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Nulla più di un omicidio
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Nulla più di un omicidio

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About this ebook

Sarà come farvi un giro all’inferno.
CHICAGO TRIBUNEIl maestro del romanzo americano che prende a calci in faccia.
VANITY FAIRVi invidio, se ancora non lo avete letto."
JO NESBØChi ha detto che tra moglie e marito non è mai il caso di mettere il dito? C’è chi lo fa e pure con discreto successo. Quando nella fiacca routine di Joe ed Elizabeth, che insieme gestiscono l’unico cinematografo della cittadina di Stoneville, irrompe la giovane e apparentemente ingenua Carol, assistente tuttofare, nessuno penserebbe mai che una storia di corna possa trasformarsi nella più improbabile delle finzioni shakespeariane, per giunta nella sonnolenta provincia americana. Eppure, è proprio Elizabeth a proporre al marito e alla giovane amante un patto di ferro: accetterà di farsi da parte e scomparire per sempre, inscenando la propria morte per un terribile incidente, pur di intascare i soldi dell’assicurazione. Perché, in fondo, l’amore e il vincolo del matrimonio sono sacri, ma un bel gruzzolo e la noia possono fare tutta la differenza del mondo. Nel frattempo, Elizabeth se ne starà rintanata in un luogo sicuro, in attesa dei soldi. Detto fatto. Basta un annuncio sul giornale per trovare la candidata idonea al ruolo di vittima designata. Qualcosa naturalmente non andrà per il verso giusto, anche perché il perito dell’assicurazione sente… puzza di bruciato quando fa un sopralluogo nel cinematografo incendiato da Joe. Nubi temporalesche si addensano sulla testa del maldestro Joe. Solo la benevolenza dei suoi concittadini gli evita di sprofondare. Ma la strada, persino nel deserto, è lunga e tortuosa.
LanguageItaliano
Release dateApr 15, 2021
ISBN9788830524163
Nulla più di un omicidio
Author

Jim Thompson

Jim Thompson è nato a Anadarko, in Oklahoma, nel 1906. Ha cominciato a scrivere molto giovane, vendendo il suo primo racconto a True Detective quando aveva solo 14 anni. Ha scritto 29 romanzi e ha sceneggiato Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria, capolavori di Stanley Kubrick. Da molti suoi libri sono stati tratti dei film, sia negli Stati Uniti sia in Europa. È morto a Hollywood nel 1977. Nonostante la sua opera abbia ricevuto sin dall’inizio alcuni riscontri critici positivi, la sua statura letteraria è stata pienamente riconosciuta solo a partire dagli anni ’80 del Novecento, quando si è affermato come uno dei grandi scrittori statunitensi e uno dei massimi maestri mondiali del noir e del genere hardboiled.

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    Nulla più di un omicidio - Jim Thompson

    1

    CERCASI DONNA LIBERA DA IMPEGNI PER IMPIEGO GENERICO IN RESIDENZA FUORI CITTÀ. ETÀ QUARANTA-QUARANTACINQUE ANNI; DIVISA TAGLIA 48. OTTIMO STIPENDIO, ORARIO CONVENIENTE. CASELLA POSTALE N…

    «Il numero della casella lo lascio scrivere a lei» dissi alla ragazza dietro il banco. «Devo pur lasciarle qualcosa per guadagnarsi il pane.»

    Lei sorrise, un po’ come sorride il ragazzo dell’ascensore quando gli chiedi se ha parecchi alti e bassi. «Sì, signore. Il suo nome, prego?»

    «Be’» risposi, «pago subito l’annuncio.»

    «Sì, signore» fece lei, come a dire: cavolo, ci mancherebbe che non pagassi subito. «Ci occorre il suo nome e l’indirizzo, signore.»

    Le dissi che mettevo l’annuncio per conto di un’amica, «la signora J.J. Williamson, stanza 419, Crystal Arms Hotel» e lei lo scrisse su un foglietto stampato che subito finì trafitto in un fermacarte a punta insieme a molti altri.

    «Supera le tre righe di una sola parola. Se vuole, credo di poter eliminare una…»

    «Lo pubblichi così com’è» troncai. «Quanto viene?»

    «Per tre giorni, sono due dollari e quarantaquattro centesimi.»

    Avevo un dollaro e novantasei nella tasca del soprabito: la cifra esatta, se le previsioni di Elizabeth fossero state corrette. Tirai fuori i soldi e li posai sul banco, frugandomi le tasche dei calzoni in cerca di monetine.

    Trovai un quarto di dollaro, due nichelini e qualche centesimo. Me li infilai nella giacca quando capii che non erano sufficienti, e ripresi a cercare. La ragazza mi fissava le mani – i guanti – con le sopracciglia appena sollevate.

    Riuscii a tirar fuori un mezzo dollaro e lo feci scorrere sul banco verso di lei.

    «Ecco, ci siamo» dissi.

    «Un istante, signore. Due centesimi di resto per lei.»

    Le feci segno di tenerli. Non volevo cercare di prendere le monetine con i guanti addosso, e qualcosa mi diceva che lei mi ci avrebbe costretto. Volevo uscire di lì.

    Gridò qualcosa mentre la porta si chiudeva, ma non mi voltai. Imboccai la strada e mi misi a camminare senza guardarmi indietro.

    Credo di aver fatto una dozzina di isolati, procedendo alla cieca, prima di rendermi conto di quanto ero babbeo. Mi fermai, accesi una sigaretta e vidi che nessuno mi seguiva. Piano piano capii che in realtà non ce n’era motivo. Mi venne voglia di prendermi a calci per aver lasciato che Elizabeth organizzasse la cosa.

    Aveva insistito che tenessi i guanti e, ora lo capivo, era un dettaglio dannatamente fasullo. Mi aveva fatto scrivere l’annuncio prima, su un pezzo di carta da emporio, e anche quello aveva un’aria strana, insieme al resto.

    E poi aveva calcolato il prezzo esatto dell’annuncio… Solo che non era esatto.

    Proseguii verso il quartiere degli uffici di distribuzione cinematografica chiedendomi perché mai mi prendevo la briga di dar retta a Elizabeth, visto che mi cacciava sempre nei guai, e se davvero ero quel gran babbeo che diceva sempre lei.

    Ora vorrei aver continuato a chiedermelo, invece di andare avanti. Ma non l’ho fatto, e non credo che questo dimostri che non sono stato furbo.

    2

    Quando Elizabeth e io ci eravamo sposati, a Stoneville c’era un’altra sala. Non era granché come locale: cinquecento posti, un paio di proiettori Powers che sarebbero stati bene in un museo, e un impianto sonoro raffazzonato.

    Ma era una sala e ci dava parecchio lavoro, specie il venerdì e il sabato, le serate western. Non solo: ci raddoppiava quasi il prezzo dei film che acquistavamo.

    In una cittadina di settantacinquemila abitanti era improbabile pagare più di trenta, trentacinque dollari per i migliori lungometraggi che uscivano. E non occorre farlo, se il tuo è l’unico cinema. Dove ce n’è più di uno, be’, gente, ecco una situazione che piace da matti a quelli della distribuzione.

    Se tu non vuoi comprare, basta che portino il loro film dall’altra parte della strada. E il tizio dall’altra parte lo prende al volo sperando di tagliarti fuori per poter imporre il suo prezzo l’anno seguente.

    Il tizio dell’altro cinema si chiamava Bower. Non è più in circolazione; chissà che fine ha fatto. Quando avrebbe dovuto rinnovare l’affitto del suo locale, andai dal proprietario e mi offrii di rilevarlo, pagando tutte le spese di gestione e dandogli il cinquanta per cento di quello che rimaneva.

    Naturalmente quello accettò. Bower non poteva permettersi di fare una proposta simile. E nemmeno io.

    Diedi a Bower centocinquanta dollari per l’attrezzatura, un buon prezzo, anche se lui non la pensava così. L’attrezzatura cinematografica vale più o meno quanto lo spazio dove la tieni. È roba complicata da spostare; è fatta per esser messa in un posto e lasciata lì.

    Be’, Bower aveva sotto contratto all’incirca la stessa quantità di boiate che avevo io. In parte le aveva comprate perché non poteva farne a meno (si prenotava in blocco, all’epoca) e in parte per schiacciare me.

    Di solito, ammesso che le proiettasse, le compensava con qualche bel corto di quelli forti. Ma molte di quelle non avrebbe potuto proiettarle nemmeno con tre titoli in programma, di cui due di discreto richiamo.

    Io allora ho preso le sue boiate e le mie e le ho sparate tutte quante nel proiettore, una dopo l’altra. E sceglievo i corti che ci facevano il paio, se capite il concetto. Dopo due mesi il locale non arrivava a tirar su cinque dollari lordi al giorno.

    Il proprietario era (è ancora, a dire il vero) il vecchio Andy Taylor. Andy ha cominciato quasi cinquant’anni fa, stipulando assicurazioni dalle nostre parti, e adesso possiede circa mezza contea in proprietà e il resto ce l’ha sotto ipoteca. Avreste potuto sentirlo piangere dalla contea vicina, quando capì in che guaio si era cacciato. Ma non poteva farci un bel niente.

    Le alternative erano prendere venticinque al mese o il cinquanta per cento di niente, sicché potete immaginare che cosa ha scelto. Ho lasciato la sala al buio, proprio com’è ora.

    Solo un idiota penserebbe di provare ad aprire un terzo cinema, date le circostanze, e se lo facesse non avrebbe niente da proiettarci. Io compro tutti i film delle grosse case di produzione e tutto quel che c’è di proiettabile delle indipendenti. La nostra sala ha sette programmi alla settimana, ma in realtà cambiamo quattro o cinque volte. La roba che avanza la paghiamo e la rimandiamo indietro.

    Il nostro cartellone ha soltanto all’incirca il trenta per cento di film in più alla settimana rispetto a prima, e gli incassi sono aumentati grosso modo del novanta per cento. Naturalmente dobbiamo pagare l’affitto dell’altra sala, e per le spese extra e l’assicurazione più il materiale pubblicitario ci vuole grana. Ma ce la siamo cavata bene. Benone. Abbiamo la sala cinematografica di provincia più moderna e meglio attrezzata dello stato, e il merito è di uno soltanto.

    Mio.

    Io prenoto esclusivamente di mese in mese. Ma le mie prenotazioni per un mese equivalgono pressappoco a tre mesi di un gestore medio; e non è che i distributori mi piglino a sassate.

    Mi piace non lasciare mai gli uffici della Playgrand.

    Nel momento in cui stavo per varcare la soglia, mi rispedirono nell’ufficio del direttore e lui semplicemente mise da parte il lavoro e prese i bicchieri.

    Avevano qualche corto e lui voleva un mio parere, sicché poco dopo tornammo in sala proiezione, che è proprio come un piccolo cinema, e li esaminammo. Era roba buona, tra i corti più brillanti e azzeccati che avessi visto da un pezzo. Me li sono gustati, malgrado tutto quello che avevo per la testa.

    Conosco il direttore dell’Utopian fin dai tempi in cui faceva il piazzista, e venirne fuori non era stato facile. Poi ci siamo messi a parlare di baseball giù alla Colfax, e alla Wolf ho dovuto assistere a un’altra proiezione e farmi un altro paio di bicchieri.

    Alla Superior, quasi non prenotai niente.

    L’organizzazione era completamente nuova, dall’addetto alle prenotazioni al direttore, e nessuno ci capiva granché. Non sapevano nemmeno chi fossi. Diedi all’addetto tre date per i lungometraggi e per cinque corti, e spiegai almeno sei volte che non avevo altro spazio disponibile per quel mese. Ma quello non mollava. Allungò la mano e mi prese l’agendina.

    «Ehi, qui abbiamo fatto un errore, no? C’è un giorno libero domenica prossima.»

    «Ho già altro in programma» dissi.

    «Dunque, vediamo» insisté. «Cosa possiamo darle? Che ne direbbe di…»

    «Quel giorno è già pieno» ribadii.

    «Sistemeremo tutto, prendiamo l’altro film pronto per lei. Non vorrà un prodotto di qualità inferiore per la programmazione domenicale, quando posso darle…»

    Be’, non mi dispiace vedere uno che cerca di fare il suo lavoro, e quelli della distribuzione hanno tutti la lingua piuttosto veloce. Sono svelto anch’io. Però non mi sono ancora mai ficcato la lingua negli occhi, e non perché li chiudo quando parlo.

    Stavo per mandarlo gentilmente al diavolo ­quando ­arrivò il direttore. Sopraggiunse alle mie spalle e mi strofinò la mano sulla schiena come se mi stesse massaggiando.

    «Va tutto bene?» domandò. «È tutto di suo gradimento, signor Barclay?»

    Mi sentii arrossire. «Non mi chiamo Barclay» precisai.

    «Oh» fece lui, indietreggiando un poco. «Credevo fosse della Barclay Operating Company di…»

    «Sono Joe Wilmot. Gestisco il Barclay da dieci anni. La proprietà è a nome di mia moglie. Okay?»

    Se ne uscì in una risata sciocca, cercando di sorvolare, e mi afferrò la mano.

    «Strafelice che tu sia venuto, Joe. Qualunque cosa possiamo fare per te qui, basta che parli.»

    «Non potete fare un accidenti per me» risposi. «Non ritiro le date che vi ho lasciato solo perché ho fretta. Ma ne passerà del tempo, prima che ve ne dia altre.»

    «Suvvia, Joe. Torniamo in ufficio e…»

    «Va’ al diavolo» dissi.

    Lui e il tipo delle prenotazioni mi seguirono entrambi alla porta. Gliela sbattei in faccia.

    Fra tutti i distributori che ho girato, c’è sempre almeno un posto come la Chance Independent Releases e almeno un tipo come Happy Chance. Non proprio, ma ci siamo capiti.

    Mettono le mani su tre o quattro film all’anno che si possono piazzare in orario infrasettimanale, più un paio di pellicole sexy, qualche film a episodi e un po’ di cortometraggi porno. Le copie della roba sexy e porno sono di loro proprietà e il resto lo gestiscono su commissione per le case di produzione che non hanno distributori di zona propri. Hap sembrava cavarsela meglio di certi altri, ma da Hap c’era da aspettarselo. Lo conosco da più di vent’anni, da quando lavorava in cabina in una sala aperta giorno e notte e io trasportavo le pellicole col camion. E se c’è qualcuno che non ha spennato, io non lo conosco. È riuscito a spennare perfino la catena Panzpalace; e quando spenni uno come Sol Panzer, che partendo con una saletta da un nichelino a biglietto è arrivato a gestire la bellezza di novantatré cinema, devi essere proprio in gamba.

    Non so perché, ma Hap mi piaceva. Forse gli opposti si attraggono, come sta scritto nei libri.

    «Hai fatto bene a passare, bello mio» esordì, dopo che ci fummo seduti e i bicchieri furono pieni. «Pensavo giusto di fare un salto da te. Come va con il Barclay?»

    «A che serve lagnarsi? Tanto non mi crederesti.»

    «No, sul serio. Scommetto che fai grana a palate. Quanta roba hai in programma, comunque?»

    Gli sorrisi da dietro il bicchiere. «Tutta quella che mi serve, Hap.»

    «Un tale mi diceva l’altro giorno che hai il programma più ricco di qualsiasi sala dello stato.»

    «Può darsi; di pellicole ne ho. Raramente ne faccio più di quattro alla settimana, però.»

    «E gli altri non li fai nemmeno entrare in gioco?»

    «Non sarebbe legale. La chiamano restrizione degli scambi.»

    «Ah, uhm» fece in tono strascicato. «Certamente. Dovrei saperlo che non ti impegoleresti mai in una cosa del genere.»

    «Le porte della città sono spalancate per chiunque voglia entrare» dissi. «Io do tutti i film buoni al Barclay e tutte le porcherie al Bower, e il resto lo divido con la concorrenza.»

    «Ah-ha!» Hap se ne uscì in una risatina. «Quanto vale la tua sala laggiù, bello mio, se posso chiedere?»

    «Dunque, vediamo. Dieci volte il rendimento annuo… Tra i settantacinque e i cento testoni.»

    «Non è possibile che arrivi al milione, vero?»

    «Non senza il pubblico della domenica sera. Laggiù abbiamo delle ragazze niente male.»

    «Già, già.»

    «Cos’hai in mente? Mi hai trovato un compratore?»

    «Oh, be’…» Esitò, si accigliò, strappandosi un peluzzo dalla manica del completo di tweed. Hap ha un debole per la roba inglese. E non gli sta così male… né così bene. Era lì tutto in ghingheri che parlava come un principe; poi girò un poco la testa e sputò, sfregando lo sputo sul tappeto con una delle sue scarpe di cuoio ingrassato.

    Mi veniva da ridere, ma sapevo che era meglio evi­tare. Non è bello che uno come Hap ce l’abbia con te.

    «Be’, allora?»

    «Temo di no, bello mio.» Sospirò e scosse la testa. «La proposta non è abbastanza grossa.»

    Mi guardò ancora per un minuto o due, e pensai che avrebbe aggiunto qualcosa. Ma non lo fece, e io non lo sollecitai. Non sarebbe servito a niente, e comunque mi pareva di aver capito il suo punto di vista.

    «A proposito» ripresi, «che ne hai fatto di quelle sedici bobine? Com’è che si chiama… I pericoli della giungla

    Hap scrollò le spalle. «Oh, quell’accidenti di roba! Caspita, quella pizza è sigillata da mesi, bello mio. È…» Si interruppe e mi lanciò un’occhiata astuta. «Ah, I pericoli della giungla, dici! Sta facendo furore. In pratica è tutto prenotato per i prossimi tre mesi.»

    A quel punto, risi. Si trattava di affari, potevo farlo.

    «Non ci sono così tanti penitenziari, nel paese» commentai.

    «Parola d’onore, Joe. Sta avendo un tale successo che addirittura mi stupisce. Sai, neanch’io ci andavo pazzo, anche se c’erano Gable e la Bergman…»

    «Già. Una scena di dieci fotogrammi con loro due seduti allo Stork Club. E che cosa c’entra con la storia, nessuno lo sa.»

    «… Ma con il box office non si discute, Joe. Il b.o. non mente. Hai visto gli incassi del mese scorso sull’Herald? L’Empire ha incassato sette testoni con la Giungla al primo…»

    «L’ho visto» replicai. «L’unica altra attrazione era l’orchestra di Tommy Dorsey.»

    «Lascia che ti faccia vedere una cosa, Joe! Fammi tirar fuori l’Herald! Posso mostrarti incassi in città piccole per due giorni in autunno…»

    «Che giorni? Il Ringraziamento e la Festa del lavoro?»

    «D’accordo» ammise. «Allora fa schifo.»

    «Lo sai.»

    «Però ti interessa.»

    «Be’…» cominciai. Poi deglutii, e sembrava che avessi dimenticato come si fa a parlare.

    Un sorriso perplesso si allargò sulla faccia di Happy.

    «Già, lo vuoi. Ma perché? Hai già più roba di quanta puoi usarne. Di’ a Happy perché lo vuoi, bello mio.»

    «Per la miseria» risposi, «usa la testa, Hap. Siamo a fine stagione. In questo periodo dell’anno cominciamo sempre a raschiare il fondo del barile.»

    «Ah-ha. Mmm.»

    «È vero, di solito ho più film di quanti posso proiettarne, ma

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