La strada si conquista: Donne, biciclette e rivoluzioni
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La strada si conquista - Manuela Mellini
bici.
Gli inizi
Io sono libera, e la mia bicicletta
mi aiuta a esserlo ancora di più.
Vernon Lee (Violet Paget)
La bicicletta, come oggi la conosciamo, è un prodotto tecnologico nato alla fine dell’Ottocento, dopo decenni di sperimentazioni e tentativi più o meno azzeccati. Un primo rudimentale modello, detto celerifero, appare in Francia attorno al 1790. Consiste in un telaio di legno, con le ruote ma senza pedali, che si muove, e si ferma, solo grazie alla forza delle gambe di chi lo guida. L’invenzione viene perfezionata anni dopo dal tedesco Karl Drais, che vi aggiunge un tassello fondamentale: lo sterzo alla ruota anteriore, grazie al quale i primi ciclisti possono cambiare direzione senza bisogno di scendere dal mezzo. La draisina, così chiamata in onore del suo inventore, viene presentata ufficialmente nel 1817 ed è considerata la prima vera bicicletta della storia.
Il passo successivo è l’inserimento dei pedali, fissati inizialmente al mozzo della ruota anteriore, secondo il progetto del francese Ernest Michaux. La sua michaudina, nata nel 1855, apre la strada al velocipede, il biciclo di metallo con la ruota anteriore molto più grande di quella posteriore, che richiede agli utilizzatori doti a dir poco acrobatiche non solo per manovrarlo, specie sulle strade sterrate di allora, ma anche già per salire e scendere dalla sella. Il triciclo, ideato poco dopo nella speranza di assicurare al ciclista una maggiore stabilità, non ha particolare successo: le tre ruote richiedono una struttura talmente pesante e ingombrante da risultare poco maneggevole. Finché, a metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, in Inghilterra viene inventato e messo in commercio un nuovo modello, la safety bike, con trasmissione a catena e con le ruote pressoché uguali fra loro, sufficientemente basse da permettere al guidatore di appoggiare i piedi per terra in caso di necessità. E questa è la svolta più importante: nella sua versione di sicurezza
, la bicicletta conquista l’Europa.
La questione del nome
Spaccaossa
, macchina
, cavallo di legno
, velociclo
: i termini usati per indicare il nuovo mezzo di trasporto sono molti, e cambiano di continuo. Il celerifero della fine del Settecento lascia il campo alla draisina; la michaudina è presto soppiantata dal biciclo. La sua versione ridotta, la safety bike, viene inizialmente chiamata con i suoi diminutivi, maschile e femminile: per diversi anni in Italia si usa sia bicicletta
, sia bicicletto
. La variante femminile è quella che infine si afferma, probabilmente per due ragioni: l’influenza del termine francese "la bicyclette (la produzione d’Oltralpe era un punto di riferimento per la nascente industria italiana) e una certa malizia da parte dei suoi primi utilizzatori, quasi tutti uomini, che la immaginavano donna in quanto oggetto del loro desiderio. Una poesia firmata
Argo" e pubblicata sul numero 43 della rivista Il Ciclo, 19-20 maggio 1894, lo spiega in maniera esplicita:
«Per me lo dico a tutti, io la considero
la sposa mia, l’amante prediletta,
ed è per questo che chiamar desidero
il bicicletto ancora bicicletta.
[...] Per le signore sia la desinenza
ed il genere sia sempre maschile
ma resti a noi però di conseguenza
il piacere di montare il femminile».
Seguono poi alcune fondamentali migliorie: nel 1889 John Boyd Dunlop inventa gli pneumatici; nel 1891, grazie a Édouard Michelin, appaiono le camere d’aria; nel 1897 nasce il meccanismo a ruota libera; una trentina di anni più tardi vengono montati i primi rudimentali cambi. Nel corso del tempo i materiali sono cambiati e la tecnica si è affinata, le componenti si sono fatte più sofisticate e la sicurezza è aumentata: ma, nella sostanza, la bici non ha subito particolari stravolgimenti da centotrent’anni a questa parte.
La cosa curiosa è che questo non riguarda solo il suo aspetto, ma anche e soprattutto la sua natura di veicolo democratico, sostenibile ed efficiente: il perfetto alleato per chiunque cerchi di affrancarsi da un potere troppo invadente per muoversi in autonomia, affermando la propria presenza nel tessuto urbano o colmando le distanze tipiche degli spazi rurali. I suoi detrattori, ora come allora, condannano soprattutto l’anarchia insita nella bicicletta, il suo sfuggire a ogni definizione, a ogni ordine prestabilito. Grazie alle due ruote, chi pedala ha l’opportunità di tratteggiare la via della propria emancipazione. Ed è anche per questo che, a più riprese, la bicicletta viene ferocemente osteggiata.
In effetti, i primi tempi, i pedalatori hanno vita dura. Innanzitutto, i nuovi mezzi non sono sempre facili da governare, anche perché ancora non esistono ciclisti provetti, e quindi gli incidenti sono all’ordine del giorno. In molte città le bici sono bandite in quanto elementi di disturbo alla quiete pubblica, oppure il loro utilizzo è contingentato. In ogni caso, è prevista una tassa di possesso e circolazione che viene abolita solo nel 1938. E nelle campagne la situazione non è migliore: quei veicoli sferraglianti di metallo, in grado di muoversi a grande velocità, non si sono mai visti prima, e spesso fanno un’impressione tutt’altro che buona. In molti li interpretano come strumenti del demonio e reagiscono di conseguenza, ossia lanciando sul povero ciclista di turno tutto ciò che capita a portata di mano, dalle pietre ai pezzi di legno ai torsoli di cavolo.
I primi temerari che si avventurano sulle due ruote devono inoltre difendersi dagli scherzi dei ragazzi, che trovano molto divertente seminare ostacoli sulla strada o elargire qualche spinta per far loro perdere l’equilibrio, e dalla violenza deliberata degli adulti contrari all’utilizzo della bicicletta. Pericolosi sono anche i cani randagi che rincorrono i ciclisti e, quando possibile, azzannano volentieri le loro caviglie. La situazione è grave al punto che, nelle riviste specializzate, sul finire dell’Ottocento compaiono inviti a munirsi di rivoltella, o almeno di frustino, prima di salire in sella.
Ciononostante, il nuovo mezzo conquista schiere di appassionati, e continua a far discutere. La bici accende un grande dibattito in Italia, all’interno del quale, prima di tutto, si cerca di accertarne la moralità, da molti messa in dubbio. L’antropologo Cesare Lombroso intravede immediatamente un chiaro rapporto fra biciclette e criminalità: i ciclisti, a suo parere, sarebbero naturalmente portati a delinquere sia per la rapidità di fuga che il mezzo consente, sia perché gli individui attratti dal mito della velocità, ma non sufficientemente bravi per competere nelle gare ufficiali, né abbastanza ricchi da potersi permettere una bici prestante, sublimerebbero questi desideri nel reato.
Ma il concetto di criminalità è strettamente legato al concetto di giustizia e dipendono entrambi dal potere. Ciò che è considerato giusto in alcuni momenti storici può non esserlo in altri, se cambia il modo di intendere la legalità. E così nel maggio del 1898, quando ormai le bici sono state sdoganate per lo meno nell’Italia settentrionale, il generale Bava Beccaris ritiene che sia meglio vietarle nei giorni dei Moti di Milano, per evitare che socialisti, anarchici e sindacalisti possano usarle per coordinare i loro movimenti e sfuggire alla sua feroce repressione. Lo stesso accade dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando il governo fascista dell’Italia settentrionale ne impedisce la circolazione nelle città in seguito a una serie di riusciti attentati messi a segno da partigiani sulle due ruote.
Non è solo la presunta amoralità della bicicletta a renderla poco gradita ai più: c’è anche una questione, per così dire, di decoro. Particolarmente malvista è la posizione che si tiene quando si pedala, con le gambe leggermente divaricate e il busto piegato in avanti: una posa ritenuta ridicola e poco rispettabile; da evitare a tutti i costi. La bicicletta viene in più occasioni vietata ai militari perché, in caso di cadute o tentennamenti, rischierebbero di compromettere la propria credibilità e quindi di infangare la divisa che hanno l’onore di indossare. Per lo stesso motivo, viene proibita ai preti – i quali, peraltro, devono comunque sopportare l’impaccio della tonaca lunga fino ai piedi.
Almeno i primi tempi, gli oppositori della bicicletta sono di molto superiori ai suoi promotori, in ogni ambito della società. Quindi, all’inizio, è difficile per i ciclisti riuscire a garantirsi quel minimo di libertà che consenta loro di muoversi in sicurezza sul nuovo mezzo. E questo è vero per tutti, ma per le donne di più.
«Un utero circondato da altri organi»
Nonostante la diffusa ostilità, l’amore per la bicicletta dilaga, conquistando schiere di appassionati ma anche di appassionate. E, in questo secondo caso, i problemi si moltiplicano. Già l’uomo in bicicletta non è particolarmente gradito; la donna, neanche a parlarne. È uno scandalo, un’abiezione, una «stonatura umana». La donna in bicicletta è un pericolo, per se stessa e per gli altri.
È difficile oggi immaginare il clamore suscitato, sul finire dell’Ottocento, dal dibattito fra i pochi sostenitori del ciclismo al femminile e i suoi molti detrattori (di entrambi i sessi: ci sono anche uomini favorevoli e donne contrarie). Se ne parla ovunque: sui giornali, in strada, in chiesa, nei palazzi della politica. Potrebbe quasi sembrare un accanimento eccessivo, nato su una questione di principio, ma in realtà l’utilizzo femminile delle due ruote sottintende un cambiamento rivoluzionario all’interno della società. Ed è di questo che ora come allora si discute, quando si parla di donne e biciclette.
Coloro che si dichiarano contrari adducono ragioni riconducibili a tre diversi ambiti: salute, costume e moralità. In tutta Europa si levano grida d’allarme da parte di dottori e accademici pronti a giurare che l’uso della bici avrebbe effetti nefasti sul corpo femminile. I rischi sarebbero molteplici, e tremendi: le cicliste possono incorrere in sincopi, svenimenti, palpitazioni irregolari, preoccupanti perdite di peso. La concentrazione necessaria alla guida provoca pericolosi intorpidimenti cerebrali. Danni alle articolazioni e alla spina dorsale, così come al cuore e ai polmoni, sono da mettere in conto. I luminari più pessimisti prevedono inoltre malattie infettive, tisi e «parecchie morti improvvise».
Ma tutto questo non è nulla rispetto alla minaccia più terrificante. Andando in bici, sostengono ancora certi dottori, le donne comprometterebbero irrimediabilmente il proprio apparato genitale, con il rischio di non poter adempiere alla missione per cui Dio le ha create: procreare. Apriti cielo. Che cos’è la donna se non, per usare le parole del dottor Tissiè, medico francese del XIX secolo, «un utero circondato da altri organi»? Rapidamente si diffondono una serie di notizie sempre più inquietanti: le donne che tengono alla loro salute, e alla continuazione della specie, devono assolutamente evitare di salire in bici nei giorni del ciclo mestruale, e anche dopo aver avuto un rapporto sessuale. L’impatto sul sellino, insieme alla flessione delle cosce verso il bacino, potrebbe causare disfunzioni all’apparato riproduttivo, aborti, sterilità.
La colpa sarebbe da imputare alla posizione che si assume pedalando. Già mal tollerata per gli uomini, è considerata non solo scandalosa, ma anche deleteria per le donne. Neppure le cavallerizze osano sedersi a quel modo: montano a cavallo su una sella speciale, che consente loro di tenere entrambe le gambe sulla sinistra e cavalcare all’amazzone. Negli anni Settanta dell’Ottocento sono stati fatti tentativi analoghi per costruire bicicli con un sellino laterale e un unico pedale a tavoletta, simile a quello delle macchine da cucire: così facendo, le signore hanno il doppio vantaggio di tenere le gambe chiuse e ben coperte. L’inconveniente più eclatante è che, per i comuni mortali, sopravvivere a una pedalata su quelle improbabili impalcature è pressoché impossibile: i bicicli per signora terrorizzano anche i ciclisti provetti. L’invenzione non ha particolare successo; il dibattito continua a