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Video Web Armi: Dall'immaginario della violenza alla violenza del potere
Video Web Armi: Dall'immaginario della violenza alla violenza del potere
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Video Web Armi: Dall'immaginario della violenza alla violenza del potere

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È la violenza a mettere in rapporto la produzione audiovisiva contemporanea, la comunicazione web e le armi: in che modo questa costellazione di termini entra in relazione col nucleo originario del potere costituito? Un percorso scandito da tre «passi» fra cultural studies, filosofia, antropologia e sociologia, che attraversa l'immaginario e i nuovi media per approdare a una visione analitica e realista della sovranità, fondata sempre, più o meno esplicitamente, sulla detenzione di arsenali ed eserciti. E questo perché «dietro tutti i surrogati c'è il potere costituito, il re nudo che poi però tanto nudo non è ad eccezione di determinati casi: il re potrà essere anche nudo, ma sicuramente è ben armato delle armi del suo fedele seguito».
LanguageItaliano
PublisherRogas
Release dateMar 30, 2021
ISBN9791220283168
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    Video Web Armi - Alessandro Alfieri

    VITALE

    Introduzione

    Si narra che Cosroe Anushirwān abbia ordinato al proprio ministro Buzurghmhir di costruire un monumento a cupola, dove su un lato vi era scritta una formula utile a preservare lo Stato e perpetuare il regno:

    «Il mondo è un giardino di cui lo Stato è il recinto.

    Lo Stato è un governo alla cui testa vi è il sovrano.

    Il sovrano è un pastore che è sostenuto dall’esercito.

    L’esercito è costituito da ausiliari mantenuti con il denaro.

    Il denaro è il mezzo di sussistenza fornito dai sudditi.

    I sudditi sono gli schiavi che servono la giustizia e la giustizia è il vincolo tramite il quale si mantiene la stabilità del mondo».

    Alī Ibn Abī Bakr al-Harawī

    Consigli sugli stratagemmi di guerra

    Violenza e immaginario. Due concetti quanto mai impegnativi, soprattutto quando diventano il tema di un’indagine filosofico-antropologica. Forse anche per questo si tratta di due termini particolarmente battuti e indagati nel corso dei decenni. Non basterebbe un’enciclopedia se tentassimo di ricostruire le implicazioni teoretiche e sociologiche della violenza e dell’immaginario, e oltretutto le cose si complicherebbero ulteriormente se a questo binomio rivolgessimo l’attenzione al terzo concetto, strettamente connesso e conseguente ai primi due, ovvero quello di «potere». Violenza, immaginario e potere costituiscono una costellazione dall’i­nesauribile valore filosofico, e forse rappresentano gli assi del­l’impalcatura che struttura la storia della filosofia da sempre.

    D’altronde, tutta la storia della filosofia potrebbe venire ripercorsa attraverso la violenza; persino la pratica del discorso filosofico può venire declinata nei termini dell’opposizione radicale e del pólemos come strumento di argomentazione serrato, come sacra aggressività del pensiero e del discorso [1] . Se invece rivolgiamo la nostra attenzione alla storia della cultura occidentale, la linea di studio che si rifà a Emanuele Severino sarebbe ben disposta a identificare la filosofia occidentale e il predominio dell’ epistème come origine e persistenza della violenza stessa [2] . Se poi alla filosofia affianchiamo la sociologia, la psicologia, l’antropologia e la storia…be’, appare evidente che ci troveremmo davanti all’intera storia della cultura occidentale, e se permettete le ambizioni del sottoscritto sono assai più limitate. Un ottimo tentativo, da questo punto di vista, è stato portato avanti dal filosofo Byung-Chul Han, che nel suo Topologia della violenza ricostruisce una efficace disamina dei rapporti tra violenza, antropologia e politica [3] ; l’approccio di Han è utile perché per avvalorare la sua posizione si serve del pensiero di alcuni grandi classici che nel corso della modernità hanno rivolto la loro attenzione proprio al significato speculativo e pragmatico della violenza, ma proprio in tale progetto probabilmente questo libro mostra anche il suo inevitabile limite: da Girard a Schimtt, da Benjamin a Žižek, da Bourdieu ad Agamben, se si tratta di passare in rassegna la posizione di questi pensatori, allora la nota critica nei confronti di tale progetto speculativo non potrebbe non essere quella dell’accusa di rimanere in superficie rispetto alla complessità abissale che ognuno di questi autori comporta.

    Perciò, il sottoscritto ribadisce la sua viltà e si schermisce immediatamente, con la consapevolezza che questa è una strategia astuta e al contempo ipocrita: questo non è un trattato esaustivo sulla violenza, perché tale impresa sarebbe a dir poco pretenziosa. Nel corso del mio percorso di analisi e critica dei fenomeni della cultura di massa, l’attenzione rivolta alla violenza ha tagliato in maniera trasversale vari settori senza mai essere stato preso «di petto» e direttamente: in passato ho trattato della trasfigurazione estetica della violenza che, come per diverse produzioni videomusicali realizzate per Lady Gaga e nel cinema di Lars Von Trier e Quentin Tarantino, si priva di quella dimensione morale che apparentemente sembra connaturata alla violenza stessa, mentre tanto Tarantino quanto Steven Klein e Jonas Åkerlund ne mantengono solo l’involucro esterno garantendo alle loro produzioni audiovisive tutta l’energia magnetica della fascinazione perversa; ho rivolto il mio interesse ai rapporti tra immaginario e terrorismo globale, e alla capacità che l’immaginario rock nel corso dei decenni ha avuto di esprimere il proprio potenziale di aggressività e ribellione proprio nel campo della proposta commerciale. Inoltre, anche nell’attenzione che ho dedicato ai rapporti tra avanguardia videoartistica e music-video, tema che ritroveremo nel primo capitolo del presente libro, sono rintracciabili le analisi delle strategie di seduzione inquietante e perturbante – legate anch’esse alla violenza – che caratterizzano l’opera di diversi videomaker.

    Questo libro non vuole proporre né un’ennesima teoria della violenza o del potere, né tantomeno teorizzare ancora una volta cosa sia l’immaginario; autori ben più celebri e capaci di me hanno battuto queste strade con risultati encomiabili, e spesso hanno segnato il percorso della filosofia (tanto quella classica quanto quella moderno-contemporanea). Piuttosto, in questo libro si metteranno in connessione questi tre concetti – violenza, immaginario e potere – col circuito massmediale contemporaneo. L’operazione speculativo-filosofica che si intende proporre è quanto mai ardita e audace: si tratta di tornare, per l’ennesima volta, a un dibattito antico quanto la storia della civiltà umana, e allo stesso tempo insistere su una questione essenziale e vitale per la cultura e la società contemporanee. La domanda può essere formulata così: come si costituisce il potere? Come si instaura la legge e come si impone l’ordine prima che esso possa venire riconosciuto in quanto «istituzione»? Quali sono le origini concettuali, storiche, ma soprattutto filosofiche e antropologiche delle dinamiche che fanno sì che un gruppo di persone obbedisca a un sistema, anche quando per un mero principio quantitativo i sottomessi sono in ordine numerico superiori rispetto a chi comanda? Tutto questo, come si relaziona all’immaginario e alla violenza?

    Sappiamo bene che le origini della democrazia e della pace non sono democratiche né pacifiche; la tesi che si sostiene in questo saggio non vuole affatto superare o invalidare i principi che reggono tale dibattito da secoli: essa vuole in realtà problematizzare ulteriormente la questione, con una proposta teoretica in chiave analitica, prima ancora che giuridica e sociologica. La sociologia intende da sempre spiegare le dinamiche collettive nonché individuali partendo dall’analisi dei contesti storicamente e topograficamente determinati. È innegabile che forme determinate come il linguaggio e soprattutto l’immaginario abbiano contribuito a rispondere all’annosa domanda: si obbedisce e si mantiene l’obbedienza dei sudditi solo quando la logica della forza impositiva viene trasfigurata nelle forme di vita, ovvero diviene «abitudine» ( habitus) del comportamento. Con l’azzeramento dello iato della coscienza del suddito, ovvero operando nella piena identificazione di comportamento e pensiero (in totale parresìa, talmente totale da non essere neppure pensato in quanto principio perché non si pensa a esso e lo si vive e basta), diventa superflua qualsiasi forma esibita di violenza. L’obiettivo dei totalitarismi, obiettivo asintotico, è il raggiungimento di tale stato, che può essere conseguito solo insistendo sulla piena identificazione di politica e vita quotidiana, o di politica ed estetica ad esempio. Qualsiasi principio assume l’autentico valore veritativo e legittimo solo quando non viene riconosciuto neanche più in quanto principio, perché già riconoscere l’autorità del principio significa ammettere, seppure lievemente e allo stato originario, l’incrinatura del cristallo perfetto e della piena identificazione – per questo Pol Pot negli anni Settanta metteva i kalashnikov in mano ai bambini di otto anni affinché li puntassero contro i genitori: perché secondo la sua terrificante e mostruosa convinzione i bambini erano gli unici ancora non totalmente contaminati dal sistema che si voleva annientare, e perciò gli unici a poter aderire totalmente e spontaneamente al nuovo ordine, senza dubbi né domande, con una completa e piena confluenza di azione, pensiero, credenza.

    Per conseguire tale stato, l’immaginario assume un ruolo essenziale, perché si tratta di agire in «anticipo assoluto»: l’immaginario è l’orizzonte all’interno del quale il pensiero pensa se stesso, l’orizzonte nel quale il desiderio si esprime «spontaneamente» e prima del mio stesso Io morale. Sì, perché la dimensione morale, che necessita della libertà come fondamento, si spalanca solo nel dubbio, nell’interrogativo vertiginoso che si pone dinanzi a ciò che viene ritenuto bene e ciò che viene ritenuto male. È ovvio che anche dopo lo spalancamento del dubbio si possa continuare a obbedire, ma si tratta dello stato germinale della possibile sovversione dell’ordine. Il giudizio sull’ordine, anche quando positivo e di accettazione indiscriminata, è già l’origine del dubbio, così come per Severino la fede autocosciente è già da subito mancanza di fede. La fede totale e assoluta non è autentica fede ma adesione irriflessa allo Zeitgeist; aver fede, paradossalmente, significa anche non averne abbastanza. Afferma Severino:

    Ma può esistere la fede? Questa domanda va intesa alla lettera: non chiede se la fede possa avere ad esempio, valore, ma chiede proprio se possa esistere l’atteggiamento che vien chiamato ‘fede’, ossia l’atteggiamento di colui che – così si esprime Gesù nel Vangelo di Marco – ‘non ha alcun dubbio nel suo cuore’. […] Eppure, anche se tu sei Pietro, anche se tu sei il più umile e il più semplice dei fedeli, ti illudi. Ti illudi di credere. Tu non hai, non puoi avere la fede che Gesù esige da te. […] La fede è infatti una lotta continua contro il dubbio. Se questa lotta è assente, non c’è fede, ma abitudine. La vera fede è quella che vince il dubbio, e quindi ha a che fare costantemente con esso. [4]

    Secondo questa prospettiva, il principio del potere è di tipo trascendentale: niente di concreto e reale, per quanto concreti e reali siano i mass-media, i raduni e le celebrazioni di piazza. Ma dinanzi a questi fenomeni resta irrisolta la domanda che ci accompagna: è sufficiente rispondere alla domanda «perché obbediamo?» facendo riferimento alla televisione, alla stampa ecc.? Restiamo comunque lontani dal nostro focus e dalla nostra proposta: in tutti questi casi l’approccio teoretico sembra essere di tipo fenomenologico. Il risalimento speculativo all’origine del potere sembra infatti analogo al processo di conseguimento del principio trascendentale ( epoché), ovvero un percorso «verticale» sganciato dalle contingenze concrete dell’esperienza. Il principio trascendentale del potere è subliminale, nascosto, occulto, e va decriptato, interpretato, criticato e scoperto. Altra possibile soluzione è declinare il tema in termini squisitamente politici: quando la maggioranza riscontra un miglioramento del proprio stato, dettato da ciò che esso riconosce in quanto soddisfacimento o «felicità», allora esso è portato ad accettare le condizioni dettate dall’alto. Cosa è però la felicità? Torniamo ancora una volta all’immaginario che è capace di ridefinire tale principio manovrandolo con sapienza. Tuttavia, potremmo parlare di analisi di ordine pragmatista, in questo caso: come agisce il potere? E perché gli obbediamo? Il potere concede alla massa dei cittadini una condizione soddisfacente di vita, e meno viene nutrito lo spirito del dubbio più l’ordine vigente reitera la sua forza. Si tratta da questo punto di vista della trasfigurazione dalla violenza «agita», corporale, fisica, a una violenza più sofisticata, perché non fa sanguinare ma agisce sul piano simbolico: una violenza «morbida» ma assai più efficace.

    Ma il piano di analisi che propone questo saggio è un altro ancora, oltre – o forse al di qua – del piano trascendentale e del piano pragmatico, senza la pretesa di negare (sarebbe delirante) la centralità di questi stessi piani. La nostra proposta parte dal circuito della violenza: siamo sicuri che la trasfigurazione (simbolica, estetica, linguistica, psicologica…) della violenza abbia la possibilità di attuarsi radicalmente fino a eliminare totalmente il suo stesso concetto? Si tratta, abbiamo ammesso, di un’intenzionalità asintotica: ma sono esistiti casi, nella storia della civiltà, di un pieno acquietamento delle coscienze, che ha condotto alla negazione della violenza reale? Poniamo l’interrogativo in altri termini: il potere è stato mai in grado di fare totalmente a meno del controllo concreto delle forze «armate» e delle forze di polizia, e perciò stesso dei tribunali e dei codici legislativi che di fatto hanno valore ed efficacia a partire dalle armi? A questo punto, si apre lo spazio della dimensione «empirica» e «analitica»: empiricamente, il principio di ragione ci dice che si obbedisce alla legge per paura della sanzione amministrativa. La paura è l’altra faccia però dell’immaginario, e restiamo ancora lontani dalla svolta radicale sul tema. L’empirismo perciò rileva che il potere si ottiene e si preserva grazie alla forza. Il passaggio ulteriore è di tipo «analitico»: la tradizione della filosofia analitica ha ottenuto storicamente particolare rilevanza nell’ambito della logica e dell’estetica, e forse in quello della morale, ma sicuramente la filosofia analitica ha sempre avuto poco da dire a proposito di politica. Forse perché la politica è tacciata dagli analitici da subito come «metafisica», proprio per le ragioni che abbiamo descritto fino a questo punto. Ma chiediamo allora a un analitico: perché esiste il potere? O, ancora meglio, perché tu obbedisci a certe cose e non ad altre? Perché riconosci l’autorità, ammettendo che non riconoscere l’autorità significa trarsi fuori dal consorzio umano determinato dal contesto nel quale si vive?

    Il filosofo analitico potrà dire che i simboli, i riti, le immagini, il linguaggio sono a fondamento dell’obbedienza e perciò del potere, ma questo lo sostengono «egregiamente» già i sociologi, i fenomenologi, gli empiristi persino. Il filosofo analitico ama la radicalità del pensiero, ed è questa radicalità che può essere utile, anche quando si rifiutano i bizantinismi sofistici delle argomentazioni analitiche. Non è vero che la forza agita è secondaria rispetto all’immaginario, è vero bensì il contrario: immaginario, simbolismo, ritualità hanno senso solo col sostegno di un esercito che convalidi l’istituzione. Una massa non si rivolterà contro il potere e i suoi simboli se non armata, e a sua volta alimentata da un’altra serie (avversa alla prima) di simboli e immagini, ma comunque armata (armata anche della non-violenza, sia chiaro). È per questo che risalire al principio analitico significa flirtare con l’antropologia: cos’è infatti l’esercito? I militari fanno giuramento di servire le istituzioni, ma non è un caso che le rivoluzioni e il sovvertimento degli ordini costituiti partano sempre da organi militari che violano il giuramento, rinunciando all’obbedienza per un capo e volgendo invece le loro armi a favore di qualcun altro. Perché a fare un esercito non sono solo «uomini», ma «uomini armati che sanno usare le loro armi»: come per i mezzi di produzione della filosofia marxiana, eccolo il nucleo autentico del potere, ovvero le armi. Chi detiene le armi? Chi le sa usare? E come si pone l’equilibrio tra forze armate opposte, quando esistono?

    Avere un’arma più potente, o avere il monopolio della sua capacità d’uso, significa ottenere una posizione di forza; avere una posizione di forza significa da subito mettere a repentaglio il riconoscimento dell’autorità dominante. È a questo punto, ma solo a questo punto, allora, che la trasfigurazione diventa simbolica e ci si affida al pensiero, alle idee, alle narrazioni e al desiderio. Così, circolarmente, il possesso delle armi diventa il principio analitico che regola i rapporti di forza, l’immaginario è l’elemento intermedio che anima lo spirito del «nuovo esercito» avversario, che poi torna nuovamente all’atto violento nell’insurrezione armata.

    L’«invenzione», o sarebbe meglio dire la «scoperta», della clava, ovvero di un bastone o di un osso come strumento di attacco o di difesa – messo in luce nella celeberrima ellissi temporale di Stanley Kubrick in 2001. Odissea nello spazio, dove la nascita dell’umano e della coscienza umana determinate dall’intervento dell’intelligenza aliena si esprime proprio nell’azione violenta e irosa dell’australopiteco che inveisce sulle ossa in maniera furente – assieme all’«amigdala» (pietra di forma appuntita ottenuta attraverso l’urto con un’altra pietra che scaglia la prima), anticipano di gran lunga la nascita dell’organizzazione politica nonché la nascita delle immagini parietali che segnano il sorgere della sensibilità artistica (disinteressata e defunzionalizzata rispetto alla creazione di strumenti legati a un principio di uso specifico, come appunto le armi). Quell’animale manchevole e condannato all’incompiutezza che è l’uomo, privo delle protezioni e degli strumenti di difesa di cui dispongono in particolar modo i predatori (artigli e fauci), secondo Arnold Gehlen sopperisce in maniera mai definitiva a tale mancanza strutturale, provando l’esigenza di amplificare tale funzione tecnico-creativa fino a proporzioni distruttive incalcolabili [5] . La millenaria storia dell’antropologia umana, con le connessioni tra lo sviluppo della tecnica e il progresso, non potrebbe in alcun modo escludere un’attenzione specifica all’evoluzione delle armi, fino ad arrivare alla sproporzione infernale tra i mezzi di distruzione di massa e le stesse facoltà cognitive ed etiche dell’uomo [6] . D’altronde, tale sproporzione non è specifica esclusivamente all’epoca moderna, e neppure all’invenzione delle armi in genere, ma riguarda in senso più ampio l’intero orizzonte di creazione di media da sempre: se i media, ovvero i mezzi, sono protesi dell’uomo, estensioni delle sue facoltà e dei suoi organi originari, da un lato tutti i media sorgono sotto il segno della sproporzione processuale dettata dall’indeterminato e continuo rilancio dell’u­mano ridefinito eternamente dalle sue invenzioni tecniche; dall’al­tro lato, l’uomo si dimostra sempre arretrato rispetto alle sue invenzioni ed estensioni tecniche, anche perché tutte le tecnologie create dall’uomo possono venire interpretate come «armi». Il nevrotico protagonista di Taxi Driver di Martin Scorsese, Travis, reduce del Vietnam e totalmente scollegato dalla realtà, tenta inizialmente di investire il suo potenziale emotivo sull’esperienza amorosa, ma fallita questa tutto il suo carico distruttivo e il suo rancore si proiettano su

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