Autocrisi 3: Autocrisi 3
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Fantascienza - romanzo (140 pagine) - La guerra per il controllo del mercato dell’auto automatica è iniziata. Ma se le intelligenze artificiali guidano meglio degli esseri umani, perché limitarsi alle auto?
Dopo cinquant'anni Pierfrancesco Prosperi riprende in mano vicende e personaggi del suo grande classico Autocrisi, vincitore del Premio Europa. Il tema è quanto mai attuale: la guerra commerciale per il controllo della prossima grande rivoluzione, l'automobile a guida automatica. Si scontrano due filosofie apparentemente opposte: l'auto a guida autonoma, controllata da un'intelligenza artificiale, e la strada intelligente, che prende il controllo di tutti i veicoli gestendone il traffico. Dietro alle due filosofie ci sono due multinazionali della tecnologie che si sfidano senza esclusione di colpi. Ma c'è anche chi ha idee diverse, e vuole combattere con ogni mezzo per arrivare a un futuro in cui l'automobile venga sostituita da un sistema di trasporto più rispettoso dell'ambiente.
Pier Francesco Prosperi (Arezzo 1945) è uno dei più affermati scrittori italiani di fantascienza, ucronia e fumetti. Dopo aver esordito nel 1960 su Oltre il cielo ha pubblicato oltre 150 racconti, usciti su tutte le principali testate e in varie antologie (tra le ultime anche Rapporti dal domani e Il ritorno dei grandi antichi, Delos Digital) e una quarantina di romanzi. Nel fumetto ha scritto per Intripido, Il monello, Lanciostory, Topolino, Martin Mystère, Diabolik. Ha vinto il Premio Italia e il Premio Europa nel 1972, nella prima edizione dell'Italcon e Eurocon a Trieste, e ha rivinto il Premio Italia nel 1994 col romanzo Garibaldi a Gettysburg. Ha vinto inoltre Il premio Città di Montepulciano, il Premio Cosmo, il Premio Ungaretti, il Premio San Marco (tre volte) e il Premio Giallocarta.
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Autocrisi 3 - Pierfrancesco Prosperi
9788825414882
In una bella giornata del settembre 1899, il signor H.H. Bliss smontò da un tram di New York e, mentre aiutava cavallerescamente una signora a scendere, fu investito da una vettura senza cavalli che lo lasciò a terra morto: questo è il primo incidente automobilistico di cui abbiamo notizia.
Ralph Nader, L’auto che uccide, Bompiani 1967
Martedi 19 marzo una donna di 49 anni, Elaine Herzberg, è stata uccisa a Tempe, in Arizona, da un’auto Uber condotta da un pilota automatico. La donna stava attraversando la strada fuori dalle strisce pedonali, spingendo a mano una bicicletta, in una zona poco illuminata. È il primo pedone vittima di un’auto senza guidatore.
A bordo della Volvo XC90 c’era un collaudatore che non è stato in grado, forse perchè addormentato o distratto, di intervenire in tempo per impedire l’investimento. La Uber ha comunicato di aver sospeso tutti i test in corso…
Dai quotidiani del 20 marzo 2018
Perché Autocrisi³
Perché Autocrisi³?
Dopo Autocrisi (1971) c’è stato un seguito ideale, in realtà un’opera completamente autonoma, Autocrisi 2020, una storia in cui il prepotente sviluppo automobilistico che ha condizionato per tutto il XX secolo le trasformazioni urbanistiche delle città ma anche grandi settori dell’economia, creando nel pubblico una mentalità del tutto subordinata allo strapotere del mezzo privato, veniva spiegato – e non era facile – come il prodotto di una invisibile e strisciante invasione aliena, operata da automobili senzienti in arrivo da un mondo lontano. Che piano piano ci hanno reso schiavi spingendoci ad asfaltare mezzo pianeta e a collegare ogni località ad ogni altra attraverso autostrade, tangenziali, viadotti, gallerie, ponti, tunnel sottomarini. Questo secondo romanzo è stato pubblicato nel 1998 assieme al primo Autocrisi in un unico volume, in cui ad Autocrisi – Le cronache americane faceva seguito questo nuovo incubo, chiamato Autocrisi 2020 – Le cronache europee.
Autocrisi ³ si rifà, invece, direttamente al primo romanzo. Ne costituisce un seguito reale, ovvero riprende due dei personaggi principali – David Landis e Mike Springer – a vent’anni dagli avvenimenti narrati in Autocrisi. Solo che l’operazione, eseguita a cinquant’anni tondi dalla stesura del primo volume, comporta di necessità un deciso sfalsamento temporale. Mi spiego: quella descritta in Autocrisi era la Terra del 1992-93. Vista però dai primi anni Settanta. Il futuro di allora. Ed era una Terra in cui era stato messo a punto il volo interplanetario e si avevano normali rapporti commerciali con un lontanissimo pianeta appena scoperto, Dakopi. Mica bruscolini, insomma. Ovviamente niente di tutto questo si è verificato, non solo nel 1992 ma neppure oggi, più o meno come il futuro immaginato dalla premiata ditta Clarke & Kubrick in 2001: A Space Odissey nel 1968, con basi lunari permanenti ed enormi stazioni spaziali a forma di ruota in orbita attorno alla Terra, non si è realizzato non solo nel 2001, ma nemmeno in questi primi vent’anni del nuovo secolo.
È quindi una Terra parallela questa descritta in Autocrisi³ e situata in un imprecisato anno 20… Una Terra molto simile alla nostra, con un passato e un presente molto simili ai nostri, ma in cui continua a svilupparsi l’improbabile futuro fatto di voli stellari e di commerci interplanetari, delineato nel primo romanzo.
Si tratta, comunque, per i motivi appena detti, di un ‘terzo’ Autocrisi. E il titolo, con quel 3 messo in piccolo ad apice, vuole simboleggiare un’altra cosa: l’estrema accentuazione del fenomeno automobilistico. Autocrisi al cubo, insomma, un po’ come Alien³, terzo film della serie Alien, veniva presentato anche come Alien cube.
Adesso facciamo un passo indietro, torniamo a quella storia concepita più o meno all’epoca in Neil Armstrong posò i suoi scarponi sulla Luna. Cosa succede in Autocrisi – Le cronache americane?
Visto con gli occhi di oggi, è un romanzo di fantarcheologia. Rispetto ad Autocrisi 2020 – Le cronache europee, in cui la Terra come già accennato veniva invasa da una razza di automobili intelligenti, è una storia di invasione invertita, nel senso che è la Terra, per una volta, a invadere un altro pianeta – Dakopi, un lontanissimo mondo abitato da esseri del tutto simili a noi – con i propri prodotti commerciali, in primis le automobili, un prodotto finora quasi sconosciuto su quel mondo.
I Dakopiani da parte loro hanno molto da offrire agli umani; alcuni minerali di uso industriale, la cui rarità sulla Terra ne ha portato il prezzo alle stelle, e soprattutto il denilio, l’elemento transuranico scoperto pochi anni prima, che costituisce la base del funzionamento dei motori Denil-Karlson, i propulsori iperspaziali che annullano virtualmente le distanze fra stella e stella. Motori che hanno reso possibile lo sviluppo del commercio interstellare, data l’infinitesima quantità di propellente necessaria rispetto alla massa da trasportare, in un rapporto carburante-carico al quale i vecchi motori atomici e sub-atomici non avrebbero mai potuto sperare di avvicinarsi.
Grazie ai frenetici scambi derivati dai primi accordi commerciali, e grazie alla rete di superautostrade messa su con l’aiuto dei tecnici terrestri, Dakopi, rimasto fino allora come un Eden senza peccato originale, fa la conoscenza nell’arco di pochi anni con tutti i mali della civiltà automobilistica, dall’inquinamento agli incidenti mortali, dalla cementificazione di tanti luoghi incontaminati alla congestione delle metropoli.
Parallelamente, sulla Terra nasce e si sviluppa un forte movimento di resistenza allo sviluppo dell’auto, un movimento ecologista diretto da un intellettuale radicale ma non fanatico, che vuole convincere i governi a privilegiare altri mezzi di trasporto rispetto all’auto privata, e in subordine a rendere l’auto assolutamente sicura.
Anche su Dakopi nasce una forte reazione allo sviluppo distorto dell’automobile. I due movimenti si fondono e si alleano, e dopo che si è sfiorato un conflitto armato fra i due pianeti si arriva a un accordo, per cui d’ora in poi sia sulla Terra che su Dakopi i trasporti si svolgeranno fondamentalmente su autostrade automatiche computerizzate in grado di impedire quasi del tutto gli incidenti. È un lieto fine, se i terrestri saranno in grado di rispettare l’accordo…
David Landis, il protagonista del romanzo, è un giovane manager di una delle due grandi sigle automobilistiche che si dividono i clienti americani e di buona parte del mondo: la ChrysFord, fusione di Ford e Chrysler in questo presente alternativo (concepito all’epoca in cui il futuro creatore della Fiat-Chrysler o FCA, Sergio Marchionne, studiava filosofia all’Università di Toronto) e la GA o GenerAuto, ex General Motors. Ricattato dai propri dirigenti e obbligato a spiare i concorrenti della GenerAuto, David scopre che le grandi Case hanno messo a punto da tempo la tecnica per instaurare un efficiente sistema di strade automatiche sia sulla Terra che su Dakopi, che metterebbe fine istantaneamente alla strage degli incidenti stradali, ma che spaventate dai grossi investimenti necessari, la tengono nascosta per continuare a sfruttare gli impianti e il parco macchine attuali. A furor di popolo, e anche nella prospettiva di evitare una possibile guerra interplanetaria, i produttori automobilistici vengono obbligati a mettere subito in attuazione un sistema mondiale di guida automatica.
Qui termina Autocrisi. Sono passati vent’anni, ma i problemi di allora sono ben lungi dall’essere risolti…
1
Hannibal
È la velocità che devesi paventare nelle automobili? Non crediamo. La velocità non è menomanente pericolosa; è pericolosa invece la impossibilità di fermarsi davanti ad un ostacolo impreveduto. Con un’automobile leggera, munita di freni potenti, che, si può dire, s’arresta di colpo, non c’è pericolo anche in città a camminare con una velocità di 20 o 25 km/h – mentre con un’automobile pesante, la quale si frena più lentamente, diventa pericolosa una velocità di 15 km/h ed anche meno.
L’automobile, 15 agosto 1899
Il gigantesco semiarticolato Hannibal 4000 da 25 tonnellate – un lungo muso da animale preistorico che ai più smaliziati può ricordare il frontale pieno di targhe del camion assassino di Duel (Steven Spielberg, 1971) – impazzisce di colpo.
Divora come una furia la breve rampa che in quel punto, e solo in quel punto, collega le due metà dell’autostrada. E un attimo dopo irrompe sulla carreggiata opposta.
Mentre le auto più vicine cercano di evitarlo con manovre disperate, l’enorme veicolo pianta i freni. Col risultato che il semirimorchio impazzisce a sua volta, ruotando attorno alla ralla e disponendosi in senso trasversale rispetto alla strada.
È come una gigantesca ramazza lunga una quindicina di metri che spazza l’asfalto facendo saltare le piccole auto che schizzano in alto e di lato come birilli di un bowling. Ma che non può fare lo stesso con la grossa autocisterna carica di gpl che procede inesorabile verso la propria destinazione.
Quando i sessantamila litri di gas propano liquefatto deflagrano tra le lamiere squarciate della cisterna, l’effetto è quello di una piccola esplosione atomica. Un fungo rubescente e maligno si solleva sull’autostrada mentre rottami, vetri, schizzi di liquidi in fiamme ricadono in ogni direzione e da lontano si leva lamentosa, a sovrastare le urla dei feriti, una lugubre sinfonia di sirene.
– Scene come questa rappresentano forse un caso limite – dice la voce morbida e pastosa che scende sulla platea mentre sullo schermo le scene della carneficina autostradale iniziano lentamente a dissolversi – e magari possono sembrare la dimostrazione di due delle leggi di Murphy: Tutto ciò che può andar male lo farà. E se non può, lo farà lo stesso. Ma, al contempo, non possiamo non chiederci se una catastrofe del genere sia, al momento attuale, possibile. E la risposta non può essere che una: sì, una scena di questo tipo è possibile. Oggi. In questo preciso momento. In un punto qualsiasi dei 77.000 chilometri di autostrade degli Stati Uniti.
Uno degli spettatori tossisce a lungo prima di alzarsi. – Scusi, dottor Croydon – dice rivolto verso la voce invisibile nella penombra della sala – se ben ricordo un bel po’ di anni fa le principali Case automobilistiche americane, con la benedizione del Governo, si impegnarono solennemente, dopo i pasticci avvenuti sul pianeta Dakopi, a realizzare una rete di autostrade automatiche che coprissero l’intero territorio federale, per rendere intrinsecamente impossibili incidenti come quello di cui ci ha mostrato immagini così suggestive. Sono passati quasi vent’anni, o sbaglio?
Quando il mormorio sollevato dalla domanda si spegne, la voce suadente torna a calare sulla platea. – No, non si sbaglia per niente. Era un programma ciclopico che ha richiesto una fase di avvio particolarmente complessa, oltre che costosa. Ma il progetto è stato avviato, come tutti avrete potuto constatare negli anni scorsi trovando chiusa per lavori la vostra autostrada preferita. E le grandi Case hanno iniziato a produrre milioni di auto predisposte per la guida automatica.
– Però non è cambiato nulla – risponde lo spettatore tornando ad alzarsi. – Quando imbocco la mia autostrada preferita noto che tutto è rimasto come prima, e devo guidare manualmente come sempre per tutto il viaggio, pur se assistito dal navigatore e dal cruise control.
Una leggera esitazione. – Quando il programma è stato avviato – riprende la voce – l’informatica non aveva raggiunto lo sviluppo attuale. Tutti sarete al corrente che negli scorsi anni, grazie alle recenti ricerche sui computer oloquantici, si è avuta una improvvisa accelerazione dei sistemi di guida autonoma. La possibilità di disporre di veicoli intelligenti in grado di raggiungere qualsiasi destinazione in modo completamente automatico, senza intervento umano, ha reso improvvisamente superato qualsiasi sistema di guida servoassistita. Una sorta di rivoluzione copernicana. D’un tratto il complesso progetto che avrebbe fatto delle autostrade americane un perfetto sistema di trasporto teleassistito è apparso, per molti versi, obsoleto. Non tecnicamente ma sul piano psicologico. Mentre vi sto parlando, è in corso un gigantesco programma industriale di riconversione. Si può dire che ormai la scelta sia stata fatta.
Alcuni minuti prima.
In quello stesso hotel, dall’anello di camere poste tutto attorno al grande salone in cui si sta svolgendo la proiezione, è possibile guardare in sala non visti, da quella che dall’esterno appare come una lunga balza a specchio vicino al soffitto e che in realtà è formata da vetro unidirezionale.
Mentre sullo schermo in fondo alla sala l’Hannibal 4000 dà il meglio di sé ponendosi per traverso sull’autostrada e iniziando a spazzar via tutte le auto che incontra, Julie Croydon, 37 anni in un corpo da ventenne, se sta completamente nuda, in piedi, con le braccia in alto, appoggiata al vetro dalle mani ai gomiti, e guarda giù eccitata.
Dietro di lei c’è David Landis. Nudo anche lui, ed eccitato. Che più eccitato non si può. Le si accosta piano piano mentre Hannibal continua a far saltar via teste, braccia, gambe, pezzi di auto. Lei sente il suo desiderio appoggiarsi prepotente su di lei in fondo alla schiena, avanzando, cercando.
Allarga le gambe, ben piantate sulla moquette della camera. Le mani di David passano veloci lungo i suoi fianchi, scattano in su adunche e prensili, afferrano i seni pesanti, stringono i capezzoli protesi in avanti ed eccitati.
Si sente chiusa in una morsa, una trappola. Mentre le mani imprigionano avide le mammelle, alle sue spalle il sesso di David si fa strada. È bloccata davanti e dietro. Alza leggermente il bacino, inclinandolo all’indietro. E quello entra, prepotente. Esita un attimo, poi affonda. Come se