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Kane e Abel. La miglior vendetta
Kane e Abel. La miglior vendetta
Kane e Abel. La miglior vendetta
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Kane e Abel. La miglior vendetta

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About this ebook

Un romanzo che è diventato un classico della letteratura moderna.
The Times

Il romanzo definitivo sulla rivalità fraterna.
Dan Brown

Un narratore del calibro di Alexandre Dumas.
Washington Post

Uno dei dieci migliori romanzieri del mondo.
Los Angeles Times

Il primo grande successo di Jeffrey Archer.

Il primo titolo della Trilogia Kane e Abel.

Cos’hanno in comune Abel Rosnovski, un trovatello nato in Polonia alla vigilia delle invasioni tedesca e russa e cresciuto come un figlio da un barone, e William Kane, rampollo di una ricca famiglia di banchieri americani? Nulla, eccezion fatta per l’età. E per la perdita prematura del padre, che Abel non ha mai conosciuto e che William ha salutato prima che si imbarcasse sul Titanic nel suo viaggio inaugurale.
Solo il destino può incrociarne le strade.
William è un finanziere nato e Abel scopre di avere a sua volta un talento per gli affari che sboccerà proprio negli Stati Uniti, dove approda dopo una serie di rocambolesche avventure. Per recuperare il tempo perduto, Abel brucerà le tappe del sogno americano in uno dei momenti più complicati della sua giovane storia, quello della Grande Depressione. Sarà un beffardo gioco delle parti e del caso a spingere Abel a chiedere un finanziamento alla banca di William e a stabilire tra i due un’ambigua relazione improntata fin dal principio a diffidenza e ammirazione reciproca. Implacabili colpi di scena si susseguono in un racconto in cui nulla è quello che sembra, fino all’emozionante resa dei conti finale.

Kane e Abel - La miglior vendetta è il variegato affresco di un mondo che cambia, scandito dall’odio insanabile e sciocco tra due uomini speculari. Un fenomeno editoriale da milioni di copie, il primo romanzo di una saga che ha consacrato Jeffrey Archer come uno dei più importanti romanzieri nel mondo, nell’edizione riveduta e corretta dall’autore e in una nuova traduzione.

LanguageItaliano
Release dateApr 1, 2021
ISBN9788830525733
Kane e Abel. La miglior vendetta
Author

Jeffrey Archer

Barone Archer di Weston-super-Mare, è nato in Inghilterra nel 1940 e si è laureato a Oxford. È stato candidato sindaco di Londra, membro del Parlamento europeo, e deputato alla Camera dei Lord per venticinque anni. Scrittore e drammaturgo, autore di romanzi, raccolte di racconti, opere teatrali e saggi, con i suoi libri è regolarmente ai vertici delle classifiche in tutto il mondo. È sposato da oltre cinquant’anni con una compagna di università, ha due figli e vive tra Londra, Cambridge e Maiorca. Con HarperCollins ha pubblicato i sette volumi della Saga dei Clifton, Chi nulla rischia e Nascosto in bella vista della nuova serie Le indagini di William Warwick, e la trilogia  dedicata alle famiglie Kane e Rosnovsky, di cui Non fu mai gloria è il volume conclusivo.

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    Kane e Abel. La miglior vendetta - Jeffrey Archer

    PARTE PRIMA

    1906-1923

    1

    18 aprile 1906, Slonim, Polonia

    La donna smise di urlare solo quando morì. Fu allora che iniziò a urlare lui.

    Il ragazzino a caccia di conigli nel bosco non era certo se ad allertare i suoi giovani orecchi fosse stato l’ultimo grido della donna o il primo del bambino. Si voltò, percependo un possibile pericolo, cercando con lo sguardo un animale in agonia. Ma non aveva mai udito un animale urlare in quel modo. Si diresse con lentezza e cautela verso quel suono: l’urlo ora si era trasformato in un lamento, ma continuava a non assomigliare al richiamo di nessun animale da lui conosciuto. Sperava che fosse sufficientemente piccolo per ucciderlo: sarebbe stato qualcosa di diverso dal solito coniglio per cena.

    Si avviò furtivamente verso il fiume, da cui proveniva quello strano suono, balzando da un albero all’altro; la corteccia che gli sfiorava le spalle gli dava un senso di protezione, qualcosa di palpabile. Mai restare senza riparo, gli aveva insegnato suo padre. Quando giunse sul limitare del bosco, poté avere una buona visuale sull’intera valle, fino al fiume in basso, e persino a quel punto impiegò un po’ di tempo a capire che lo strano lamento non proveniva da un animale qualsiasi. Da lì strisciò verso il gemito, uscendo allo scoperto.

    Fu allora che vide la donna, con l’abito sollevato fin sulla cintola, le gambe nude divaricate. Non aveva mai visto una donna in quello stato. Corse rapidamente al suo fianco e le fissò la pancia, troppo spaventato per toccarla. Tra le gambe della donna giaceva un animaletto rosa, coperto di sangue e attaccato a lei da qualcosa che ricordava una corda. Il giovane cacciatore fece cadere i conigli appena cacciati e si lasciò cadere sulle ginocchia accanto alla creaturina.

    Rimase per un lungo istante a rimirarla affascinato, dopodiché puntò lo sguardo verso la donna. Rimpianse immediatamente di averlo fatto. Era già bluastra per il freddo: il suo viso giovane e stanco al ragazzo parve di mezza età. Non ebbe bisogno di sentirsi dire che era morta. Raccolse il corpicino viscido che giaceva nell’erba tra le gambe della donna. Se qualcuno gli avesse chiesto il perché – nessuno lo fece mai – avrebbe risposto che lo avevano preoccupato le unghiette con cui il bimbo si stava graffiando la faccia rugosa.

    La madre e il bambino erano legati tra loro da quel cordone viscido. Il ragazzo aveva assistito alla nascita di un agnello pochi giorni prima e cercò di ricordare. Sì, ecco cosa aveva fatto il pastore. Ma lui avrebbe potuto osare tanto con un bambino? Il piagnucolio si interruppe bruscamente e lui capì che urgeva prendere una decisione. Sguainò il coltello, quello con cui scuoiava i conigli, se lo asciugò su una manica e, dopo un istante di esitazione, tagliò il cordone tenendosi vicino al corpo del bambino. Dalle estremità tagliate uscì del sangue. A quel punto, quando l’agnello era nato, cosa aveva fatto il pastore? Aveva fatto un nodo per fermare il sangue. Certo, certo. Il ragazzo strappò qualche ciuffo d’erba dal terreno al suo fianco e fece un rapido, rudimentale nodo al cordone. Dopodiché, prese in braccio il bambino, che ricominciò a piangere. Si alzò lentamente dalla posizione inginocchiata e si lasciò alle spalle tre conigli morti e una donna, morta anch’essa dopo aver dato alla luce quel bambino. Ma prima, le chiuse le gambe, le distese e le abbassò l’abito fin sui ginocchi. Gli pareva la cosa giusta da fare.

    «Dio del cielo» disse ad alta voce, quello che diceva sempre dopo aver fatto qualcosa di molto bello o molto brutto. Non sapeva bene di quale delle due si trattasse.

    Il giovane cacciatore corse verso la casetta in cui sua madre stava probabilmente preparando la cena, in attesa soltanto dei suoi conigli: il resto doveva essere già pronto. Probabilmente stava chiedendosi quanti ne avesse cacciati quel giorno: con otto bocche da sfamare in famiglia, gliene servivano almeno tre. A volte, gli capitava di tornare con un’anatra, un’oca o persino un fagiano allontanatosi dalla tenuta del barone presso la quale suo padre lavorava. Quella sera, aveva trovato un animale diverso.

    Giunto alla casetta, non osò mollare la sua preda, nemmeno con una sola mano, e così con il piede scalzo iniziò a calciare la porta finché sua madre aprì. Senza dire nulla, sollevò il bambino verso di lei. Lei non fece il gesto immediato di prenderlo dalle sue mani, ma rimase ferma dov’era, coprendosi la bocca con una mano, gli occhi fissi su quella creatura sventurata.

    «Dio del cielo» disse, facendosi il segno della croce. Il ragazzo le scrutò il viso alla ricerca di un segno di gioia o rabbia e vide brillare nei suoi occhi una tenerezza che non aveva mai scorto prima. E allora capì che ciò che aveva fatto doveva essere buono.

    «È un maschietto» disse sua madre, accogliendo il bambino tra le sue braccia. «Dove l’hai trovato?»

    «Giù al fiume, matka» disse.

    «E la madre?»

    «Morta.»

    Si segnò nuovamente.

    «Svelto, va’ a dire a tuo padre cos’è successo. Lui troverà Urszula Wojnak presso la tenuta e tu accompagnerai entrambi dalla madre. Accertati che dopo tornino qui entrambi.»

    Il ragazzo si sfregò le mani sui pantaloni, contento che quella creatura scivolosa non gli fosse sfuggita di mano, e si allontanò di corsa per andare a cercare suo padre.

    La madre chiuse la porta con una spallata e disse a gran voce a Florentyna, la sua figlia maggiore, di mettere la pentola sul fuoco. Si sedette su uno sgabello di legno, si sbottonò il corpetto e spinse un capezzolo stanco verso la boccuccia raggrinzita. Sophia, la sua figlia minore, di soli sei mesi, quella sera sarebbe rimasta senza cena. Ora che ci pensava, la stessa cosa sarebbe toccata all’intera famiglia.

    «E per cosa?» disse la donna ad alta voce, stringendo lo scialle intorno al bambino. «Questo povero piccino domattina sarà morto.»

    Un presagio che non ripeté a Urszula Wojnak al suo arrivo, un paio d’ore dopo. L’anziana levatrice lavò il corpicino e si prese cura del moncone contorto del cordone ombelicale. Il marito della donna rimase in silenzio accanto al camino acceso, osservando la scena.

    «Un ospite in casa porta Dio in casa» dichiarò la donna, citando un vecchio proverbio polacco.

    Suo maritò sputò. «Gli venga il colera. Di bambini ne abbiamo già a sufficienza.»

    La donna finse di non udirlo mentre accarezzava i pochi capelli scuri sulla testa del neonato.

    «Come lo chiamiamo?» chiese lei.

    Suo marito si strinse nelle spalle. «Che importanza ha? Lascialo finire nella tomba senza un nome.»

    2

    18 aprile 1906, Boston, Massachusetts

    Il dottore sollevò il neonato per le caviglie e gli diede uno schiaffetto sul sedere. Il bambino iniziò a piangere.

    A Boston, Massachusetts, c’è un ospedale che si occupa principalmente di chi soffre delle malattie dei ricchi e che, in occasioni speciali, si permette di far nascere i nuovi ricchi. Le madri raramente gridano e, di certo, non partoriscono completamente vestite.

    Un giovane uomo stava passeggiando su e giù di fronte alla sala parto; al suo interno, erano presenti due ostetrici e il medico di famiglia. Quel padre non era disposto a prendersi alcun rischio con il suo primogenito. Agli ostetrici sarebbe stato versato un lauto compenso per mantenersi a disposizione e assistere agli eventi. Uno dei due, che indossava un abito da sera sotto il camice bianco, era in ritardo per una cena, ma non si sarebbe potuto permettere di non essere presente a quel parto. I tre avevano già estratto a sorte chi avrebbe fatto venire al mondo il bambino e a vincere era stato il dottor MacKenzie, il medico di famiglia. Un uomo affidabile, di sani principi, pensò il padre, mentre faceva su e giù lungo il corridoio.

    Non che avesse motivo di essere agitato. Roberts aveva condotto la moglie del giovane all’ospedale con la loro carrozza alle prime ore di quella mattina che, secondo i calcoli del dottore, era il ventottesimo giorno del suo nono mese. Anne era entrata in travaglio poco dopo colazione e al padre era stato assicurato che la nascita non sarebbe avvenuta prima che la banca chiudesse, al termine della giornata. Era un uomo disciplinato e non vedeva perché l’arrivo di un figlio dovesse interrompere la sua vita ben ordinata. Tuttavia, seguitò a passeggiare. Infermieri e dottori gli passavano frettolosamente accanto, abbassando la voce quando gli erano vicini e rialzandola solo dopo essersi portati a una distanza tale da non farsi sentire. Lui non ci fece tanto caso, perché la gente lo trattava sempre così. Anche se buona parte del personale ospedaliero non lo aveva mai incontrato, sapevano tutti chi era. Dopo la nascita di suo figlio – non gli passò mai per la testa, nemmeno per un istante, che il bambino potesse essere una femmina – avrebbe costruito la nuova ala pediatrica dell’ospedale di cui c’era tanto bisogno. Suo nonno aveva già costruito una biblioteca e suo padre una scuola per la comunità locale.

    Il padre in attesa tentò di leggere il quotidiano della sera, fissando le parole, senza però incamerarne il significato. Era nervoso, in ansia addirittura. Gli altri (per lui, quasi tutte le persone erano gli altri) non sarebbero mai arrivati a capire quant’era importante che il suo primogenito fosse un maschietto, un maschietto che un giorno avrebbe preso il suo posto di amministratore delegato e presidente della banca. Andò alle pagine sportive dell’Evening Transcript. I Boston Red Sox avevano sconfitto i New York Highlanders: una persona qualunque avrebbe festeggiato. Poi vide il titolo sulla prima pagina: il peggior terremoto nella storia dell’America. Devastazione a San Francisco, almeno quattrocento morti. Detestava che quella tragedia fosse accaduta proprio in quel giorno. La nascita di suo figlio avrebbe perso importanza. La gente si sarebbe ricordata che qualcos’altro era successo quel giorno.

    Andò alle pagine economiche e controllò il mercato azionario: era sceso di qualche punto. Quel dannato terremoto aveva già sottratto centomila dollari al valore del suo pacchetto azionario presso la banca, ma siccome il suo patrimonio personale restava comodamente al di sopra dei sedici milioni, ci sarebbe voluto ben più di un terremoto in California perché fosse registrato sulla sua personale scala Richter. Dopotutto, avrebbe potuto vivere degli interessi sui suoi interessi in maniera tale che il capitale di sedici milioni restasse intatto, pronto per suo figlio, che ancora doveva nascere. Continuò a passeggiare, fingendo di leggere il Transcript.

    L’ostetrico in abito da sera uscì dalle porte a vento della sala parto per comunicare la notizia. Si sentiva in dovere di fare qualcosa per giustificare il suo lauto compenso ed era quello abbigliato nel modo più appropriato per l’annuncio da fare. I due uomini si fissarono per un istante. Anche il dottore era leggermente nervoso, ma non intendeva certo mostrarlo di fronte al padre.

    «Congratulazioni, signore: ora è papà. Di un bel piccino, maschio.»

    Che commenti sciocchi fa la gente quando nasce un bambino, fu la prima riflessione del padre: cos’altro sarebbe potuto essere se non piccolo? Fu allora che la notizia si fece strada in lui: un figlio. Pensò se ringraziare un Dio in cui non credeva. L’ostetrico azzardò una domanda per rompere il silenzio.

    «Ha deciso come chiamarlo?»

    Il padre rispose senza esitazione: «William Lowell Kane».

    3

    La madre restò sveglia ben dopo che l’eccitazione per l’arrivo del bambino si fu spenta e che il resto della famiglia se ne fu andato a letto, tenendo il figlio tra le braccia. Helena Koskiewicz credeva nella vita e aveva portato in grembo nove bambini per dimostrarlo. Per quanto ne avesse persi tre ancora in fasce, non ne aveva lasciato morire nemmeno uno facilmente. A trentacinque anni, sapeva che il suo Jasio, un tempo vigoroso, non le avrebbe dato più figli o figlie. Dio le aveva offerto quello: di certo era destinato a vivere. Quella di Helena era una fede semplice, una buona cosa, perché la sorte non le avrebbe mai consentito nient’altro che una vita semplice. Benché fosse poco più che trentenne, la carenza di cibo e il duro lavoro la facevano sembrare molto più vecchia. Era grigia e magra e in vita sua non aveva mai indossato abiti nuovi. Non le era mai passato per la testa di lamentarsi di ciò che le era toccato, ma le rughe sul suo viso le conferivano un’aria più da nonna che da mamma.

    Pur strizzandosi i seni con forza, lasciando qualche impronta rossastra intorno ai capezzoli, ne uscì solo qualche gocciolina di latte. A trentacinque anni, a metà strada sul sentiero della vita, abbiamo tutti qualche utile esperienza da trasmettere e quella di Helena Koskiewicz in quel momento era sopra la media.

    «Piccino di matka» sussurrò teneramente al bambino, accostando la tetta stillante latte alla sua bocca increspata. Le palpebre si aprirono nel tentativo di succhiare. Alla fine, la madre sprofondò suo malgrado in un sonno profondo.

    Jasio Koskiewicz, un uomo forte e robusto, senza nulla di particolare a parte un paio di vistosi baffi, unico segno di autoaffermazione in un’esistenza per il resto servile, trovò sua moglie e il bambino assopiti sulla sedia a dondolo quando si alzò alle cinque. Quella notte, non aveva notato la sua assenza nel letto. Posò lo sguardo sul bastardo, che almeno, grazie a Dio, aveva smesso di frignare. Era morto? Non gli importava. Che della vita e della morte si preoccupasse la donna: la cosa più importante per lui era trovarsi presso la tenuta del barone alle prime luci dell’alba. Bevve qualche lungo sorso di latte di capra e si asciugò i baffi su una manica. Alla fine, afferrò un pezzo di pane con una mano e le sue trappole con l’altra, prima di sgattaiolare fuori dalla casetta senza far rumore, nel timore di svegliare il bambino e di farlo riprendere a strillare. Si allontanò di buon passo verso il bosco, senza pensare più al piccolo intruso, se non per ipotizzare che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui l’avrebbe visto.

    A entrare in cucina subito dopo fu Florentyna, appena prima dei sei rintocchi del vecchio orologio, che da molti anni ormai segnava un tempo tutto suo. Era poco più di un’indicazione per chi desiderava sapere se era ora di alzarsi oppure di andare a letto. Parte dei doveri giornalieri di Florentyna era preparare la colazione, un’incombenza di poco conto che comportava la semplice divisione di un otre di latte di capra e di un tozzo di pane di segale in una famiglia di otto persone. Ciò nonostante, per svolgerla ci voleva la saggezza di Salomone, onde evitare che qualcuno brontolasse per la porzione di qualcun altro.

    A chi la vedeva per la prima volta, Florentyna dava l’impressione di una dolce creaturina, fragile e sciupata. Negli ultimi due anni aveva avuto un solo abito da indossare, eppure chi sapeva tener separate la propria opinione sulla bambina da quella sull’ambiente che la circondava riusciva a immaginare le ragioni per cui Jasio si fosse innamorato di sua madre. I lunghi capelli biondi di Florentyna scintillavano e i suoi occhi color nocciola brillavano a dispetto dei suoi natali e della sua educazione.

    In punta di piedi si avvicinò alla sedia a dondolo e posò gli occhi su sua madre e il maschietto, che aveva adorato a prima vista. A otto anni non aveva mai posseduto una bambola. In realtà, solo una volta ne aveva vista una, quando la famiglia era stata invitata alle celebrazioni della festa di San Nicola, nel castello del barone. Persino in quell’occasione, in realtà non aveva sfiorato quello splendido oggetto, ma ora avvertì il bisogno inesplicabile di tenere il bambino tra le braccia. Si chinò, lo sfilò delicatamente dalle braccia di sua madre e, dopo aver fissato i suoi occhi di un colore azzurro intenso, iniziò a canticchiare. Il cambiamento di temperatura, dal petto caldo della madre alle mani fredde della bambina, fece piangere il neonato. Gli strilli svegliarono la madre, la cui unica reazione fu di sentirsi in colpa per essersi assopita.

    «Santo Cielo, è ancora vivo, Florcia» disse. «Devi preparare la colazione per i ragazzi mentre io provo di nuovo ad allattarlo.»

    Florentyna riconsegnò il neonato a sua madre con riluttanza e la osservò pompare nuovamente i suoi seni indolenziti. La bambina era affascinata.

    «Datti da fare, Florcia» la rimbrottò sua madre. «Anche il resto della famiglia deve mangiare.»

    Florentyna stava obbedendo controvoglia, quando fecero la loro comparsa i quattro fratelli che uscivano dallo stanzone in cui dormivano tutti. Baciarono le mani della madre in segno di saluto e fissarono, incantati, l’intruso. Sapevano tutti che non era uscito dalla pancia di matka. Florentyna era troppo eccitata per mangiare qualcosa quella mattina e così i ragazzi si divisero la sua porzione senza pensarci due volte, lasciando sul tavolo la razione della madre. Nessuno notò che non aveva mangiato nulla dall’arrivo del bambino.

    Helena Koskiewicz era felice che i figli avessero imparato fin da piccoli a badare a se stessi. Erano in grado di dar da mangiare agli animali, di mungere le capre e di occuparsi dell’orto senza l’aiuto o le insistenze di nessuno.

    Quella sera, quando Jasio tornò a casa, Helena non gli aveva preparato la cena. Florentyna aveva preso i tre conigli cacciati il giorno prima da Franck, il fratello cacciatore, e si era messa a scuoiarli. La ragazzina era fiera di dover provvedere alla cena, una responsabilità che le veniva affidata soltanto quando sua madre non stava bene, e non stare bene era un lusso che Helena si concedeva di rado. Il padre aveva portato a casa sei funghi e tre patate: quella sera avrebbero davvero banchettato.

    Dopo cena, Jasio Koskiewicz si sedette sulla sua sedia davanti al focolare e studiò attentamente il neonato per la prima volta. Reggendolo sotto le ascelle, con le dita divaricate per sostenerne la testa abbandonata, scrutò l’infante con l’occhio del cacciatore. Avvizzita e priva di denti, la sua faccia si salvava solo grazie ai begli occhi azzurri trasognati. Mentre puntava lo sguardo verso quel corpicino, qualcosa attirò l’attenzione dell’uomo. Aggrottò le ciglia e ne strofinò il petto delicato con i pollici.

    «Te ne sei accorta, donna?» disse, pungolando il petto del neonato. «Il bastardello ha un solo capezzolo.»

    Sua moglie corrugò la fronte mentre frizionava la pelle con il pollice, come se la sua azione potesse miracolosamente far apparire il capezzolo mancante. Suo marito aveva ragione: il minuscolo e incolore capezzolo sinistro c’era, ma dove sarebbe dovuta apparire la sua immagine speculare, sul lato destro, la pelle era completamente liscia.

    Le tendenze superstiziose della donna si ridestarono immediatamente. «Ci è stato dato da Dio» esclamò. «Vedi il suo marchio su di lui.»

    L’uomo spinse con rabbia il bambino verso di lei. «Sei una sciocca, donna. Il bambino è stato dato a sua madre da un uomo dal sangue malato.» E, sputando con violenza nel fuoco, diede così il suo parere sull’origine del bambino. «Comunque, non scommetterei una patata sul fatto che il bastardello superi un’altra notte.»

    Il fatto che il bambino sopravvivesse o meno per Jasio Koskiewicz contava ancor meno di una patata. Non era per sua indole un uomo insensibile, ma il bambino non era suo e una bocca in più da sfamare non avrebbe fatto altro che aggravare i suoi problemi. Eppure mettere in discussione l’Onnipotente non spettava a lui e, senza pensare più al bambino, cadde in un sonno profondo.

    Con il passare dei giorni, persino Jasio Koskiewicz iniziò a convincersi che il bambino potesse sopravvivere e, se fosse stato un uomo a cui piaceva scommettere, avrebbe perso una patata. Il suo primogenito, Franck il cacciatore, costruì un lettino con della legna raccolta nel bosco del barone. Florentyna tagliò dei pezzetti di alcuni suoi vecchi abiti e li cucì insieme per realizzare dei vestitini variopinti da neonato. Avrebbero potuto chiamarlo Arlecchino, se solo avessero saputo chi era. In realtà, trovargli un nome provocò più disaccordi in famiglia di qualsiasi altra cosa per diversi mesi; solo il padre non aveva proposte. Alla fine, concordarono su Wladek.

    La domenica successiva, nella cappella all’interno della grande tenuta del barone, il bambino venne battezzato Wladek Koskiewicz, la madre ringraziò Dio per avergli risparmiato la vita e il padre si rassegnò ad avere un’altra bocca da sfamare.

    Quella sera, per festeggiare il battesimo, ci fu un piccolo banchetto, arricchito da un’oca donata dal barone. Mangiarono tutti di gusto.

    Da quel giorno, Florentyna imparò a dividere per nove.

    4

    Anne Kane aveva dormito serenamente per tutta la notte. Dopo una colazione leggera, suo figlio William era stato condotto nella sua stanza privata tra le braccia di un’infermiera. Non vedeva l’ora di stringerlo nuovamente.

    «Buongiorno, signora Kane» disse solerte l’infermiera dalla divisa bianca, «è ora di far fare colazione al bambino.»

    Anne si mise a sedere, fastidiosamente consapevole dei suoi seni gonfi. L’infermiera guidò i due principianti nella procedura. Anne, conscia che sembrare in imbarazzo sarebbe stato considerato poco materno, non staccò lo sguardo dagli occhi azzurri di William, ancor più azzurri di quelli di suo padre. Sorrise, soddisfatta. All’età di ventuno anni, non le sembrava che le mancasse nulla. Nata Cabot, aveva sposato un Lowell e ora aveva partorito un figlio che avrebbe portato avanti la tradizione di famiglia riassunta in modo succinto nel biglietto che le era stato inviato da Millie Preston, la sua vecchia compagna di scuola:

    Ed ecco la cara vecchia Boston,

    patria di fagioli e baccalà,

    dove i Lowell parlano solo con i Cabot di qua,

    e i Cabot parlano solo col Signore là.

    Anne per una mezz’ora parlò con William, ottenendo però scarse risposte. A quel punto, la nutrice lo portò via in tutta fretta, con la stessa efficienza con cui l’aveva fatto arrivare. Anne resistette nobilmente alla frutta e ai dolciumi mandati da amici e sostenitori, determinata com’era a riprendere a indossare tutti i suoi abiti in tempo per la stagione estiva e a riassumere il suo posto dovuto sulle pagine delle riviste di moda. Il Principe de Garonne non l’aveva definita l’unica cosa bella di Boston? I suoi lunghi capelli dorati, i suoi lineamenti fini e la sua silhouette slanciata avevano suscitato ammirazione in luoghi in cui non era mai stata. Anne si guardò allo specchio e fu felice di ciò che vide: la gente avrebbe faticato a credere che fosse madre di un bambino vivace. Grazie a Dio, era un maschio, pensò, capendo per la prima volta come dovesse essersi sentita Anna Bolena.

    Si godette un pasto leggero prima di prepararsi per i visitatori, che si sarebbero presentati a intervalli regolari per tutto il pomeriggio. Nei primi giorni avrebbe ricevuto solo visite dei familiari o al massimo dai membri delle migliori famiglie di Boston; agli altri sarebbe stato detto che non era ancora pronta a riceverli. Ma siccome Boston era l’unica città americana in cui ognuno conosceva alla perfezione il proprio posto, era improbabile che vi fosse qualche intruso inatteso.

    La stanza che occupava avrebbe tranquillamente potuto ospitare altri cinque letti, se non fosse stata zeppa di fiori. A passare di lì velocemente, senza notare la presenza della giovane madre seduta sul letto, la si sarebbe potuta scambiare per una piccola fiera dell’orticultura. Anne accese la lampada, ancora una novità a Boston: suo marito aveva atteso che i Cabot gliele installassero, cosa che Boston considerò un segno profetico del fatto che l’induzione elettromagnetica fosse socialmente accettabile.

    La primissima persona a far visita a Anne fu sua suocera, la signora Thomas Lowell Kane, diventata capofamiglia dopo la morte prematura del marito. Raggiunta l’età in cui si inizia a invecchiare, senza perdere un briciolo d’eleganza, la signora Kane aveva perfezionato la tecnica di irrompere in una stanza a suo assoluto piacimento, provocando lo sconcerto inequivocabile dei suoi occupanti. Indossava un abito lungo di seta che rendeva impossibile scorgerne le caviglie: l’unico uomo ad averle mai viste era morto. Era sempre stata sottile. Riteneva – e lo diceva anche spesso – che una donna sovrappeso facesse pensare a una cattiva alimentazione e a un’educazione di livello inferiore. Ora era la più anziana Lowell in vita; e pure la più anziana dei Kane, se era per quello. Pertanto, si attendeva – e da lei ce lo si attendeva, di sicuro – che fosse la prima a presentarsi in qualsiasi occasione rilevante. Dopotutto, non era stata lei a organizzare il primo incontro tra Anne e Richard?

    Per la signora Kane, l’amore era una questione di scarso valore. Ricchezza, posizione e prestigio, quelle erano cose che comprendeva. L’amore andava benissimo, ma era raro che si dimostrasse un bene durevole, mentre gli altri tre lo erano indiscutibilmente.

    Baciò sua nuora sulla fronte con aria d’approvazione. Anne sfiorò un tasto sul muro e si udì uno squillo sordo. Il rumore colse di sorpresa la signora Kane, che non era ancora convinta che l’elettricità potesse mai prendere piede. L’infermiera ricomparve con il figlio ed erede tra le braccia. La signora Kane lo studiò, lo annusò, esprimendo la sua soddisfazione, e poi, con un gesto della mano, congedò l’infermiera.

    «Brava, Anne» disse, come se sua nuora si fosse guadagnata una coccarda di consolazione in una regata. «Siamo tutti molto fieri di te.»

    La madre di Anne, la signora Edward Cabot, giunse qualche minuto dopo. Era talmente poco diversa nell’aspetto dalla signora Kane che chiunque le osservasse da una certa distanza tendeva a confonderle. Ma, per rendere giustizia alla signora Cabot, lei mostrò decisamente maggior interesse per il nipote e la figlia rispetto a quello della signora Kane. L’ispezione si spostò sui fiori.

    «Davvero gentili i Jackson a ricordarsi» mormorò la signora Cabot, per la quale sarebbe stato uno shock se non lo avessero fatto.

    La signora Kane condusse un’ispezione più superficiale. I suoi occhi si posarono solo un istante sui fiori delicati per poi posarsi sui bigliettini di chi li aveva donati. Sussurrò tra sé i nomi tranquillizzanti: Adams, Lawrence, Lodge, Higginson. Nessuna delle due nonne fece commenti sui nomi che non riconosceva: avevano entrambe superato l’età in cui si abbia voglia di imparare qualcosa o qualcuno di nuovo. Se ne andarono insieme, decisamente appagate: era nato un erede che, di primo acchito, sembrava più che soddisfacente. Entrambe erano convinte che il loro ultimo dovere familiare fosse stato compiuto, anche se per interposta persona, e che ora potessero lasciare il centro del palco per entrare nelle file del coro.

    Si sbagliavano entrambe.

    Gli amici e i parenti stretti di Anne e Richard andarono e vennero per tutto il pomeriggio con doni e auguri di prosperità, i primi in oro o argento, i secondi pronunciati con accenti affettati e snob.

    Quando giunse suo marito, dopo la chiusura dell’attività lavorativa, Anne era esausta. Richard sembrava leggermente meno ingessato del solito. Aveva bevuto un bicchiere di champagne a pranzo per la prima volta nella sua vita: il vecchio Amos Kerbes aveva insistito e, sotto gli occhi dell’intero Somerset Club, non si sarebbe certo potuto rifiutare. Con la lunga redingote nera e i pantaloni a righine, si ergeva in tutto il suo metro e ottanta abbondante di statura, e i suoi capelli scuri, con la riga nel mezzo, brillavano alla luce di una grossa lampada elettrica. In pochi ne avrebbero indovinato l’età. La giovinezza non era mai stata particolarmente importante per lui: qualche buontempone addirittura sosteneva che fosse nato vecchio. La cosa non lo infastidiva: sostanza e reputazione erano le uniche cose che contassero. Ancora una volta, William Lowell Kane fu fatto venire e ispezionato, come se suo padre stesse controllando lo stato patrimoniale al termine di una giornata lavorativa in banca. Sembrava tutto in ordine. Il bambino aveva due gambe, due braccia, dieci dita nelle mani e dieci nei piedi. Richard non vide nulla in grado di metterlo in imbarazzo in un secondo momento e, dunque, William fu congedato.

    «Ieri sera, ho mandato un telegramma al preside della St Paul’s» informò sua moglie. «William è stato iscritto per settembre del 1918.»

    Anne non commentò: era chiaro che Richard aveva iniziato a pianificare il futuro di William ben prima che lui nascesse.

    «Bene, mia cara, spero che tu ti sia rimessa completamente» disse, lui che in un ospedale aveva trascorso soltanto i primi tre giorni della sua vita.

    «Sì… no… penso di sì» ribatté timidamente sua moglie, soffocando qualsiasi emozione che rischiasse di scontentarlo. Lui la baciò delicatamente su una guancia e se ne andò senza aggiungere una sola parola. Roberts lo riaccompagnò in macchina a Red House, la loro casa di famiglia in Louisburg Square. Con un bambino appena nato e la sua infermiera da aggiungere al personale esistente, ora ci sarebbero state nove bocche da sfamare. Richard non ripensò più alla faccenda.

    William Lowell Kane ricevette il battesimo presso la cattedrale protestante episcopale di St Paul’s, alla presenza di chiunque contasse a Boston e pure di qualcuno che non contava. A officiare fu il vescovo William Lawrence, mentre J.P. Morgan e A.J. Lloyd, banchieri dalla reputazione impeccabile, affiancarono l’amica di scuola di Anne, Millie Preston, come padrini. Sua Grazia asperse la testa di William con l’acqua santa e pronunciò le parole: «William Lowell Kane». Il bambino non protestò. Stava già imparando ad accettare l’approccio snob alla vita. Anne ringraziò Dio per la nascita di un figlio sano, mentre Richard chinava il capo: considerava l’Onnipotente poco più di un contabile esterno la cui funzione consisteva nel registrare le nascite e le morti in seno alla famiglia Kane. Tuttavia, pensò, forse avrebbe fatto bene ad andare sul sicuro e a fare un secondo figlio maschio: al pari della famiglia reale inglese, avrebbe avuto un erede e un rincalzo. Sorrise a sua moglie, molto soddisfatto di lei.

    5

    Wladek Koskiewicz cresceva lentamente. Alla sua madre adottiva apparve presto chiaro che la salute del bambino sarebbe sempre stata un problema. Prendeva tutti i malanni e tutte le malattie che i bambini nella fase della crescita normalmente prendono e anche parecchie altre che in molti non prendono. E poi li passava indiscriminatamente al resto della famiglia.

    Helena trattava Wladek come uno di loro e lo difendeva con forza ogni volta che Jasio si metteva a dare la colpa al diavolo, invece che merito a Dio, per la presenza del bambino nella loro minuscola casetta. Anche Florentyna si prendeva cura di Wladek come se fosse figlio suo. Lo aveva amato fin dal primo istante in cui aveva posato lo sguardo su di lui, con un’intensità nata dalla paura di rimanere senza figli; in quanto figlia priva di qualunque sostanza di un cacciatore, nessuno avrebbe mai voluto sposarla, si diceva. Perciò Wladek era il suo bambino.

    Il fratello maggiore, Franck, che aveva trovato Wladek sulla riva del fiume, lo trattava come un giocattolo. Non avrebbe mai ammesso che voleva bene a quel gracile bambino, dato che suo padre gli aveva detto che i bambini erano una cosa da donne. A ogni buon conto, nel mese di gennaio avrebbe smesso di andare a scuola per iniziare a lavorare presso la tenuta del barone. I tre fratelli minori, Stefan, Josef e Jan, mostravano scarso interesse per Wladek, mentre la penultima arrivata della famiglia, Sophia, che aveva solo sei mesi più di lui, era più che felice di coccolarlo. Ciò a cui Helena non era preparata erano un carattere e una mente così diversi da quelli dei suoi figli.

    Nessuno avrebbe mancato di notare le differenze fisiche o intellettuali. I figli dei Koskiewicz erano tutti alti e possenti, avevano capelli rossi e, a eccezione di Florentyna, occhi grigi. Wladek era basso e tarchiato, con capelli scuri e occhi azzurri. I Koskiewicz non avevano il minimo interesse per l’istruzione e abbandonavano il villaggio non appena l’età o il bisogno lo richiedevano. Wladek, invece, per quanto avesse iniziato tardi a gattonare, a diciotto mesi parlava già e, pur non sapendosi ancora vestire da solo, imparò a leggere prima del terzo compleanno e a scrivere frasi coerenti dopo il quinto, continuando però a fare la pipì a letto. Divenne la disperazione di suo padre e l’orgoglio di sua madre. I suoi primi quattro anni su questa terra furono memorabili principalmente per i suoi numerosi tentativi di lasciarla ammalandosi in continuazione; e ce l’avrebbe fatta, non fosse stato per gli sforzi prolungati di Helena e Florentyna. Scorrazzava scalzo intorno alla casetta di legno, solitamente con il suo abito da arlecchino, un metro o giù di lì dietro sua madre. Quando Florentyna tornava a casa da scuola, spostava su di lei la sua dedizione, senza mai scostarsi dal suo fianco finché non lo metteva a letto. Nella sua divisione del cibo, Florentyna spesso cedeva a Wladek metà della parte che le spettava oppure, se era ammalato, l’intera porzione. Wladek indossava gli abiti che lei gli confezionava, cantava le canzoni che lei gli insegnava e condivideva con lei i pochi giochi e doni che lei possedesse.

    Dato che Florentyna passava buona parte della giornata a scuola, Wladek avrebbe voluto andare con lei. Non appena gli fu consentito di farlo, percorse il sentiero da diciotto wiorsta nel bosco di betulle e cipressi coperti di muschio per raggiungere la piccola scuola di Slonim, stringendole la mano fino al cancello.

    A differenza dei suoi fratelli, a Wladek la scuola piacque dalla prima campanella: per lui era una fuga dalla minuscola casetta che, fino a quel momento, era stata tutto il suo mondo. La scuola, inoltre, gli fece capire dolorosamente che la sua patria era occupata dai russi. Scoprì che la sua lingua nativa, il polacco, la si poteva parlare soltanto tra le pareti della casetta e che a scuola la lingua madre sarebbe stata il russo. Percepì negli altri bambini un orgoglio intenso per la loro lingua e cultura oppresse e lui stesso finì per condividere quel medesimo orgoglio.

    Con sua grande sorpresa, Wladek scoprì di non essere sminuito dal signor Kotowski, il maestro, a differenza di quanto gli succedeva a casa con suo padre. Per quanto fosse ancora il più giovane, proprio come a casa, non passò tanto prima che si elevasse al di sopra dei suoi compagni, fuorché in altezza. La sua statura modestissima portava erroneamente i coetanei a sottovalutarlo: i bambini spesso danno per scontato che più grosso significa migliore. All’età di cinque anni, Wladek era il primo della classe in ogni materia tranne la carpenteria.

    Di sera, di nuovo nella casetta di legno, mentre gli altri bambini si prendevano cura delle viole profumate che sbocciavano nel giardino in primavera, raccoglievano bacche, tagliavano la legna, cacciavano conigli o cucivano abiti, Wladek leggeva. Leggeva sempre, tanto che presto si ritrovò a leggere anche i libri mai aperti di suo fratello e poi quelli di sua sorella. Lentamente, iniziò a farsi strada in Helena la consapevolezza di aver accolto più di quanto avesse messo in conto quando Franck aveva portato a casa quell’animaletto al posto dei tre conigli. Wladek faceva già domande a cui lei non era in grado di rispondere. Sapeva che non sarebbe passato tanto prima che lei non fosse più capace di gestirlo e non sapeva cosa fare al riguardo. Ma aveva una fiducia incrollabile nel destino e, dunque, non fu sorpresa quando la decisione le fu tolta dalle mani.

    La prima importante svolta nella vita di Wladek giunse in una sera d’autunno del 1911. La famiglia aveva finito la consueta cena a base di zuppa di barbabietole rosse e coniglio. Jasio russava accanto al focolare e Helena stava cucendo, mentre gli altri bambini giocavano. Wladek era seduto ai piedi di sua madre, impegnato a leggere, quando, sugli strepiti di Stefan e Josef che bisticciavano per il possesso di alcune pigne verniciate da poco, si udì bussare con forza alla porta. Fecero tutti silenzio. Sentir bussare era sempre una sorpresa per la famiglia Koskiewicz, perché la parola visitatore presso la casetta era praticamente sconosciuta.

    L’intera famiglia rivolse con apprensione lo sguardo alla porta. Come se la prima volta non ci fosse stata, attesero di sentir bussare per la seconda. E così fu: un po’ più forte della prima. Jasio si alzò assonnato dalla sedia, attraversò la stanza fino alla porta e la aprì con cautela. Quando videro chi si trovava sulla soglia, balzarono tutti in piedi e chinarono la testa, tranne Wladek, che fissò la figura aristocratica, elegante e dalle spalle larghe con il suo pesante cappotto di pelo d’orso, la cui presenza aveva immediatamente fatto apparire la paura negli occhi di suo padre. Ma il sorriso cordiale del visitatore cancellò la benché minima preoccupazione e Jasio si affrettò a farsi da parte per consentire al Barone Rosnovski di entrare in casa sua. Nessuno parlò. Il barone non era mai stato nella casetta e, dunque, non sapevano cosa fare.

    Wladek posò il libro, si alzò in piedi, si avvicinò allo sconosciuto e gli tese la mano, prima che suo padre potesse impedirglielo.

    «Buonasera, signore.»

    Il barone gli strinse la mano e i due si fissarono reciprocamente negli occhi. Quando il barone mollò la presa, gli occhi di Wladek si posarono su uno splendido bracciale che aveva a un polso e su cui era incisa una scritta che non riuscì a decifrare.

    «Tu devi essere Wladek.»

    «Sì, signore» rispose il bambino, che non sembrava sorpreso di scoprire che il barone conoscesse il suo nome.

    «È per parlare di te che sono venuto a trovare tuo padre» disse il barone.

    Con un gesto della mano, Jasio invitò gli altri bambini a lasciarlo solo con il suo padrone, così due di loro fecero l’inchino, quattro chinarono la testa e tutti e sei si ritirarono in silenzio nel sottotetto. Wladek restò, dato che nessuno gli lasciò intendere che doveva unirsi agli altri bambini.

    «Koskiewicz» esordì il barone, tuttora in piedi poiché nessuno gli aveva ancora offerto una sedia; erano tutti troppo impauriti e convinti che fosse lì per far loro un rimprovero. «Sono venuto a chiedere un favore.»

    «Qualsiasi cosa, signore, qualsiasi cosa» disse il padre, chiedendosi cosa avrebbe mai potuto dare al barone che lui già non possedesse, moltiplicato per cento.

    Il barone continuò. «Mio figlio, Leon, ora ha sei anni e due precettori, uno polacco e l’altro tedesco, che gli danno lezioni private al castello. Mi dicono che è un ragazzo sveglio, ma che gli manca la competizione, dovendo superare solo se stesso. Il signor Kotowski della scuola del villaggio mi dice che Wladek è l’unico bambino in grado di entrare in competizione con lui. Sono venuto a chiederti di permettere a tuo figlio di abbandonare la scuola del villaggio e di unirsi a Leon e ai suoi precettori al castello.»

    Wladek si vide apparire davanti agli occhi una splendida visione di libri e insegnanti ben più in gamba del signor Kotowski. Rivolse un’occhiata a sua madre. Lei stava fissando il barone: aveva un’espressione carica di stupore e dolore insieme. Suo padre si rivolse a lei e l’istante di comunicazione muta tra loro al bambino parve un’eternità.

    Il cacciatore quasi bisbigliò, lo sguardo fisso sui piedi del barone. «Ne saremmo onorati, signore.»

    Il barone spostò l’attenzione su Helena.

    «La beata Vergine mi proibisce di ostacolare uno dei miei figli» disse con garbo, «per quanto solo lei sappia quanto mi mancherà.»

    «Stia certa, signora Koskiewicz, che suo figlio potrà tornare a casa ogni volta che lo vorrà.»

    «Sì, signore. All’inizio, suppongo, lo farà.» Stava per aggiungere una richiesta, ma decise di evitare.

    Il barone sorrise. «Bene. In tal caso, è deciso. Vi prego di accompagnarlo al castello domattina alle sette. Durante l’anno scolastico vivrà con noi e a Natale potrà tornare da voi.»

    Wladek scoppiò a piangere.

    «Zitto, ragazzo» disse il cacciatore.

    «Non vi lascerò» disse Wladek, voltandosi dalla parte di sua madre, anche se in realtà aveva voglia di andare.

    «Zitto, ragazzo» ripeté il cacciatore, stavolta a voce leggermente più alta.

    «Perché?» chiese il barone, con voce compassionevole.

    «Non abbandonerò mai Florcia… mai.»

    «Florcia?» chiese il barone.

    «La mia figlia maggiore, signore» si intromise il cacciatore. «Non si preoccupi di lei, signore. Il ragazzo farà come gli viene detto.»

    Nessuno parlò. Il barone rimase in silenzio per un po’, mentre Wladek, ancora in lacrime, cercava di controllare il suo pianto. «La ragazzina quanti anni ha?» chiese alla fine.

    «Quattordici» rispose il cacciatore.

    «Sarebbe in grado di lavorare nelle cucine?» chiese il barone, sollevato nel notare che Helena Koskiewicz non sembrava sul punto di scoppiare in lacrime.

    «Oh, sì, barone» rispose la donna. «Florcia sa cucinare e sa cucire e…»

    «Bene, bene. In tal caso, può venire anche lei. Li attenderò entrambi domattina alle sette.»

    Il barone si avviò alla porta, si voltò dalla parte del bambino e sorrise. Stavolta, Wladek gli restituì il sorriso. Aveva stipulato il primo accordo della sua vita e, dopo che il barone se ne fu andato, permise a sua madre di stringersi a lui. La udì sussurrare: «Ah, piccino di marka, cosa sarà di te ora?».

    Wladek non vedeva l’ora di scoprirlo.

    Quella sera, prima di andare a letto, Helena preparò i bagagli per Wladek e Florentyna, non che servisse tanto tempo per infilare in qualche borsa tutti gli oggetti di proprietà dell’intera famiglia. Alle sei della mattina seguente, il resto della famiglia si piazzò accanto alla porta e li osservò partire per il castello, ciascuno con un involto di carta sotto un braccio. Florentyna, alta e aggraziata, continuava a voltarsi verso di loro, piangendo e salutandoli con una mano; Wladek, basso e sgraziato, non si voltò mai. Florentyna si tenne stretta alla sua mano per tutto il tragitto. I loro ruoli si erano ribaltati: da quel giorno sarebbe stata lei a fare affidamento su di lui.

    Apparve chiaro che il maestoso domestico dalla livrea verde ricamata e coperta di bottoni d’oro che aprì il portone di quercia quando loro bussarono timidamente, li stava aspettando. Entrambi avevano spesso osservato con ammirazione le divise grigie dei soldati che presidiavano il vicino confine russo-polacco, ma non avevano mai visto nulla di tanto splendente quanto quel gigante che troneggiava sopra di loro e che pensarono dovesse avere un ruolo importantissimo. Nel salone c’era uno spesso tappeto e Wladek ne studiò i disegni verdi e rossi, ammaliato dalla sua bellezza, chiedendosi se fosse il caso di togliersi le scarpe e sorpreso che, quando lo attraversò, i suoi passi non producessero il minimo rumore.

    Quella figura abbagliante li accompagnò alle loro stanze nell’ala occidentale. Stanze separate: sarebbero mai riusciti a dormire? Quanto meno, c’era una porta comunicante, e dunque non sarebbero mai stati troppo distanti e, in effetti, per molte notti dormirono insieme nello stesso letto.

    Una volta disfatti i bagagli, Florentyna venne condotta in cucina e Wladek in una stanza dei giochi nell’ala meridionale del castello, dove gli venne presentato il figlio del barone. Leon Rosnovski era alto per la sua età, un ragazzino di bell’aspetto, talmente garbato e accogliente che Wladek abbandonò il suo atteggiamento volutamente combattivo pochi istanti dopo averlo incontrato. Wladek apprese rapidamente che Leon era figlio unico, che non aveva nessuno con cui giocare tranne la sua niania, la devota donna lituana che lo aveva allattato al seno e che soddisfaceva ogni sua necessità dalla morte prematura della madre. Il ragazzo robusto che era spuntato dal bosco prometteva buona compagnia. E, almeno sotto un aspetto, erano considerati pari.

    Leon si offrì immediatamente di far fare a Wladek un giro del castello, ogni stanza del quale era più grande dell’intera casetta. Quell’avventura occupò il resto della mattina e Wladek restò sbigottito di fronte alle dimensioni del castello e all’opulenza dei mobili e dei tessuti (e quei bellissimi tappeti erano in ogni stanza). Wladek ammise solo di essere positivamente colpito. Il corpo principale dell’edificio, gli disse Leon, risaliva ai primi anni del periodo gotico, dando per scontato che Wladek conoscesse il significato di quella parola. Lui annuì. A quel punto, Leon guidò il suo nuovo amico giù per una scalinata di pietra, fino alle immense cantine, con file su file di bottiglie di vino coperte di polvere e ragnatele. Ma la stanza preferita di Wladek era la grande sala da pranzo, con il suo imponente soffitto a volta retto da colonne, il pavimento di pietra e il tavolo più grande che avesse mai visto. Fissò le teste di animali impagliati appese ai muri. Leon gli disse che erano bisonti, orsi, cervi, cinghiali e ghiottoni cacciati da suo padre nel corso degli anni. Sopra il camino c’era lo stemma del barone. Il motto della famiglia Rosnovski recitava: La fortuna aiuta gli audaci.

    Alle dodici si udì un gong e il pranzo venne portato in tavola dalla servitù in livrea. Wladek mangiò pochissimo, osservando Leon con attenzione, nel tentativo di memorizzare quali pezzi usasse di quella disorientante varietà di posate d’argento. Dopo pranzo incontrò i suoi due precettori, che però non lo accolsero come aveva fatto Leon. Quella sera si arrampicò sul letto più grande che avesse mai visto e raccontò le sue avventure a Florentyna. Gli occhi increduli della sorella non si staccarono mai dal viso di Wladek né la ragazza chiuse mai la bocca, aperta in un’espressione incantata, soprattutto quando udì dei coltelli e delle forchette.

    Le lezioni iniziarono il mattino dopo alle sette in punto, prima di colazione, e proseguirono per tutta la giornata, con qualche breve interruzione per i pasti. All’inizio, Leon era chiaramente più avanti del suo nuovo compagno di classe, ma Wladek si applicò con serietà e coraggio ai suoi libri e, con il passare delle settimane, il divario iniziò a ridursi. L’amicizia e la rivalità tra i due ragazzi si svilupparono di pari passo. I precettori ebbero qualche difficoltà a trattare come pari i loro due allievi – uno il figlio di un barone e l’altro il figlio illegittimo di Dio solo sapeva chi – ma pur con qualche riluttanza ammisero di fronte al barone che aveva fatto la scelta giusta per l’istruzione del figlio. Il loro atteggiamento intransigente, però, non preoccupò mai Wladek perché Leon, al contrario loro, lo trattò sempre come se fosse al suo stesso livello.

    Il barone rese nota la sua soddisfazione per i progressi che i ragazzi stavano facendo e spesso gratificava Wladek con abiti e giocattoli. L’iniziale ammirazione distante e distaccata di Wladek per il barone si trasformò rapidamente in rispetto.

    Quando fu il momento di fare ritorno alla casetta nel bosco per Natale, per Wladek fu doloroso doversi separare da Leon. Nonostante l’iniziale felicità all’idea di rivedere sua madre, i tre brevi mesi che aveva trascorso presso il castello del barone gli avevano fatto conoscere un mondo decisamente più eccitante. Avrebbe preferito fare il servo nel castello che il padrone nella casetta.

    Mentre la vacanza si trascinava stancamente, Wladek si sentiva soffocare nella casetta con la sua unica stanza e il sottotetto sovraffollato ed era insoddisfatto del cibo servito in porzioni scarsissime e mangiato a mani nude: nel castello, nessuno divideva nulla in nove porzioni. Dopo qualche giorno, Wladek non vedeva l’ora di tornare e di stare con Leon e il barone. Ogni pomeriggio percorreva a piedi i sei wiorsta che lo separavano dal castello e fissava i possenti muri che circondavano quella tenuta in cui non gli sarebbe mai passato per la testa di mettere piede senza permesso. Per Florentyna, che aveva vissuto soltanto tra il personale della cucina, il ritorno alla vita semplice di prima fu decisamente più facile e non riusciva a capire che Wladek nella casetta non si sarebbe mai più sentito a casa.

    Jasio non sapeva bene come trattare il bambino di sei anni, che ora era così ben vestito e raffinato e che parlava di faccende che il padre non capiva nemmeno lontanamente e non aveva voglia di capire. E, cosa ancor peggiore, sembrava che Wladek non facesse altro che sprecare l’intera giornata a leggere. Cosa sarebbe stato di lui, si chiedeva il cacciatore, se non fosse stato in grado di roteare un’ascia o di catturare un coniglio con una trappola? Come poteva mai sperare di guadagnarsi onestamente da vivere? Anche lui pregò che la vacanza passasse velocemente.

    Helena era fiera di Wladek e inizialmente si rifiutava di ammettere persino a se stessa che tra lui e il resto dei bambini si fosse creato un divario importante. Ma non passò tanto prima che la cosa risultasse evidente. Una sera, mentre giocavano ai soldati, sia Stefan che Franck, generali di armate contrapposte, si rifiutarono di avere Wladek tra le proprie fila.

    «Perché devo sempre restare fuori?» protestò Wladek. «Voglio unirmi alla battaglia.»

    «Perché non sei più uno di noi» dichiarò Stefan. «E, comunque, non sei veramente nostro fratello.»

    Ci fu un lungo silenzio, prima che Franck aggiungesse: «Nostro padre non ti ha mai voluto; solo matka ti ha consentito di restare».

    Wladek scrutò il cerchio di bambini intorno a lui, cercando Florentyna. «Che intende dire Stefan? Che non sono vostro fratello?» pretese di sapere.

    E fu così che Wladek venne a conoscenza di come era nato e capì perché si era sempre sentito diverso dai suoi fratelli e dalle sue sorelle. In fondo fu felice di scoprire che nel suo sangue non poteva esserci traccia della meschinità del cacciatore. Proveniva da un’altra stirpe, a lui ignota, che in sé conteneva il seme di una forza che avrebbe reso possibile qualsiasi cosa.

    Quando finalmente quell’infelice vacanza giunse al termine, Wladek fece ritorno al castello prima dell’alba, seguito, pochi passi dietro, da una riluttante Florentyna. Leon lo riaccolse a braccia aperte: anche per lui, isolato dalla ricchezza di suo padre tanto quanto lo era stato Wladek dalla povertà del cacciatore, era stato un Natale con poco da festeggiare. Da quel momento, i due ragazzi divennero amici strettissimi e furono inseparabili.

    All’arrivo delle vacanze estive, Leon implorò suo padre di consentire a Wladek di restare al castello. Il barone accettò, perché si era affezionato anche lui al figlio del cacciatore. Wladek ne fu felicissimo. Avrebbe fatto ritorno alla casetta una volta sola in vita sua.

    6

    William Kane cresceva velocemente ed era considerato un bambino adorabile da chiunque avesse l’occasione di vederlo: nei primi anni della sua vita, si trattò per lo più di parenti inebetiti dall’affetto o di servi che stravedevano per lui.

    Il piano superiore della casa dei Kane in Louisburg Square, risalente al XVIII secolo, era stato riconvertito in una nursery, zeppa di giocattoli. Una camera da letto e un salotto erano stati messi a disposizione di una bambinaia di recente acquisizione. La nursery era sufficientemente distante da Richard Kane perché lui fosse all’oscuro di problemi come dentizione, pannolini bagnati e l’eventuale scoppio di un pianto capriccioso per ottenere più cibo. Il primo sorriso, il primo dentino, il primo passo e la prima parola furono tutti annotati in un libro di famiglia dalla madre di William, insieme ai numeri crescenti della sua statura e del suo peso. Per Anne fu una sorpresa scoprire che tali statistiche differivano pochissimo da quelle di qualsiasi altro bambino con cui fosse venuta in contatto a Beacon Hill.

    La bambinaia, fatta venire dall’Inghilterra, educava il bambino secondo un codice che avrebbe allietato il cuore di un ufficiale della cavalleria prussiana. Il padre di William passava a trovarlo ogni sera alle sei. Dato che si rifiutava di rivolgersi al bambino con un linguaggio da neonati, finì per non parlargli affatto: i due si limitavano a scambiarsi occhiate inespressive. Ogni tanto, William stringeva l’indice del padre, quello con cui controllava i conti, e Richard si concedeva un sorriso.

    Al termine del primo anno questa routine cambiò leggermente, con il bambino che veniva portato al piano di sotto da suo padre. Richard se ne stava seduto sulla sua poltrona di cuoio bordeaux dallo schienale alto a osservare il suo primogenito gattonare tra le gambe dei mobili, riapparendo quando meno uno se lo sarebbe aspettato, il che portò Richard a riflettere che avrebbe indiscutibilmente fatto il politico. William mosse i primi passi a tredici mesi, aggrappandosi alle code del soprabito del padre. La sua prima parola fu Dada, per la soddisfazione di tutti, compresa nonna Kane e nonna Cabot, che compivano ispezioni regolari. Non spingevano la carrozzina in cui William veniva accompagnato in giro per Boston, ma si degnavano di camminare un passo dietro la bambinaia nelle sue uscite del giovedì pomeriggio, fulminando con lo sguardo i neonati dalle abitudini meno disciplinate. Mentre gli altri bambini davano da mangiare alle anatre nei parchi pubblici, William incantava i cigni nel lago del sontuoso Venetian Palace del signor Jack Gardner.

    Trascorsi due anni, le nonne lasciarono intendere con allusioni e mezze parole che fosse venuto il momento di altra prole, un fratello o una sorella per William. Anne le accontentò, restando incinta, ma iniziò a sentirsi indisposta, entrando nel quarto mese. Quando Anne, dopo sedici settimane, ebbe un aborto spontaneo, il dottor MacKenzie non le permise di essere indulgente con se stessa. Nei suoi appunti, scrisse «preeclampsia?» e le disse: «Signora Kane, il motivo per cui non si sentiva bene è che la sua pressione sanguigna era troppo alta e probabilmente si sarebbe alzata ulteriormente con l’avanzare della gravidanza. Temo che i medici non abbiano ancora trovato la cura per l’ipertensione. Anzi, sappiamo pochissimo di tale problema, se non che si tratta di una condizione pericolosa, soprattutto per una donna incinta».

    Anne trattenne le lacrime, mentre soppesava le implicazioni di un futuro senza altri figli.

    «Non si ripresenterebbe di certo, se dovessi restare nuovamente incinta?» chiese, formulando la domanda in maniera da rendere incline il dottore a una risposta favorevole.

    «Francamente, sarei molto sorpreso se così non fosse, signora Kane. Sono spiacente di doverglielo dire, ma le sconsiglio vivamente di fare un altro figlio.»

    «Ma non mi importa di avere una lieve indisposizione per qualche mese, se significa…»

    «Non sto parlando di una lieve indisposizione, signora Kane. Sto parlando di non correre rischi inutili.»

    Fu un colpo terribile per Anne e anche per Richard, che aveva dato per scontato di poter generare una famiglia abbastanza grande da far sì che il nome dei Kane sopravvivesse in eterno. Ora quella responsabilità era

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