò «non sono venuto qui per confessarmi, bensì per un altro motivo.»

    Il sacerdote rimase sorpreso. «Il Signore sia con te, figliolo. Dimmi pure.»

    «E con il tuo spirito» disse Vittorio. «Sono venuto in questa chiesa per la prima volta e…»

    Il sacerdote lo interruppe: «Non sei di Torino?»

    «Sì, ma non ero mai entrato qui. Mi ha spinto a venire un motivo preciso.»

    «Quale sarebbe?»

    «Sono stati i miei sogni ricorrenti a portarmi qua.»

    «Raccontami quello che hai sognato, figliolo, così capiremo meglio.»

    «Ecco, è sempre la medesima trama: l’incontro con la stessa giovane donna, il mio imbarazzo, le forti emozioni che ogni volta mi travolgono e, nell’ultimo, la passeggiata fino ad arrivare qui, in questa chiesa.»

    «Andiamo con ordine. Ti ricordi il primo sogno?»

    «E chi se lo dimentica? Mi apparve una figura luminosa e mi fece segno di seguirla. Subito dopo scomparve nel nulla insieme al sogno. Dal secondo in poi questa donna, che mi emoziona sempre per la dolcezza e l’amore che sprigiona, mi ha portato sempre più avanti. Nell’ultimo, come le ho appena detto, siamo arrivati in Vanchiglia, davanti a questa chiesa. Mentre camminavamo vedevo per strada delle persone che morivano colpite da una malattia che mi è sembrata peste o forse colera.»

    Il sacerdote assunse uno sguardo perplesso, che Vittorio non poté vedere. «Continua pure, ragazzo.»

    «Quando siamo entrati in questa chiesa mi sono sentito felice, come se la conoscessi bene, poi il sogno è finito. Per questo ho deciso di venire a parlare con lei. Cosa vorrà dire tutto questo, Padre?»

    «Fammi pensare. Com’è questa figura luminosa, sapresti descrivermela?»

    «È evanescente, direi... lunare, lunghi capelli biondi. Il volto ha un’espressione dolce e gli occhi sono chiari e luminosi. Indossa un abito bianco tutto trine e merletti, molto bello e raffinato, come quelli che si possono vedere nei ritratti dei nobili, per intenderci.»

    «Capisco. Sapresti indicarmi all’incirca di che epoca potrebbe trattarsi?»

    «Direi senz’altro Ottocento, da come è vaporoso e ricco di merletti il suo abito.»

    Il sacerdote fece un sorriso soddisfatto. «Credo di aver capito chi è questa giovane donna.»

    IV

    Sabiha seguì in sacrestia don Armando, chiedendosi se avesse fatto bene o no: per recarsi lì aveva mentito ai genitori dicendo loro che sarebbe andata a studiare da sua cugina. Un’innocente bugia scaturita dal timore che mai le avrebbero concesso il permesso di andare a rovistare in uno scandalo di famiglia. Ma lei era curiosa e voleva saperne di più. Perché altrimenti quella lettera sarebbe capitata proprio tra le sue mani?

    Per fortuna suo fratello Selim aveva deciso di aiutarla e si era preoccupato di avvisare la cugina. In cambio aveva preteso un favore da lei: non avrebbe dovuto rivelare ai genitori che non aveva superato l’esame di matematica all’università. Sebbene a malincuore, Sabiha aveva dovuto accettare. Ora, per scacciare i sensi di colpa che la stavano assalendo per quella doppia menzogna, cercò di giustificarsi con se stessa: non stava andando a un appuntamento segreto con un ragazzo, ma da don Armando per una giusta causa: voleva togliersi ogni dubbio sull’autenticità della lettera — quando l’aveva letta le era sembrata tanto bella da sembrare irreale — e voleva sapere dove si era sposata la sua bisnonna. Quello scandalo successo in un’epoca così lontana la intrigava moltissimo. Insomma, era stato un po’ come scoprire una macchina del tempo che riusciva a metterla in comunicazione col passato. Ancora meglio, come se fosse arrivato un calesse e le avesse dato la possibilità di fare un fantastico viaggio in quel secolo così intriso di romanticismo: paesaggi sconosciuti e strade percorse solo da carrozze, libri che contenevano romanzi impregnati di amori drammatici, capolavori pittorici pervasi da visioni oniriche e paesaggi tenebrosi, come il suo quadro preferito: Il viandante sul mare di nebbia.

    Il vocione di don Armando la fece sobbalzare e tornare di botto al presente. «Qual buon vento ti porta da me a quest’ora del mattino, cara Sabiha?»

    «Sono venuta a chiederle un favore.»

    «Dimmi pure, cara. Ti conosco fin da bambina e non ho problemi a venirti incontro.» Con lo sguardo perso in ricordi lontani, il sacerdote continuò: «Rammento ancora la tua prima comunione… Ah, che bellezza! Tua madre aveva preparato una bellissima festa con tanti dolci!»

    Sabiha si mise le mani sulle tempie, come se d’improvviso le fosse venuto un gran mal di testa. «Don Armando, mi scusi, non voglio interrompere i suoi ricordi, ma ho una certa urgenza. Mi aspettano a casa e non posso attardarmi.»

    «Ma certo, mia cara, perdonami se mi sono dilungato. In che cosa posso esserti utile?»

    Facendo uno sforzo per riprendersi da quella fastidiosa sensazione, Sabiha mormorò: «Potrebbe controllare per favore i registri di matrimonio della fine del secolo scorso? Vorrei sapere se la mia bisnonna Dilek si sposò qui o altrove. Gliene sarei molto grata.»

    «Vedrò cosa posso fare. Per fortuna i registri si trovano qui perché questa è una basilica e li contiene tutti. Se hai un attimo di pazienza vado a vedere.»

    Sorpresa perché non si aspettava di risolvere la faccenda così presto, mentre don Armando spariva dietro una porta Sabiha si sedette sul divano e tirò fuori dalla borsetta un romanzo che portava sempre con sé. Non riuscì però a concentrarsi sulla lettura perché il pensiero di arrivare in ritardo a casa la preoccupava. Rimise a posto il libro, si alzò e cominciò ad andare avanti e indietro nella stanza. Guardò l’orologio e si rese conto che don Armando era già andato via da un quarto d’ora. Per controllare l’ansia decise di pensare a qualcosa che la tenesse occupata e non le facesse percepire il passare dei minuti. Cosa c’era di meglio che immaginarsi la scena descritta nella lettera?

    All’età di ventun anni Dilek era scappata da casa, era arrivata in chiesa e aveva visto il suo innamorato italiano che la stava aspettando con un mazzo di rose bianche in mano. Con un’emozione che le serrava la gola si era recata con lui davanti all’altare. Due persone che stavano pregando si erano messe a lato per fare da testimoni. In fretta e furia, il sacerdote aveva recitato la formula di rito.

    Tu, Giovanni Battista, vuoi prendere in moglie la qui presente Dilek?

    Sì, lo voglio.

    Tu, Dilek, vuoi prendere come tuo sposo il qui presente Giovanni Battista?

    Certo, lo voglio.

    Bene, vi dichiaro marito e moglie.

    «Ecco, Sabiha, ora possiamo controllare tutto quello che vuoi. In questo registro ci sono i matrimoni celebrati tra il 1834 e il 1860.»

    Don Armando la fece atterrare in modo brusco da quel mondo immaginario alla sua realtà. Sabiha lo guardò con gli occhi annebbiati e, presa da una vertigine, svenne davanti a lui.

    V

    Vittorio uscì dalla chiesa di Santa Giulia e si ritrovò immerso nel caldo di quelle ore mattutine. Rimase per un attimo a osservare le strade della sua città, ormai quasi deserte perché già tutti erano partiti per il mare o per la montagna. L’aria, impregnata di umidità, fece venir voglia di andarsene anche a lui, ma sapeva che non sarebbe stato possibile. Gli impegni di lavoro non glielo avrebbero permesso.

    Indeciso su cosa fare, guardò l’orologio e vide che era passata un’ora e mezza dal momento in cui era entrato in chiesa e ne era uscito. Come sempre quando era preso da qualcosa di interessante il tempo assumeva un’altra dimensione. Quella del suo mondo interiore.

    Si disse che prima di tornare a casa per pranzo avrebbe avuto tutto il tempo di andare a salutare Carlo con calma, visto che era domenica. Salì sulla sua Giulietta e partì canticchiando My funny Valentine. La canzone di Chet Baker ebbe il potere di trasportarlo in pochi attimi in un’altra dimensione: quella del jazz. Per lui non era soltanto una combinazione di note o un concetto musicale, bensì una rivoluzione prodigiosa, più suggestiva di un film. Dal

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