Contorni opachi
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Matilde ed Elide: due modi di amare e di essere madri.
Cosa accomuna il giovane alle due donne? Forse il semplice desiderio di sentirsi uniti, almeno per un momento, o forse l’urgenza di scoprire la verità.
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Book preview
Contorni opachi - Anthony Caruana
Rice)
Prefazione
Leggere Contorni opachi
di Anthony Caruana è un’esperienza rara, che fa scaturire delle emozioni profonde, come accade soltanto con i romanzi che parlano all’anima dei lettori. L’opera coinvolge ed emoziona, cattura col suo incedere misterioso, fatto di scarti minimali, d’improvvise accelerazioni e di sprazzi di scrittura lirica. L’autore ha il dono di una narrazione ipnotica, a cerchi concentrici, che sa prendere per mano il lettore per condurlo lungo percorsi esistenziali densi di avvenimenti, grazie a personaggi che, anche una volta chiuso il libro, restano dentro, continuano a persistere, attivano a lungo emozioni dense. La scrittura di Caruana è estremamente naturale, obbedisce alla ricerca di leggerezza tanto cara a Italo Calvino, s’articola in periodi che scaturiscono sulla pagina come i cerchi che seguono il lancio di un sasso in una superficie d’acqua. Perché Contorni opachi
è un’opera che pretende dal lettore la voglia di rompere con le piatte superfici dei troppi romanzi mainstream che si possono trovare in libreria, per accettare una narrazione che invita a fare un viaggio nell’anima dei personaggi, oltre la descrizione psicologica, pure precisa e accurata. Amore, disincanto, dolore, resilienza, rabbia, disamore, ancora e sempre amore in tutte le sue declinazioni, incomprensioni e capacità di ricominciare. Contorni opachi
provoca e invita alla riflessione, fa specchiare e restituisce immagini cangianti, sorprendenti, dove ci riconosciamo e che per questo c’emozionano e, a volte, c’inquietano. Perché ognuno di noi, in una sera qualunque, camminando sul marciapiede della città dove vive, potrebbe incrociare gli altri e vederne solo i contorni opachi. Perché ognuno di noi potrebbe sentirsi sperso e confuso e ritrovare misteriosamente la sua strada grazie alle voci del mondo che entrano nelle sue orecchie, percuotono i timpani, corrono lungo le vie nervose e si fanno messaggi nel cervello, che poi è come dire nell’anima.
Gino Saladini,
medico legale, criminologo, opinionista per Rai, Mediaset e Sky, è autore, insieme a Vincenzo Mastronardi, del thriller storico Hypnos (Sonzogno 2019). Ha pubblicato anche i romanzi Omicidi a margine di qualcosa di magico – Sincro (Gan- gemi 2004), L’uccisore (Rizzoli 2015) e Roma Giungla con Christian Lucidi (Marsilio 2020).
PRIMA PARTE
LA TELEFONATA
CAPITOLO I
Era autunno inoltrato. Me ne accorsi dai rami del melograno, carichi di frutti dai colori vivaci, che osservai una mattina dalla finestra della cucina con il caffè bollente in mano e gli occhi ancora appiccicati per il sonno. Era da qualche giorno che non mettevo piede fuori di casa. Dal balcone di fronte, la vicina con i capelli raccolti in un foulard arancione stendeva i panni sperando in un sole che ancora non voleva uscire, e che se ne stava nascosto dietro le nuvole del mattino.
Lo squillo del telefono fisso mi fece sobbalzare.
Nessuno chiamava più a casa. Risposi sperando di non dovere intraprendere una battaglia estenuante di insulti con un’addetta dall’accento bizzarro di un call center di qualche ditta telefonica.
«Tua zia è morta.»
«Cosa? Chi? Mi scusi, con chi parlo?»
«Deve recarsi in via Marcello Pucci, a Milano. È parente della signora e dovrebbe venire a sbrigare le pratiche per la sepoltura.»
«Ma di cosa sta parlando? Io non ho nessuna zia. Chi sarebbe la defunta?»
«La signora Mafalda Timoi.»
«Mai sentito questo nome. Ci deve essere un errore.»
«Lei è il signor Augusto Blasi?»
«Sì, sono io.»
«Allora non c’è nessun errore. Buona giornata.»
Il silenzio nella cornetta mi colpì come uno schiaffo in pieno viso. Il caffè era ormai freddo nella tazza. Raggiunsi il lavello della cucina e versai il liquido nero che vorticò verso i buchi del suo oblio.
Una zia? Morta?
mi domandavo incredulo.
Rimasi fermo, con i piedi pietrificati sul pavimento della cucina, fino a quando il suono di un clacson dalla strada non mi riportò alla realtà. Andai in bagno, trascinandomi insonnolito per il corridoio. Mi annusai sotto l’ascella, decisi di farmi una doccia e di mettere il pigiama nella cesta dei panni sporchi. Sulla mensola, sopra il lavandino, c’era ancora il suo spazzolino da denti con le setole secche e ingiallite.
Se ne era andata una mattina. Di punto in bianco, senza darmi una spiegazione, senza lasciare né un biglietto né un messaggio. Il suo telefono da quel momento risultava irraggiungibile. Avevo provato a contattare Cinzia, una sua amica con la quale si era trasferita a Roma da Bologna per cercare lavoro. Mi aveva liquidato in fretta dicendomi che Lidia non voleva avere più niente a che fare con me. Sbirciavo di tanto in tanto la sua pagina Facebook, ma da quel lunedì in cui era sparita, nessun post, nessun aggiornamento. Volatilizzata.
Non riuscivo a dare una spiegazione a quella fuga. Cominciavo ad amarla. Dopo sei mesi di convivenza si era creata una sorta di famigliarità, amabile e rassicurante. Facevamo spesso l’amore. Ogni volta che ci era possibile. Ovunque. Scappando, non aveva lasciato niente, neanche un abito, un paio di mutandine, un paio di scarpe. Nulla. Solo lo spazzolino, reliquiario della sua saliva.
Poco prima, avevo perso il lavoro e la fuga di Lidia era stata il colpo di grazia. Mi lavavo di rado e mangiavo appena il necessario per sopravvivere. Rimasi ad arrovellarmi il cervello per ore e ore senza accorgermi del tempo che mi sfuggiva dalle mani.
Il getto d’acqua bollente della doccia riempì il mio bagno di una condensa fragile che si aggrappava alle piastrelle e allo specchio, dove la mia immagine cominciava a dissolversi. Mentre mi osservavo i peli delle gambe, che sotto la doccia cambiavano aspetto come sabbia modellata dal vento, ebbi un’erezione. Strascico del risveglio mattutino. Ignorai quella reazione del mio corpo coccolato dal tepore, e cercai di ricordare chi potesse essere questa zia Mafalda.
Non mi diceva niente.
L’immagine che stavo generando del suo volto si confondeva con quella di Lidia, chissà per quale strano scherzo del cervello. I denti bianchi, il collo sottile e una montagna di capelli rossi. Gli occhi marroni che diventavano più chiari alla luce del sole, quasi gialli.
Era passato circa un anno dal nostro primo incontro. Passeggiavo su ponte Sisto nella calura estiva dei sampietrini appiccicosi di luglio, da solo, come mi capitava spesso in quel periodo dell’anno, e stavo mangiando un gelato. L’avevo vista di spalle, piegata sulle ginocchia, che rovistava tra migliaia di cianfrusaglie argentate sopra il banchetto di un venditore ambulante senegalese. Indossava una canottiera dalle bretelle sottili che mostrava delle efelidi arrossate sulla pelle chiara appena scottata dal sole. Stava insieme a quella che poi mi avrebbe presentato come Cinzia, la sua migliore amica. Credendo che fossero straniere, mi ero avvicinato a loro con un inglese in modalità turista-acchiappone, ma ero stato immediatamente stroncato da un: «Scusi, cosa vuole?».
Lidia si era portata la mano dalle dita sottili e pallide davanti alla bocca, ma non era riuscita a nascondere il suo splendido sorriso. Mi ero così presentato: «Piacere, Augusto». Mi avevano stretto entrambe la mano, e poi avevamo attraversato il ponte per immergerci nella bellezza senza tempo della città. Avevo fatto loro da Cicerone, visto che si erano trasferite a Roma da un paio di settimane. E così, da quel giorno, avevamo cominciato a frequentarci.
Il ricordo di quelle giornate spensierate sfumò presto al pensiero di passare da mia madre, il prima possibile, per chiederle chi fosse questa zia Mafalda. Le telefonai e le dissi che sarei andato a pranzo, senza aggiungere altro. Del resto non era una cosa strana, di tanto in tanto capitava. Presi la metro A e scesi a Furio Camillo. Suonai al citofono poco dopo l’una. Salii e, quando entrai, mi accorsi che era andata dal parrucchiere: un taglio da signora, tinta fresca e colpi di sole opachi. Mi osservava da dietro le lenti degli occhiali con il suo modo autoritario e dolce allo stresso tempo. Gli occhi di una madre, seppur segnati dagli innumerevoli turni in ospedale come infermiera, con le spalle forti come rocce e le braccia esili come ali di farfalla. Mi aspettavano cannelloni al ragù e fettine panate con contorno di patate novelle. Per lei era sempre domenica. Quando la moka cominciò a sputare le prime lacrime di caffè affrontai il discorso: «Mamma, mi è arrivata una telefonata strana stamane.»
«Strana in che senso, tesoro? Chi era? Cosa volevano?» Lei era sempre molto apprensiva con me.
«Non lo so. Ma mi ha turbato.»
Mia madre cominciò a riempire le tazze di caffè e a girare lo zucchero, io distratto guardavo un programma su La7. «Posso farti una domanda?»
«Certo, tesoro.»
«Chi è zia Mafalda?» chiesi a bruciapelo.
«Zia Mafalda?»
«Sì, Mafalda.»
«Non hai nessuna zia che si chiama così.»
«Pensaci bene.»
«Ma tesoro, dovrei saperlo, no? Tu che dici?» insistette senza alzare lo sguardo dal caffè.
«Certo, ma quella voce al telefono… Non so come dirti, sembrava sapesse il fatto suo.»
«Cosa intendi?»
«Mi conosceva. Mi ha chiamato per nome e cognome.»
«Augusto, oggigiorno non ci vuole niente a reperire un minimo di informazioni personali.»
«Hai ragione. Ma aveva qualcosa di famigliare nel tono della voce.»
«Be’, in realtà…»
«In realtà, cosa?»
«Ecco, ci sarebbe…» proseguì sempre più a disagio.
«Mamma, parla! Cosa stai dicendo?»
«Dovresti sentire tuo padre. Non posso certo chiederglielo io…» disse mia madre con le mani nell’acqua del lavello tornando a sciacquare i piatti.
«Mamma, lo sai che non ci parliamo.»
«Figurati io. Non lo posso vedere neanche in cartolina.»
«Insomma, allora che mi volevi dire?»
Mia madre sospirò. Si asciugò le mani sul grembiule e si voltò verso di me. Controvoglia, cominciò a raccontarmi: «Tuo nonno Armando, che non hai mai conosciuto, molti anni fa ebbe una relazione clandestina. Ai tempi, queste cose si seppellivano nel silenzio. Per giunta, lei era molto più giovane di lui. Fu uno scandalo! Tuo padre ne rimase molto ferito, quando lo venne a sapere. Forse il carattere orribile che si ritrova è proprio per via di quella ferita mai cicatrizzata. Il suo nome era Mafalda. Mafalda Timoi, appunto.»
«Ma… non capisco. Che c’entra con me, con noi! Perché quell’Alfonso, così mi ha detto di chiamarsi, me ne ha parlato come se fosse mia zia?»
«Alfonso è uno dei suoi due figli. L’altro si chiama Aleandro.»
«Continuo a non capire…» insistetti.
«Parla con tuo padre. Preferirei starne fuori» concluse secca, con gli occhi bassi sulle mani nervose che tormentavano l’orlo del grembiule.
«Perché non me ne avete mai parlato?» la incalzai, ignorando la sua richiesta.
«È stata una decisione di tuo padre. Irremovibile.»
Rimasi a bocca aperta con il panno in mano ad asciugare le stoviglie. Non parlammo più. A mia madre scese una lacrima sulla guancia. La osservai solcarle il viso senza sosta, senza pietà. Allungai il dorso della mano per asciugargliela, ma mi fermai, incapace di un gesto a me totalmente estraneo. Mi disse che voleva riposare. Mi accompagnò all’ingresso e mi salutò con una leggera carezza sulla spalla. Quando mi girai per guardarla, prima di entrare nell’ascensore, aveva già chiuso la porta.
Mentre scendevo, mi osservai allo specchio brunito e bordato di ruggine. Stava succedendo di nuovo. Avevo finito le pillole. Dovevo comprarle assolutamente. Il prima possibile. Era passato solo un giorno senza che le prendessi, e già cominciavo a vedere eserciti di cimici che, uscendo da una ferita aperta e purulenta sul lato destro del mio collo, mi entravano su per il naso. Distolsi lo sguardo dalla mia immagine riflessa. Quelle minuscole pillole, piccole come lenticchie, tenevano a bada le mie fobie.
Mi ritrovai in strada, sepolto da mille clacson impazziti e macchine in processione a passo d’uomo nel traffico dell’ora di punta. A Roma è sempre l’ora di punta, pensai. Mi avvicinai a una farmacia sotto casa di mia madre. Aprii il portafoglio e mi accorsi di non avere la ricetta per i farmaci. Sarei dovuto andare dal dottor Crocetta per farmeli prescrivere. Raggiunsi la metro ancora turbato dalla rivelazione di mia madre. Non c’era altra soluzione. Avrei dovuto affrontare mio padre, probabilmente la vera causa della mia psicosi.
CAPITOLO II
Avevo vent’anni il primo giorno che misi piede nello stu dio del dottor Crocetta, non sapevo cosa aspettarmi. Era stata mia madre a insistere. Pur lavorando come infermiera e conoscendo diversi medici di persona, aveva preferito affidarsi a un perfetto sconosciuto scovato in rete. In mezzo a foto più o meno accattivanti, aveva scelto quella di un faccione sorridente con la barba rossiccia e un cappello da investigatore.
Quando la segretaria, un tipetto occhialuto con un tailleur canarino che le fasciava perfettamente i fianchi, ci aveva fatto accomodare in una stanza stracolma di carte, libri e cianfrusaglie di ogni genere, un senso di claustrofobia mi aveva paralizzato le gambe. Ero rimasto in piedi senza muovermi.
«Accomodati, il professore arriverà tra qualche minuto.»
«Grazie…» avevo farfugliato.
Professore.
Mi ripetevo questa parola in mente, sgranando un rosario immaginario che, al posto dei grani, aveva spire di serpente. Mia madre, in sala di attesa, mi fissava in preda all’angoscia.
Il professore non somigliava affatto al tizio rassicurante a cui aveva sperato di affidare le mie allucinazioni. Volevo scappare. Fuggire lontano. Ma l’aroma di liquirizia del bastoncino che teneva stretto tra i denti mi aveva ipnotizzato, rassicurandomi. Il dottor Crocetta non aveva neanche un pelo sul viso. Niente capelli, niente barba, solo due foltissime sopracciglia, un colorito fangoso in contrasto con due guance rubiconde accese come teste di fiammiferi.
Era stata subito sintonia. Dopo aver superato il primo inevitabile imbarazzo e dopo avergli raccontato con chi facevo sesso, come, quando, dove e perché, ed esplorato le mie fantasie erotiche durante le solitarie sedute masturbatorie, avevo cominciato a lasciarmi andare e a fidarmi di lui. Così, dopo tre mesi di terapia, gli avevo parlato delle mie visioni-allucinazioni. (Sintomi)
Paranoide-ipocondriaco. (Diagnosi)
Prozin. (Cura)
Quelle parole mi erano rimbombate in testa come una sentenza di morte. Avevo curvato le spalle e cominciato a piangere. Il professore aveva cercato di calmarmi dandomi dei colpetti sulla schiena con la sua mano scheletrica, le cui vene, a me sembrava, brulicassero di vermi. Avevo finito il pacchetto di Kleenex e avevo iniziato a tirare su col naso, cercando con la manica del maglione di tamponare il moccio come fanno i bambini sui grembiuli fra i banchi delle scuole elementari.
«Vedrai, starai meglio» mi aveva rassicurato il professore, asciugandomi le lacrime sul volto sconvolto. Lo avevo abbracciato e non sarei riuscito a staccarmi da quel paterno conforto per molto tempo.
L’orologio a parete mi aveva ricordato che era finita la seduta. Avevo ringraziato il dottore con la ricetta piegata nella tasca posteriore destra dei pantaloni. E così avevo cominciato la cura.
Erano dieci anni che andavo avanti a pasticche. Tutti i giorni. Ero dipendente. Ma almeno stavo meglio.
Per quanto l’idea di vedere mio padre mi agitasse, ero determinato ad andare fino in fondo e, per farlo, avevo bisogno più che mai delle medicine. Entrai nel portone dello studio del professore in via Nazionale, salii le scale con la schiena zuppa di sudore. Prima di suonare il campanello, mi fermai ad ascoltare. Qualcuno sul pianerottolo si stava esercitando nella progressione armonica di Waltz For Debby di Bill Evans. Un tocco delicato, di donna. Il tre quarti girava nell’aria, soffice e ciclico. La melodia saltava tra gli intervalli come un volo di uccelli. Chiusi gli occhi e non mi accorsi che qualcuno mi stava parlando. Solo dopo l’ultima nota sospesa sorrisi alla segretaria che mi osservava con la testa piegata da un lato e i capelli mossi ad accarezzarle le spalle.
«Augusto, che succede?» domandò visibilmente preoccupata.
«Vorrei vedere il professore.»
«È impossibile. Il dottor Crocetta sta poco bene e non sappiamo per quanto si assenterà.»
«Come? Io… io non sapevo niente!»
«È successo qualche giorno fa, non siamo ancora riusciti ad avvisare tutti. Ma non ti preoccupare, abbiamo un sostituto: una dottoressa davvero in gamba.»
«Una dottoressa?»
«Sì, la dottoressa Ricci. Se aspetti nella sala d’attesa, ti ci faccio parlare appena si libera.»
«Non lo so. Io non la conosco.»
«Tranquillo, Augusto. Saprà come metterti a tuo agio.»
Passò solo qualche minuto. Mi si avvicinò una donna bassa di statura. Indossava un vestito attillato che conteneva a fatica una corporatura robusta e appariscente. Portava