La vendetta di Nirak
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La storia inizia con la descrizione dell’infanzia e dell’adolescenza della signorina Elisabetta, la figlia del signor Nirak, padrone del castello, fino a un fatidico incidente che porterà la giovane alla morte e così anche a quella di suo padre. Il castello diventerà un albergo. Da qui si susseguono persecuzioni e vendette del fantasma di Nirak nei confronti dei clienti, alla ricerca di un’anima simile a quella della sua bambina deceduta per farla sua per sempre.
Ma lo spettro non ha fatto i conti con lo spirito di Elisabetta, che continuerà a proteggere le persone prese di mira dall’incubo del fantasma di suo padre.
Solo il sacrificio di Sabrina, molto simile caratterialmente a Elisabetta, porrà fine a tutte le vendette di Nirak, restituendo tranquillità alle generazioni future.
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La vendetta di Nirak - Maria Cristina Pizzuto
future.
Il segreto di Castel Marina
Sono emozionata, pensai, seduta a gambe incrociate con i miei fratelli e cugini sul morbido tappeto proprio davanti al camino scoppiettante.
Come ogni Natale, io e la mia famiglia ci trovavamo nella casa in montagna di nonna, e noi bambini eravamo in trepidante attesa di scoprire il racconto di quella sera.
Era infatti tradizione che durante le lunghe serate invernali ci raccogliessimo tutti davanti al caminetto e ascoltassimo con fiato sospeso le avventure che la nonna ci raccontava. Erano sempre storie nuove: sembrava avesse ingoiato un intero libro di favole da quante ne aveva immagazzinate nella sua memoria, e ne sfornava sempre di generi diversi.
Come sempre nonna Erica era seduta sulla sedia a dondolo con lo scialle a coprirle le spalle, e noi bambini eravamo accomodati sul pavimento attorno a lei. I nostri genitori, invece, si godevano la storia seduti al grande tavolo del soggiorno, sorseggiando un liquore o qualche tisana. A noi bambini era permesso, solo in quei momenti, tuffarci in bicchieri di limonata o delle nostre bibite preferite. Forse è anche per questo che ricordo sempre volentieri questi attimi indimenticabili, in cui regnavano pace e armonia e il tempo sembrava trasformarsi in quello scandito dalla storia e non dal ticchettio dell’orologio a cucù̀, appeso accanto alle scale che portavano al piano superiore.
Quella sera nonna aveva in grembo una curiosa scatolina simile a un carillon, ma quando l’aprì non vi era nessuna ballerina danzante con la musichetta di sottofondo, bensì̀ vari oggetti piccolissimi, tra cui un ciondolo, una conchiglia affusolata e delle fotografie.
Nonna aveva grosse e ruvide mani, usurate dal tempo ma sempre pronte a coccolarti e accarezzarti quando ne avevi bisogno. Estrasse una foto in bianco e nero, sbiadita e ingiallita dal tempo. Non era bellissima ai miei occhi, ma ritraeva il viso di una ragazza di una dolcezza incredibile, con occhi vispi e profondi e capelli molto mossi, quasi ricci.
«Nonna, chi è quella nella fotografia, sei tu?» chiesi con l’usuale curiosità̀ fanciullesca che non ha peli sulla lingua.
Scosse la testa. «Si chiamava Elisabetta e tempo fa è stata la mia amica del cuore. Ero una bambina, proprio come voi.»
«Dai, raccontaci di quando eri piccola!» esclamai impaziente, con la complicità̀ dello squadrone di noi piccoli.
Concitati, cercavamo di tirare fuori le parole dalla bocca di Erica, i cui occhi si stavano già̀ perdendo nei meandri dei ricordi.
«Era il lontano 1930» cominciò la nonna con un sospiro quasi sognante, che forse la catapultava in emozioni che a volte avrebbe voluto dimenticare. «Io ero la figlia di una delle serve del signor Nirak, il proprietario di un castello...»
«Sei vissuta in un castello?!» proruppe una vocina vicino a me, meravigliata, come se nonna fosse una principessa delle favole che ci raccontava spesso la mamma.
«No, caro, io vivevo vicino alle stalle. Però ci potevo entrare. Era un castello imponente e da sopra una ripida scogliera dominava le colline e i vigneti. Il signor Nirak, il padre di Elisabetta, era proprietario anche del terreno circostante e di una grossa e rinomata catena vinicola. Sulla sinistra delle mura di cinta, dopo un viottolo mediante il quale si arrivava al castello, fiancheggiato da cipressi, sorgeva un piccolo borgo chiamato Castel Marina.
Lì andavo nei giorni di mercato; ne conoscevo ogni singola viuzza, come anche i bambini del luogo, tutti presi a seguire le orme dei genitori che vendevano mercanzia di ogni genere.
Elisabetta sembrava rivivere quando riusciva a sgattaiolare fuori dal maniero in cerca di libertà, lontano dallo sguardo autoritario di suo padre. Si emozionava per un nonnulla: i colori dei tendoni del mercato, i profumi delle spezie e della frutta, i vari tessuti esposti sulle bancarelle... tutto aveva per lei un effetto eccitante.
Eravamo entrambe bambine, ai tempi, e anche a me piaceva seguire il suo passo che si muoveva veloce tra un banchetto e l’altro. Rimanevamo per ore soprattutto davanti al tavolo dei libri. A Elisabetta piaceva molto leggere e anche a casa, nella grande biblioteca del castello, si perdeva con la fantasia in storie di avventura, di principesse e duelli. Su quel banco la vedevo vagare con la mente, tra le pagine che sfogliava con avidità̀, come se le stesse mangiando con gli occhi. Era sempre un piacere per me andare a zonzo con lei tra le vie del paese.
Sapeva farmi divertire con niente, le piaceva giocare e scherzare, tant’è che spesso mi rubava dal cestino frutta o verdura di vario genere, si distanziava da me come se niente fosse e poi mi urlava di prenderla al volo, tirandomela a mia insaputa.
Chissà̀ cos’avrebbe detto mamma se le avessi portato la frutta ammaccata!
Rimproveravo la mia amica per la sua superficialità̀, ma sempre con il sorriso sulle labbra perché́, devo ammetterlo, quei giochetti piacevano molto anche a me.
Peccato che quelle uscite durassero sempre troppo poco. Alle undici e mezza dovevamo ritornare a casa, sennò sia mia mamma sia il padre di Elisabetta si sarebbero accorti della nostra assenza e ci avrebbero sgridate. Il rintocco del grande campanile scandiva la nostra libertà e noi avevano le orecchie sempre in allerta.
Il signor Nirak imponeva a noi domestici di chiamare sua figlia signorina Elisabetta
. Ci misi un po’ a farmi piacere quel galateo, a me proprio non veniva di chiamarla così.
Io e lei andavamo molto d’accordo. Per anni siamo state reciproche confidenti, direi anzi amiche del cuore, e non mi è mai venuto spontaneo definirla signorina
. Ma se non la chiamavo così mamma mi obbligava ad andare a letto senza cena, e dunque dovetti sforzarmi di usare quell’appellativo.
Noi domestici coccolavamo Elisabetta, considerandola un po’ come parte della famiglia, anche se l’etichetta ci costringeva a creare un muro tra la nobiltà̀ e la servitù̀; ma con l’abitudine non si fa più̀ caso a molte cose, e così fu anche per noi.
Il signor Nirak non era sempre stato così cinico e burbero. Un tempo, prima che nascesse Elisabetta, era il migliore gentiluomo che una donna potesse desiderare: affascinante e con modi garbati, nessuno poteva resistergli e le nobildonne se lo contendevano. Egli però non era di facili costumi e le rifiutò tutte tranne una: Sophia, la mamma di Elisabetta. Capelli biondi con sfumature dorate e occhi azzurri, corporatura esile e temperamento aggraziato... tutto questo riuscì̀ a impadronirsi del cuore del signor Nirak. Mia mamma ripeteva spesso che in quegli anni il padrone aveva avuto un fiore tra le mani, splendente come un diamante e docile e leggiadra come un uccello. Tutto ciò̀ lo aveva reso ancor più̀ bello e affascinante per ogni dama di corte, tanto che durante i balli a palazzo nessuna gli toglieva gli occhi di dosso. Ma egli aveva donato il cuore alla sua sposa e non guardava neanche di sfuggita le altre.
Quelli furono gli anni più̀ felici per il signor Nirak, e al castello si respirava un’aria leggera. La vita scorreva in pace e armonia, almeno fino alla nascita di Elisabetta.
Dopo, tutto precipitò.
Sophia morì di parto, lasciando il padrone in una disperazione indescrivibile e nel vuoto più̀ totale. Non riuscì̀ a farsene una ragione e con il tempo si chiuse in se stesso, imponendo che non si parlasse più̀ dell’accaduto.
Sul castello cadde una spessa coltre di cupezza e il signor Nirak cessò di essere il padrone cordiale e premuroso di una volta, lasciando spazio a un uomo distrutto dal dolore e dalla solitudine. Elisabetta crebbe dunque con la servitù̀ del palazzo perché́ suo padre, sebbene la controllasse, non espresse mai la volontà̀ di passare del tempo con lei e si teneva a debita distanza; forse la riteneva responsabile della morte di Sophia.
Nonostante ciò̀ la guardava crescere e in lei rivedeva gli stessi lineamenti della sua amata, ma il suo orgoglio lo costringeva ad ammirarla solo di nascosto. Lo notavo sbirciare dalla finestra del suo studio, quando io ed Elisabetta giocavamo nel cortile. Insomma, ci lasciava fare, ma al contempo teneva la figlia sotto stretto controllo come se fosse timoroso che qualcuno si avvicinasse.
All’epoca non comprendevo il perché́ delle sue azioni. Mi chiedevo come potesse essere così rude e severo con Elisabetta, dato che le voleva bene; inoltre, lei non gli aveva fatto nulla. Crescendo compresi la folle gelosia che lo accecava. Faceva in modo che la figlia fosse come un diamante a cui non far mancare nulla e da sfoggiare con gli amici dell’alta società̀. Guai però se gliel’avessero toccata: Elisabetta era tutto ciò̀ che gli rimaneva dell’adorata moglie.
Il suo orgoglio esagerato gli impediva di mostrare quella fragilità̀ non consona all’aristocrazia.
Finì dunque per starsene rintanato, per la maggior parte del tempo, nello studio, in una delle torri, da cui poteva dominare la sua proprietà̀. Il lavoro lo impegnava dalla mattina alla sera e non avrebbe comunque avuto tempo da dedicare a Elisabetta, che intanto cresceva a vista d’occhio. Solo durante i pasti i due si lanciavano occhiate malinconiche, poiché́ anche non era consentito loro stare vicini, ma ai due capi opposti della tavola.
Elisabetta soffriva molto per l’assenza del padre e avrebbe voluto abbracciarlo, sedersi sulle sue ginocchia facendosi raccontare delle fiabe, ma i suoi desideri non si avverarono mai. Nonostante ciò̀, quel velo di tristezza che adombrava gli occhi del padrone non le sfuggiva. A volte, tra una portata e l’altra, Elisabetta si alzava da tavola, si avvicinava a Nirak e gli posava una mano sulle sue. Egli non la toglieva, e anzi si lasciava accarezzare dalla figlia. Ma appena un breve scampanellio annunciava la portata successiva, la signorina ritornava al suo posto come se nulla fosse successo. Non era permesso, infatti, farsi vedere dalla servitù̀ quando ci si abbandonava a scambi di effusioni.
Il fatto che il padre non ritraesse la mano al suo tocco induceva Elisabetta a pensare che le volesse bene, sotto quella spessa corazza, e si faceva bastare quello scambio di sguardi per riempire la giornata.»
La nonna si strofinò il naso con un fazzoletto, come se le prudesse. «Visto che siete così interessati a questa storia ve la racconterò̀ per intero.»
In effetti pendevamo dalle sue labbra, come si suol dire. Non ci eravamo persi una sola sillaba e sedevamo sul tappeto con la schiena protesa in avanti, attenti a non lasciarci sfuggire alcuna parola.
L’inizio di una leggenda
Ogni giorno Elisabetta aveva una lista di incombenze di cui occuparsi, stabilite dal padre che poi consegnava alla domestica che amministrava il suo guardaroba: lezioni private di materie scolastiche, etichetta, equitazione, canto, arpa, violino e pianoforte, strumento che adorava.
Nei pochi momenti in cui le insegnanti non la vedevano, oppure nell’ora di pausa tra una lezione e l’altra, sgattaiolava fuori dal palazzo e con aria birichina si intrufolava nelle casette vicino alle stalle, quelle dove abitavano i domestici, per giocare con noi bambini. Pensava che il padre non la vedesse, ma dall’alto del suo studio, affacciato a una finestrella della torre che guardava il promontorio proprio dietro il castello, la figura del signor Nirak la scrutava per ore. Ai suoi occhi di falco non sfuggiva nulla, neanche il lavoro dei braccianti nelle campagne. Solo ora capisco che il padrone era sempre al corrente degli spostamenti della figlia, anche se il tutto passava inosservato in un silenzio tombale.
Più di una volta, quando era ancora in tenera età̀, Elisabetta era uscita dalla cinta muraria e aveva conosciuto alcuni bambini del paese limitrofo. Ingenuamente aveva chiesto al padre il permesso di portare a casa i suoi amichetti, ma il signor Nirak, per tutta risposta, le aveva vietato ogni contatto con l’esterno. Non capendo, e presa dalla disperazione per quell’ingiusto rifiuto, la piccola era corsa in lacrime nella sua camera e non aveva voluto vedere nessuno per giorni.
Come faceva ogni volta che era triste, nei momenti in cui tutti erano indaffarati nelle loro faccende, scappava per la campagna in groppa al suo fiero destriero: un cavallo bianco dal crine rossiccio che era cresciuto con lei e con cui aveva un’intimità̀ particolare. Al solo tocco si capivano al volo e lei si faceva portare fiduciosa in qualunque posto il cavallo decidesse di andare.
Spesso mi confidò che per lei cavalcare era una gioia immensa. Le sembrava di volare e in quei momenti anche i pensieri più̀ bui sparivano, per lasciare spazio a uno spiraglio di sole. Cavalcava per ore, tra boschetti e aperta campagna, tra spighe e vigneti, alle prime luci dell’alba o al crepuscolo. Ogni volta si immergeva in una natura sconfinata e piena di bellezza, dalle sfumature sempre nuove, e