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Una parentesi stravagante
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Una parentesi stravagante

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About this ebook

Sara è una giovane fioraia, innamorata del suo lavoro. Progetta di sposarsi con Miro non appena conclusi i lavori di ristrutturazione della vecchia casa che ha ricevuto in eredità dalla zia. Ma, come spesso accade, il destino decide di scombinare i suoi piani e, per allontanarsi dal mondo, si rifugia nel posto più improbabile: il cantiere della sua futura abitazione. Tuttavia, molto presto scoprirà di non essere sola...
LanguageItaliano
Release dateMar 16, 2021
ISBN9791220278331
Una parentesi stravagante

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    Una parentesi stravagante - Arianna Ciancaleoni

    stone

    ​NON TI SCORDAR DI ME

    (Myosotis sylvatica)

    Indossare la mantella di cachemire azzurra che mi aveva regalato mia madre per Natale forse non era stata la soluzione più appropriata.

    È una verità universalmente riconosciuta che il 20 di maggio sia piena primavera ma quella sembrava piuttosto una regolare giornata d’inverno, con il vento che mi stava spogliando tanto da non riuscire quasi a tenermi in equilibrio. Anche l’idea di portare le piante con me era stata lapeggiore che avessi avuto.

    Non sono mai stata famosa per le mie scelte geniali e azzeccate, lo ammetto. Oltre ai fiori, avevo tra le mani un innaffiatoio, il portapranzo e la mia solita borsa pesante.

    Mentre cercavo di aprire il portone, mi scivolarono le chiavi. Rimasi per un momento basita e immobile e le prime gocce di pioggia sferzante mi colpirono in pieno viso, infradiciandomi i capelli. Allora feci un respiro profondo e, con calma, appoggiai a terra tutto quello che avevo in mano. Raccolsi le chiavi, aprii il portone facendo forza e, con una lentezza che non mi apparteneva, trasportai uno a uno gli oggetti che avevo con me al sicuro dalle intemperie.

    Non che dentro la temperatura fosse più gradevole.

    Sospettavo che nessuno avesse più acceso il caminetto dagli anni Novanta, da quando la zia aveva smesso di abitare lì dentro e si era trasferita in ospizio, ma ero fiduciosa che presto io e Miro saremmo riusciti a far tornare un po’ di calore in quel gelo.

    Feci un giro veloce e mi accorsi che i lavori non erano andati avanti dall’ultima volta che ero stata lì. Dall’inizio della ristrutturazione, non c’era stato giorno in cui il preventivo iniziale non fosse stato rivisto: tutto aveva creato più problemi di quanti ne potessi immaginare. E aveva richiesto molti più soldi.

    Cercavo di non dare importanza ai messaggi che la banca mi inviava ogni mattina alle 8, aggiornandomi sullo stato del mio conto corrente. Sarebbe andato tutto bene, mi ripetevo. Ce l’avrei fatta.

    Al momento le piantine sarebbero restate lì, per terra, sperando che gli operai le lasciassero intatte. Non era il clima adatto per trapiantarle. Forse avrei dovuto mettere un messaggio sulla porta, ma sperai che se ne accorgessero da soli e decisi di dar loro fiducia.

    Intanto, prima di mangiare l’insalata di riso che mi ero portata, anche se quel giorno ci sarebbe stata meglio una zuppa calda, attraversai il lungo corridoio buio della zona notte, con l’idea di prendere il cellulare e dirne quattro al responsabile dei lavori.

    Non era cambiato niente, dall’ultima volta che ero stata lì e non intendevo passare un altro inverno a vivere con mia madre.

    Avrei preferito trasferirmi anche senza termosifoni.

    Ripensandoci, forse no. Rabbrividii.

    Proprio in quel momento mi arrivò una ventata gelida e per un attimo mi chiesi se, per errore, non avessi lasciato aperto il portone.

    Gettai uno sguardo veloce, ma era chiuso. C’erano diverse finestre che davano sul porticato, la mia zona preferita, dove mi sarei fermata a mangiare, se fuori non avesse infuriato la tempesta. Avevo anche portato un tavolino di legno proprio per questo: speravo di poter passare qualche pausa pranzo in tranquillità e solitudine, fissando un punto indefinito del giardino, per il momento incolto. E riflettendo sul mio futuro.

    La porta finestra della camera da letto più grande era spalancata.

    Ero pronta ad aggiungere un altro punto alla lista di improperi che avrei urlato al direttore dei lavori. Lì dentro non c’era nulla di valore, va bene, ma come si era permesso di lasciare tutto aperto? Tuttavia dovetti ricredermi quando mi accorsi che lì fuori, seduto al mio tavolino, c’era qualcuno.

    La prima cosa che notai furono le sue spalle scoperte.

    Poi, la scritta sulla schiena, proprio sotto ai capelli, legati in una coda scomposta: Guns ‘n Roses - Not in This Lifetime Tour . Lo riconobbi, era un operaio del cantiere. Stava mangiando al mio tavolo, come avrei voluto fare io di lì a poco.

    «Buongiorno?» dissi, con una nota interrogativa nella voce.

    Lui si voltò di soprassalto: non si aspettava che qualcuno arrivasse a interromperlo e mi guardò con aria scocciata.

    «Ah» rispose, tentando di ricomporsi, «stavo solo mangiando prima di ricominciare a lavorare. Ma me ne vado, non si preoccupi.»

    Quindi raccolse le briciole e fece per incartare di nuovo il panino.

    «No» ribattei, «non ce n’è bisogno. Può restare… sono solo venuta a vedere se c’erano novità, con i lavori.»

    Lui annuì ma poi si accorse che avevo il pranzo in mano.

    «Deve anche mangiare, quindi immagino che non vorrà estranei intorno. Questo portico è fatto apposta per star soli» disse, indicando l’unica sedia, su cui si era accomodato fino a pochi secondi prima. Quindi infilò tutto in un borsone che aveva lì vicino, mentre io mi sedevo sulla soglia della finestra.

    «Sono abituata a stare in piedi anche per tutto il giorno e a stare in mezzo alla gente, anche zitta» continuai, «per cui posso restare qui a mangiare e non dar fastidio.»

    Lui si voltò di nuovo a guardarmi, dopo essersi caricato lo zaino sulle spalle. La coda ormai gli si era disfatta e aveva i capelli scomposti che ricadevano lungo il collo. Allora mi chinai a raccogliere l’elastico che gli era caduto e glielo porsi.

    «Grazie» rispose, sebbene dai suoi occhi trasparisse tutt’altro che gratitudine. Poi entrò oltre la porta finestra senza dire altro.

    Sospirai, avvicinandomi al tavolo per prendere il suo posto, quando lo sentii imprecare dal salotto e cadere a terra. Corsi a vedere cosa fosse successo e mi accorsi che era inciampato sulle piante che avevo lasciato in mezzo al passaggio. Stava cercando di rialzarsi e di raccogliere quello che era uscito dal borsone, incluso il panino, che era rotolato in un angolo tra calce e spazzatura.

    «È tua, ‘sta roba? Che ti sei portata, le violette?» mi urlò con disprezzo.

    «Nontiscordardime» precisai. Lui restò per un attimo basito, a fissarmi. Non aveva capito.

    «Sono dei nontiscordardime, non violette» ribadii, cercando di non scoppiare a ridere.

    Per tutta risposta stralunò gli occhi, si sistemò per quanto possibile, pulendosi i jeans con le mani e si legò di nuovo i capelli, stavolta più stretti.

    «Se li lasci lì in mezzo, non faranno una bella fine» mi avvertì, sogghignando. «Ma credo che non faranno una bella fine comunque. Qui dentro l’aria puzza di calce ed è sempre buio. Come pensi che possano crescerti le… piantine?»

    «Non ti preoccupare» gli risposi, passando al tu, come aveva fatto lui, «sono sicura che riusciranno a resistere, in qualche modo.»

    Quindi mi chinai per raccoglierle e controllare se fossero a posto. Nel frattempo lo sentii armeggiare ancora con il borsone e poi tentare di aprire il vecchio portone. Non avevano ancora cambiato gli infissi, per cui ogni tanto c’era bisogno di un po’ di forza per aprirli. Ma lui diede un calcio allo stipite e uscì.

    «Fai tu» mi disse, prima di chiudere. «Poi però non ti lamentare se fra pochi giorni le troverai rinsecchite o calpestate.»

    Subito dopo mi affacciai alla vecchia finestra, mentre saliva in una station wagon color polvere, macchiata solo dalla pioggia che si era fatta sempre più insistente.

    «Sarebbe il caso di andare avanti coi lavori, invece di prendersi gioco delle proprietarie delle case, non trovi?» gli urlai.

    Lui alzò un sopracciglio e entrò in macchina.

    «Vuoi la verità? Dei tuoi lavori non me ne frega proprio niente» ribatté lapidario, prima di accendere il motore e andarsene.

    Adesso avevo un motivo in più per chiamare il responsabile del cantiere e lamentarmi. Pensai di farlo subito, ma mi resi conto che era tardi e avevo già perso troppo tempo, per cui chiusi la finestra e tornai al mio pranzo che, ormai era ovvio, non potevo gustare come avevo previsto. Fuori, la pioggia sembrava tagliare l’aria in orizzontale e io non potevo permettermi di ammalarmi quindi mi sedetti a terra, vicino alla futura doccia e accanto ai miei fiori sopravvissuti, per cominciare a mangiare.

    Sperai che la profezia di quell’operaio non si avverasse e che le mie piantine potessero crescere rigogliose, mentre continuavo a chiedermi chi fosse il tipo con cui avevo appena parlato.

    Era lui che si era appropriato di uno spazio mio e non il contrario. Io ero stata fin troppo gentile ma mi ero comunque beccata qualche insulto neanche troppo velato e un anatema contro le piante. Solo perché era vagamente attraente, con quei capelli lunghi e l’aria da rocker maledetto, pensava davvero di potermi umiliare in quel modo? Non sapevo neppure come si chiamasse, ma se l’avessi rincontrato sulla mia strada, in una delle prossime visite al cantiere, avrei provveduto a fargli capire che non ero così ingenua come, di certo, mi aveva giudicata. I fiori erano il mio mondo e lo erano sempre stati. Uno che non riconosceva le violette dai nontiscordardime, cosa poteva mai saperne?

    Prima di andarmene li disposi sul piatto della doccia, innaffiandoli con la bottiglietta d’acqua che avevo con me. Avrei dovuto organizzarmi meglio. Forse era davvero inutile e anche un po’ stupido portar fiori lì dentro. Ma avevo bisogno di dare un po’ di colore al grigio che mi vedevo intorno, anche solo con quell’azzurro pastello così delicato.

    Senza una ragione, mi chiesi se quel ragazzo, di me, si fosse già dimenticato, mentre io continuavo a pensarci.

    ​FIORDALISO

    (Centaurea cyanus)

    Alle 15 in punto tornai al negozio.

    Mia madre non era ancora arrivata, quindi fui io ad aprire. Immaginai che, con una giornata come quella, poche persone sarebbero venute a commissionare composizioni di fiori per il cimitero o per qualche regalo. E le spose di maggio sarebbero state impegnate a disperarsi per il maltempo, piuttosto che ideare i tableau e scegliere tra le orchidee e i fiori d’arancio. Meglio così, sarebbe stato un pomeriggio poco impegnativo, che avrei passato a sistemare, pulire e, con tutta probabilità, a sentire i lamenti di mia madre. Speravo non fosse venuta a sapere in nessun modo che quella sera avrei cenato con mio padre. Ero stata piuttosto evasiva, per evitare la mitragliata di domande e raccomandazioni che sicuramente mi avrebbe bersagliato addosso. Sognavo che la mia casa fosse pronta prima possibile per star lontano dalle sue paranoie almeno fuori dall’orario di lavoro.

    Quando arrivò, il negozio era già pieno di persone. Venni a sapere che era il compleanno del sindaco, di una mamma con tre figli maschi poco fantasiosi e della nonna di un mio vecchio compagno di liceo che rividi quel giorno dopo anni.

    Per di più, quando pensavo che gli impegni volgessero al termine e non ero ancora riuscita a dare una sistemata a nulla, mia madre disse che stava per arrivare la wedding planner per parlarmi di un nuovo matrimonio. Le rogne erano tutte delegate a me. Non che mi dispiacesse organizzare matrimoni insieme a Gaia, ma le spose erano sempre un problema: o erano indecise e cambiavano idea in continuazione, oppure volevano un matrimonio come Chiara Ferragni con un budget di poche centinaia di euro.

    Per fortuna, Gaia era nata per fare la wedding planner. Da quando aveva aperto la sua agenzia, da sola e tra lo stupore generale, non c’era stata sposa del circondario che non si fosse rivolta a lei. In breve tempo aveva assunto due dipendenti e perfino qualche giornale nazionale si era interessato al suo piccolo miracolo. Oltre a essere organizzata, paziente, creativa e intuitiva, era la nostra acquirente principale di fiori viola: era ossessionata da quel colore tanto da aver chiamato la sua agenzia Something Violet. Non passava giorno in cui lei e le sue collaboratrici, sempre impeccabili, non indossassero accessori dal glicine al fucsia e gli uffici erano sempre decorati con fiori freschissimi.

    Le spose apprezzavano la sua professionalità e la cura dei dettagli, non mi era mai successo di sentire voci negative sul suo conto. Gaia arrivò poco dopo le 19, sfinita dall’ennesima giornata pesante, così la feci accomodare nella stanza che di solito riservavamo ai clienti con esigenze particolari di allestimenti o giardinaggio.

    «Per fortuna ci sono Bianca e Barbara in ufficio» esordì, sfilandosi il cappotto, quasi fradicio. «Non so davvero cosa sia successo oggi, le spose di settembre e ottobre sembrano tutte impazzite!»

    «Avranno visto il tempo e si sono allarmate, temendo che al loro matrimonio succeda lo stesso» ipotizzai.

    «Devo restare calma e sperare che vada tutto per il meglio» cercò di calmarsi, massaggiandosi le tempie. «Non è facile restare saldi quando intorno hai uno stuolo di trentenni impazzite!»

    Poi sospirò, prima di gettarsi di nuovo a capofitto nel lavoro: programmammo alcuni degli eventi in arrivo, finché non mi resi conto che stavo per fare tardi all’appuntamento con mio padre e le chiesi se potessimo continuare la mattina successiva.

    «Ti mando una delle ragazze, però. Domani ho una cliente che non posso rimandare: si sposa la mia migliore amica e non posso trascurarla. Non me lo perdonerebbe mai!» esclamò ridendo.

    Non c’era problema. Salutai mia madre, dicendo che ci saremmo riviste più tardi e lasciandole intendere che sarei andata a cena con Miro, mentre invece ero diretta da papà. I miei erano separati da così tanti anni che il loro divorzio per me non era stato un grosso trauma e neanche per i miei fratelli gemelli, che all’epoca erano già grandi. Avevano deciso di lasciarsi quando avevo dieci anni e, sebbene ora ne avessi ventotto, era evidente che in tutto quel tempo mamma non si fosse ancora rassegnata. Si era separata perché voleva la sua libertà e non sopportava di stare con un marito che, per sua stessa ammissione, le tarpava le ali. Così aveva aperto il negozio di fiori: prima un piccolo container nei pressi del cimitero, poi un vero e proprio punto di riferimento in città. Il mio arrivo e la collaborazione con Gaia erano stati solo la parte più recente del suo successo. Sapevo quanto ne fosse orgogliosa: si era dedicata anima e corpo al progetto, sacrificando anche il resto della sua vita, in primis quella sentimentale. Quando poi si era resa conto di essere troppo sola e aveva ricominciato a pensare a papà con nostalgia, era troppo tardi: lui aveva già trovato una sostituta.

    Tina, la sua nuova compagna non era la classica matrigna delle favole: era una delle persone più dolci e discrete che conoscessi. Non aveva fatto nulla per impormi la sua presenza e si era sempre dimostrata gentile e comprensiva, facendo breccia nel mio cuore in pochissimo tempo. Era una coetanea di mio padre, oltre che un suo ex amore di gioventù.

    Arrivai a cena con un po’ di ritardo, ma nessuno me lo fece pesare. Non avevo neanche avuto tempo di cambiarmi, per cui sperai di essere almeno presentabile. Avevo portato, come facevo sempre, un mazzo di fiori per Tina e scelto una composizione semplice di fiordalisi, perché mi ricordavano il suo carattere e la sua delicatezza. Lei li apprezzò moltissimo e li sistemò al centro della tavola. A quel punto, mi accorsi che non saremmo stati soli: con noi c’era anche suo figlio Tommaso. Non lo conoscevo molto bene, ci eravamo incontrati solo durante qualche cerimonia o festa

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