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Milano sconosciuta
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Milano sconosciuta

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Letteratura - articoli (70 pagine) - Puttane, “puttani”, accattoni, parassiti, sfruttatori, gente con la fedina panale lurida e clienti di tutte le estrazioni sociali popolano questi undici reportage giornalistici romanzati che incalzano il lettore, senza concedergli nemmeno un istante di pausa.


Valera sbatte in faccia al pubblico la versione peggiore della Milano di fine Ottocento (e inizio Novecento): nessuno si salva perché, una volta caduto il velo dell’ipocrisia, tutti restano nudi coi loro turpi difetti in bella mostra. Lo stile è sporco come i contenuti: nessun riguardo per il “bagasciume” che si dimena nella sconfinata cloaca cittadina. Folle di disperati alla ricerca del piacere o di un tozzo di pane incespicano nelle altrui immondizie morali creando una spirale di vizi che si autoalimenta all’infinito. Veleggiando tra denuncia sociale e sottile compiacimento estetico nel raccontare l’orrore senza emendare alcun particolare, l’autore snocciola aneddoti e drammi di una città che fagocita anime per poi risputarle contaminate e infette. Milano sconosciuta fu un clamoroso e durevole successo editoriale: basta leggere le prime due righe per capire il perché. Unica vera protagonista una Milano da odiare istintivamente e da desiderare nonostante tutto, un po’ come quella di oggi.


Paolo Valera (Como, 1850 – Milano, 1926), nato da una famiglia proletaria e fuggito di casa sedicenne per unirsi ai garibaldini, non condusse mai una vita “regolare” e forse per questo riuscì magistralmente a descrivere il volto oscuro della società borghese, soprattutto di Milano, sua città d’adozione verso la quale nutriva sentimenti contrastanti. Dopo una serie di umili impieghi, riuscì a imporsi come penna tagliente del giornalismo socialista ma, coinvolto in scandali e processi, dovette prendere la fuga e andare in esilio a Londra per dieci anni. Tornato in Italia, conobbe ugualmente il carcere e non si diede una calmata nemmeno dopo la reclusione. A seguito di una serie di opere veriste (ma non troppo) – tra le quali si segnala il romanzo La Folla (1901), ambientato in un degradato palazzone meneghino – e di numerosi trionfi e insuccessi editoriali, nel 1924 gli venne la balzana idea di scrivere una biografia di Mussolini, suo ex compagno socialista, che gli attirò antipatie sia da parte dei fascisti (il volume fu prontamente sequestrato a causa della rappresentazione sfacciatamente negativa del Duce) sia da parte dei suoi compagni di partito che decisero di escluderlo dal PSI senza tanti complimenti. Morto per attacco cardiaco, non fu dimenticato nel momento fatale: oltre 400 persone sfidarono il regime rendendo omaggio alle sue esequie.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateApr 20, 2021
ISBN9788825415834
Milano sconosciuta

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    Milano sconosciuta - Paolo Valera

    esequie.

    Introduzione

    Milena Contini

    Milano capitale del vizio tra belle époque e primo dopoguerra, ecco l’argomento di questa serie di scritti a cavallo tra reportage giornalistico e racconto. Non ci si illuda però di accarezzare soltanto tessuti preziosi nei boudoir più raffinati, di essere accecati dalle luci dei caffè concerto e di respirare esclusivamente il profumo delle mondane d’alto bordo, perché nelle pagine di Milano sconosciuta trova spazio soprattutto la faccia guasta, squallida e degenerata del piacere. Perdendo spesso di vista i fasti del centro cittadino, si viene catapultati nel decomposto ciarpame della periferia dove baldracche sdentate, invertiti (questo l’agghiacciante aggettivo sostantivato usato per designare gli omosessuali in tempi di dilagante omofobia), tenutarie, sfruttatori, accattoni pidocchiosi, parassiti, degenerati, malavitosi e clienti desiderosi di lerciarsi il corpo e l’anima navigano in fiumi di liquori a buon mercato, cercando di restare a galla aggrappandosi a cinismo e apatia oppure affogando sotto il peso della depravazione.

    Figure sgangherate e al contempo ricche di perverso fascino si trascinano barcollanti come zombi in un panorama spettrale e infetto. Nessuna pietà per il puttanume il cui alito puzza di stomaco alcolizzato e per la corte dei miracoli che gravita loro attorno: un’immensa discarica esistenziale si distende di fronte agli occhi del lettore, che non può fare a meno di tapparsi il naso e continuare a leggere ingordamente. Il tragico, com’è giusto che sia, si mescola di continuo con il comico (dalla risata amara) e così l'atroce movimento gambatorio fa delle donne venderecce quasi delle sportive del marciapiede che, prima o poi, concluderanno il loro gesto atletico nel sifilicomio. La varia umanità che si dimena nei luoghi del piacere somiglia a colonie di mosche guizzanti in pozzanghere inquinate e pisciatoi intasati oppure a batteri pulsanti in bubboni slabbrati. La metropoli meneghina si riduce così a una Babilonia graveolente e avvelenata in cui i peccati esplodono e sembrano contaminare ogni cosa.

    Di particolare impatto l’articolo-racconto La ricaduta in cui una prostituta accasatasi con un brav’uomo benestante abbandona il rassicurante e confortevole focolare domestico per tornare a fare la vita: c’era troppa gioia domestica nella casa maritale per la donna che aveva vissuto fra i frastuoni, che aveva bevuto tanto champagne di notte, fumate tante sigarette a tutte le ore in un casotto allora in auge. Il paradigma borghese viene quindi totalmente ribaltato: un buon matrimonio non è l’aspirazione ultima di ogni fanciulla, anzi si trasforma in una gabbia soffocante e tediosa che, per contrasto, fa risaltare il meretricio come un’alternativa certo più pericolosa e immorale, ma indubbiamente più eccitante. Leggendo queste pagine alla sottoscritta è scattato automaticamente un collegamento con il capolavoro La strada della vergogna (1956) del maestro Kenji Mizoguchi, nel quale alcune prostitute, dopo aver provato le gioie coniugali, scelgono di riabbracciare il microcosmo postribolare, preferendo fare le schiave solo a letto e non in ogni ambito dell’esistenza. Scelte discutibili, ma non insensate nelle imperanti società maschiliste.

    A raccontare tutto questo il vulcanico Paolo Valera (Como, 1850 – Milano, 1926), un intellettuale che raramente riesce a racimolare più di un paio di pagine nelle storie letterarie e che troppo spesso viene catalogato sbrigativamente come verista, pur vantando una personalità letteraria assai complessa nonché refrattaria a ogni tipo di schematico incasellamento critico. In Milano sconosciuta Valera dà il meglio di sé, restando in bilico tra la denuncia sociale e il sottile compiacimento estetico regalato dal rimestare nel torbido (Io sono per la libertà sconfinata. Chi è giunto all'età della ragione protegga la propria salute come gli pare e piace. Non voglio la schiavitù della donna. Faccia del suo corpo quel diavolo che vuole). Ciò che affascina maggiormente di quest’opera è la nascosta (ma non invisibile) consonanza tra l’autore e le ombre perdute che popolano le sue pagine: al di là di qualche tirata moraleggiante (nemmeno troppo convincente, in verità), Valera dissemina il testo di indizi che testimoniano come l’ambiente degenerato che descrive gli sia in qualche modo famigliare, non tanto per le sue origini proletarie, ma più che altro per il suo iter biografico disordinato e anticonformista, tra processi, fughe all’estero, carcere e ambigue frequentazioni. Anche lo stile non si sottrae a questo: leggendo gli articoli romanzati che compongono l’opera si percepisce la tipica penna anarchica e a tratti sorprendente dello scrittore autodidatta che a scuola ha imparato giusto l’abc e poi ha appreso il mestiere del giornalista e del narratore nelle pause concessagli da lavori non certo intellettuali (Valera fu facchino, imbianchino, magazziniere, rappresentante […] impiegato al dazio comunale). Una scrittura di frontiera, maleducata e strafottente, nella quale i neologismi si rincorrono e la sintassi esce dai libri di grammatica per puntare direttamente allo stomaco.

    La tematica scabrosa unita alla pubblicità fornita dal processo per diffamazione intentato all’autore (che fu infine assolto) garantirono un grande successo alle varie ristampe dell’opera, che dalla sua prima edizione (1879) a quella che ho scelto di riproporre (1923) fu arricchita di non irrilevanti aggiunte. E, come spesso accade, furono proprio i borghesi colpiti dalla sferza socialista di Valera a riempire le tasche dell’autore saccheggiando le librerie in cerca di un volume tanto chiacchierato e ricco di spunti davvero ghiotti per un annoiato e imbolsito pubblico a caccia di forti emozioni. Valera, additando l’ipocrisia di una società patinata all’esterno e marcescente al suo interno, viene così ad appagare il voyerismo di schiere di lettori desiderosi di evadere dal tran tran giornaliero e ancor più bramosi di scandalizzarsi per gli inconfessabili peccati altrui. Quasi una forma di rito scaramantico per scacciare la cecità morale dal proprio io, deplorando i misfatti degli altri.

    È un libro attuale? mi chiederebbe qualcuno. Fin troppo, risponderei. Agli occhi di chi, come me, Milano la abita oggi (e non frequenta solo downtown) le analogie risultano quasi inquietanti, e non parlo tanto dei personaggi quanto del gesto ipocrita di voltarsi dall’altra parte per poi sbirciare dal buco della serratura. Del resto, la belle époque fu per molti aspetti bruttissima (e questo volume lo dimostra ampiamente) e l’attuale epoca del politicamente corretto risulta per molti aspetti scorrettissima… i secoli cambiano, ma le contraddizioni della schizofrenica e alienata società di massa restano.

    Milena Contini

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