Matello
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Matello - Letizia Tomasino
Aleardo
È una calda giornata di luglio. Stanotte non sono riuscito a dormire: l’afa opprimente e le zanzare mi hanno tenuto sveglio fino alle prime ore del mattino. Ogni tanto mi alzavo dal letto e andavo a prendere, si fa per dire, una boccata d’aria. Palermo è una città veramente invivibile d’estate, a meno che non si possegga un condizionatore.
Mi sento stanco. Qualche mese fa ho compiuto sessantaquattro anni e li dimostro tutti: un poco malfermo sulle gambe, la testa quasi pelata, la pancia prominente, la mano tremolante, tanto che non riesco più a fare pipì senza bagnarmi. Insomma, si può dire che sto invecchiando bene...
Il rumore della strada e degli abbanniatori mattutini copre la voce di Teresa, mia moglie, che mi invita a chiudere la finestra. Lei sostiene che entra solo caldo e ha ragione, ma non posso fare a meno di guardare il mare che abbiamo a due passi, nonostante non si possa né fare il bagno né passeggiare sul lungomare perché impraticabile.
Teresa è una donna ancora piacente e giurerei che abbia degli spasimanti. Da quando ha scoperto Facebook, sta sempre lì a chattare con le amiche, dice lei, ma io sospetto che siano dei corteggiatori. Ha quattordici anni meno di me e frequenta una palestra per tenersi in forma. È bella, di quelle bellezze che sembra non sfioriscano col passare degli anni, ma a un attento esame si nota qualche piccola ruga sotto gli occhi, il collo leggermente raggrinzito e nonostante si cimenti con pesi, flessioni e ginnastica, ha la pelle un po’ flaccida e non più tonica come una diciottenne. Questi difetti la riportano sulla terra, però gli uomini si girano ancora per ammirarla, e lei non ha perso l’abitudine di sculettare.
La città dorme ancora, soltanto l’edicola della piazzetta sta aprendo. Il vecchio proprietario fa fatica a tirare su la saracinesca che stride in modo pauroso; ogni tanto passava un signore che in cambio di qualche spicciolo la oliava, ma è da un po’ che non lo vedo, sarà andato in pensione e ormai quello è un mestiere in estinzione.
Un furgone si è appena fermato. L’autista scende dal mezzo, scarica un pacco di giornali, salutando appena, e quindi scompare inghiottito dalla strada. Il bar è ancora chiuso. Strano, di solito apre prima dell’edicolante. Chissà cosa sarà successo… Qualcuno guarda sconsolato l’insegna spenta: per oggi dovrà rinunciare al caffè del mitico Beppe, interista sfegatato.
Mi affaccio alla finestra: proprio sotto di me si è fermato un ragazzo che aspetta il suo primo cliente eroinomane. Mi viene voglia di sputargli sulla testa per vedere la sua reazione, ma per fortuna Teresa arriva nella stanza e senza dirmi niente chiude la finestra, quasi a evitarmi l’insano gesto. Ha paura dello spacciatore. Qui tutti sanno e vedono il commercio illegale che si svolge in questa zona della città, ma stanno zitti; ogni tanto una retata della polizia fa pulizia, ma dopo un po’ ritornano a spacciare e a bucarsi davanti a tutti.
Da qualche giorno la città si è vestita a festa per omaggiare Santa Rosalia, la patrona di Palermo, e noi come sempre andremo a mischiarci con la folla di gente che segue il carro.
Oggi il ragazzino del semaforo non c’è. Passa lì le sue giornate parlando con gli automobilisti che si fermano per il rosso. Deve avere otto, al massimo dieci anni, capelli ricci, un colorito bruno, due grandi occhi scuri. Indossa sempre un giubbotto nero e calzoni di velluto, di due taglie più grandi. Una volta gli ho chiesto perché si vestisse così anche in estate e lui mi ha risposto che quello è l’unico modo per non perdere i vestiti a cui tiene tanto. Ha l’aria di uno spaventapasseri, ma quello spaventato è solo lui, la vergogna negli occhi, la mano che quasi dimentica di tendere. In questo modo aiuta la sua famiglia a tirare avanti.
Quando la mattina mi alzo, il ragazzino è già sul posto di lavoro e non se ne va prima dell’imbrunire. All’ora di pranzo tira fuori dalla tasca un piccolo involucro di carta contenente un panino, dà alcuni morsi e dopo lo ripone nel sacchetto.
E poi c’è un uomo col suo cane. È un vecchio barbone, non è italiano ma parla benissimo non solo la nostra lingua, ma anche l’inglese, il francese, il tedesco e il russo. Non mi ha mai voluto dire la sua provenienza, in compenso si scola quasi un litro di vino al giorno. Per dormire, ha trovato una casupola abbandonata in riva al mare, non molto distante. Lì ha sistemato con cura dei cartoni e ha nascosto il suo guardaroba: due grossi sacchetti di plastica.
Da quando è arrivato, alcuni ragazzini ‒ avranno all’incirca tredici anni ‒ lo prendono in giro, ma lui li lascia sbattere; ne avrà viste di tutti i colori durante la sua vita da girovago. Se non fossi così stanco, andrei giù a insegnare loro l’educazione e le buone maniere.
Mi affaccio alla finestra, fa veramente caldo. Mosso da pietà, gli faccio cenno di salire, lui col dito mi indica il cane. Giusto, non può lasciarlo solo; allora gli faccio segno di salire entrambi, tanto Teresa è uscita per delle commissioni.
Da principio sembra non intendermi, o forse non ha voglia della mia compagnia, ma non passano nemmeno due minuti che sento bussare alla porta. Chiede timidamente se può mettersi in libertà, non ho nulla in contrario, e allora si toglie il mantello nero che indossa da quando è arrivato nel quartiere. Avrà circa la mia età. Il cane educato si accuccia al suo fianco. Chiedo al mio ospite se vuole qualcosa da mangiare, ma mi fa cenno di no con la testa. Gli preparo comunque un caffè e gli offro dei pasticcini, ma forse avrei fatto meglio a servirgli un buon bicchiere di vino. Ci guardiamo e a un tratto comincia a raccontarmi la storia della sua vita.
Si chiama Ermes e insieme al padre era stato proprietario di una profumeria in Francia, passando tutta la sua vita tra creme, profumi e donne noiose, e forse questo l’aveva reso un poco effeminato o forse aveva solo ingentilito le sue movenze. Fin da piccolo aveva aiutato il padre, soffrendo per il distacco dai suoi compagni e dai loro giochi, ma il vecchio su questo era stato irremovibile: quel lavoro era difficile da imparare e se si voleva farlo bene, bisognava iniziare da bambini.
Quelle quattro mura e quella vetrina da dove poteva vedere gli altri bambini divertirsi, ad esempio correndo dentro a una pozzanghera, divennero il suo mondo, e le sue favole non furono Il gatto con gli stivali, Cenerentola o Pollicino, ma le tasse da pagare, le tratte in scadenza e le commesse da guardare con occhio vigile.
Alla morte della madre, il padre si risposò che aveva quasi cinquant’anni con una commessa del negozio. Non fu amore, ma solo interesse. E poi quella donna, dal carattere autoritario, troppo alta e magra, vestita sempre allo stesso modo e con chili di trucco sul viso, attraeva molti uomini. Il padre volle quel matrimonio a tutti i costi, per salvaguardare la bottega.
Io non sono di ferro, e tu da solo non ce la puoi fare. Ci vuole una donna con l’occhio del padrone e che ti faccia da madre!
gli disse un giorno.
Ora il silenzio regna nella stanza. Mi alzo di scatto per cercare del vino, lo trovo e gliene verso un bicchiere. Lui sembra apprezzarlo molto e lo trangugia tutto d’un fiato, mentre penso che il padre sia stato molto sleale nei suoi confronti, ma non rivelo a