La piccola Emilia
By Marco Radi
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La piccola Emilia - Marco Radi
Marco Radi
LA PICCOLA EMILIA
Prima Edizione Ebook 2021 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868104634
Immagine di copertina su licenza
Adobestock.com
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Paolo Ferrari 51/c - 41121 Modena
http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it
img1.pngMarco Radi
LA PICCOLA EMILIA
Romanzo
Indice
Prologo
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
L’AUTORE
CATALOGO I GIALLI DAMSTER
Nella sua ultima lettera
mio padre diceva che il mondo
è guidato da coloro
che sono disposti ad assumersi
la responsabilità della sua guida.
Se è la vita che ti sembra di perderti
posso dirti io dove trovarla.
Nei tribunali, negli affari, al governo.
Nelle strade non succede niente.
Nient’altro che una pantomima
composta da impotenti e casi umani.
da Suttree
di Cormac McCarthy
Prologo
Il vecchio camper mansardato si era lasciato alle spalle la Liguria. Superata Genova aveva affrontato la salita di malavoglia, borbottando e scricchiolando allegramente. Vetusto, malandato e rattoppato, insomma, tutt’altro che una furia. Il verde delle colline piacentine ora accarezzava i fianchi e il soffitto dell’automezzo.
Alta Val Trebbia. Faggi, querce e castagni. Disagio meccanico. Frescura e ombra. Profumo di sottobosco. Aghi di pino, silenzio e funghi
. Il camper esitava. Meglio il mare. Strade assai più luminose. Più sicure. E quel camper, ahimè, …non trasportava soltanto amore.
Il giovane al volante canticchiava con disinvoltura le canzoni di una radio birichina, azzeccando una parola su cinque. La ragazza al suo fianco sorrideva divertita ma si sforzava di rimanere concentrata. Sfilò la matita mangiucchiata, trattenuta dalla folta capigliatura per sottolineare un passaggio interessante. Quando la carreggiata lo permetteva il giovane sbirciava quei piedi nudi che irrequieti spolveravano il cruscotto scolorito.
— Guarda avanti… e smettila di cantare. Il tuo italiano è pietoso!
— Io ti amo! E… dimmi, cosa stai leggendo?
— Cormac McCarthy …
— Ah, sì? Hai smesso con Steinbeck? Hai deciso di disintossicarti?
— Non fare lo scemo.
— Grande democrazia, comunque, quella degli Stati Uniti! So che non condividi tuttavia…
— Tuttavia cosa?
— No, niente… stavo pensando a parrucca
.
— A chi?!
— A lui, quello con i capelli che sembrano posticci, color pannocchia
— Non sono i suoi tratti estetici ad impensierirmi! O a impressionarmi. Tanto meno a distrarmi da ciò che quel tipo rappresenta.
— È il popolo ad eleggere il presidente degli Stati Uniti d’America! Non dimenticarlo.
— Già… ma sono i proprietari di quell’America che tu apprezzi senza riserve che gli suggeriscono cosa deve e non deve fare! Uno vale l’altro… che differenza fa?
— Sei più infiammabile della benzina. Non ti accorgi che ti prendo in giro? Che mi diverto a provocarti?
— Non dovresti… questo non è uno scherzo…
Improvvisamente il giovane pigiò il pedale del freno con tutte le sue forze. Un’interminabile frazione di secondo. Il tempo dilatato dalla chimica dei suoi riflessi giovani e pronti. Poi il camper smise finalmente di ondeggiare. Una lattina di birra vuota continuava a rotolare sul pavimento, alle spalle dei ragazzi francesi. Là dietro, oltre al consueto disordine, si aggiungeva adesso il disastro di stoviglie e scatolame straripati a causa della brusca frenata. Indumenti d’ogni sorta abbandonati sulla dinette, un’infradito solitaria da una parte, la borsa termica priva di coperchio dall’altra. Odore di muffa, sigarette e vino rosso. Un po’ di sporcizia. Anarchia dappertutto.
— Caspita… tutto bene? Ti sei fatta male?
— Ho perso la matita. Accidenti! Che diavolo era?! Sei riuscito a vederlo bene?
— Un dannato cagnaccio italiano, direi.
— Tu dici? Non ci sono case nei paraggi. Tu vedi fattorie, rustici o aziende agricole? Non era un cane domestico, te lo garantisco, e neppure un randagio. Si trattava di un lupo.
— Stai dicendo che ci sono i lupi? Da queste parti?
— Ci sono sempre stati.
— Be’, la cosa non mi entusiasma. Affatto. Non mi va l’idea di bivaccare nei dintorni. Vada per i cinghiali, ma i lupi...
— Hai paura?
— Tu, no?
— Mi conosci. Se siamo qui è perché non ho paura di niente. Sono i lupi mannari, casomai, che devono temere la mia indole. Sono loro che devono aver paura… di me… Ma ora basta! Rimetti in moto.
— Agli ordini, comandante Che Guevara.
— Sta zitto! E piuttosto… alza il volume. Ora voglio ascoltare Janis. Il suo blues. E faresti meglio a prestare orecchio anche tu. Perché, ti avverto… se un giorno ti comporterai come Bobby McGhee… ti ammazzo. Capito?!
La fedeltà del suono era pressoché approssimativa. L’autoradio e il vecchio camper, neanche a dirlo, potevano vantare di essere coetanei. I bassi risultavano alquanto distorti. Gli acuti pungenti e isterici. Tuttavia la suggestione di quel blues rimaneva struggente e intatta. La ragazza francese distese le gambe, puntellando di nuovo i piedi scalzi contro il cruscotto poco pulito. Chiuse gli occhi.
Janis Joplin cantava, piangeva, miagolava, rideva e ruggiva, con tutta se stessa. Dapprima delicatamente. Nostalgia, compassione, languore. Dopodiché a squarciagola. Un giorno, nei pressi di Salinas
… ancora Steinbeck. Sogni infranti, denuncia sociale, amara consapevolezza. Un filo di speranza? Senza quella, dove si va a parare? Chissà… Verso la fine del brano tuttavia qualcosa parve scadere e guastarsi per sempre. Si intuiva fra le altre una nota sinistra. La malinconia sembrava cedere alla disperazione. E da lì, il passo verso l’autodistruzione sembrava dannatamente breve.
A un tratto il volume dello stereo fu sovrastato dal rumore molesto di un motore imballato. Con una manovra a dir poco azzardata un’auto di grossa cilindrata sorpassò il camper che arrancava, strombazzando a tutto spiano. Dal finestrino fuoriuscì l’avambraccio di uno screanzato, impegnato in un gestaccio frettoloso.
I boschi perenni dell’Appenino non si scomposero e neanche si offesero. Seguitarono a sfilare scuri e impenetrabili, accompagnando lentamente il vecchio catorcio. Nonostante la stagione, a quell’ora del mattino, l’aria rimaneva frizzante. Che spettacolo, che armonia, che musica tutt’intorno. Castagneti e faggete. Rare praterie. Pascoli magri, invasi da arnica, cardi e carline. E ancora, qua e là, minuscoli fiori selvatici di esseri viventi capaci di resistere agli inverni più duri e spietati.
La ragazza trasse un profondo sospiro e dentro di sé formulò un cattivo pensiero. E ora, senza indugio, si va ad incominciare.
Si dia inizio alla pantomima...
I
— Stupido!
— A chi?!
— Lo sai che non sono strabico… per cui, se dico stupido e ti guardo… secondo te, a chi mi riferisco?
— Sì, sì… ridi, ridi. Vecchio pazzo! Se non ci fossi io a darti retta, non ti si filerebbe nessuno. E lo sai!
— Stai dicendo che non mi rispettano, per caso?
— Non intendo dire questo… dico soltanto che lo sanno tutti che sei un pallone gonfiato.
— Ah, sì? Pensi questo? Lo sai che se voglio faccio sul serio! Non ho paura di niente! E, tanto per cominciare, non ho bisogno di te!
— Lo ripeto, tu sei pazzo. Sei un pazzo furioso. Non ce la farai mai. Perché, per portare a termine con successo quello che hai intenzione di fare, ti manca una cosa fondamentale… il cervello!
— Ho il coraggio… e le palle! E quelle bastano e avanzano!
— Ti sbagli, fratello. Hai bisogno di un piano. E, per elaborare un piano come si deve, ti occorre una mano. Perciò… tu sarai il braccio e io la mente…
Questo strampalato e, per certi versi, surreale dialogo si era svolto tra Lillo e Pepito, rispettivamente noti all’anagrafe con i nomi di battesimo di Camillo e Giuseppe. Entrambi pensionati, erano stati concepiti in momenti assai difficili ed erano nati, con un anno di differenza, in tempo di guerra. Si detestavano fin da bambini, fanciulli troppo presto orfani, con impegno e familiare disinvoltura, ma in fondo in fondo si volevano bene. Questo inconfessabile affetto derivava dal fatto di aver avuto la stessa madre. Ma non lo stesso padre. Giuseppe era figlio di un robusto contadino, nome di battaglia Orso, che per non tradire i compagni delle Brigate d’Assalto Garibaldi si era lanciato da una finestra del secondo piano di un sinistro edificio di Carpanello, nel tentativo di sfuggire all’interrogatorio dei suoi aguzzini neri. Camillo era figlio del prete, nome di battaglia Don Mitraglia, fiero militante del Partito d’Azione, combattente e cappellano nelle file delle Brigate Giustizia e Libertà. La storia aveva segnato la vita di Lillo e Pepito, imbevendo il loro cervello di ideologie e suggestioni perlopiù romantiche. Il figlio del contadino era diventato un onesto e sanguigno saldatore, mentre il figlio del prete, che sognava di fare da grande il giornalista, si era accontentato di essere un bravo tipografo, presso un quotidiano locale.
I nostri eroi hanno sempre vissuto e abitano tuttora ad Arzanello Trebbia, un minuscolo paesino abbarbicato alla costa dell’omonima valle piacentina. I maligni, soprattutto lombardi, in particolar modo cremonesi, attaccano al nome del villaggio la diciottesima lettera dell’alfabeto. E chiamano in un modo assai scurrile gli abitanti della ridente villa. Motivo per cui, a molti cercatori di funghi e di castagne provenienti dall’oltre Po è capitato talvolta di trovare le gomme delle auto, parcheggiate al limitar del bosco, tagliate di fresco. Ma questo accadeva soprattutto durante gli anni