Soho Dark hall street
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Book preview
Soho Dark hall street - Cristian Virecci Fana
Cristian Virecci Fana
SOHO
DARK HALL STREET
Elison Publishing
Grafica di copertina: Ilaria Greco
Illustrazioni: Martina Mandile
© 2021 Elison Publishing
Tutti i diritti sono riservati
www.elisonpublishing.com
ISBN 9788869632648
A te, che nel tuo piccolo
mi hai insegnato tanto.
Indice
Soho
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
«Tu forse ancora non lo hai capito, ben presto si sentirà parlare di noi.»
Soho
Dark Hall Street
Introduzione a Soho
Soho non era mai stato un paese conosciuto, né tantomeno rinomato, era sempre rimasto nell’anonimato e ai suoi abitanti andava bene così. Non amavano gli stranieri, ed era più che lecito considerando che mostravano poca confidenza anche tra loro.
Tutto taceva in questo assonnato paese, fino a quando, un giorno, iniziarono a verificarsi eventi strani e inspiegabili.
Le voci volavano come trasportate da un vento gelido d’inverno e le storie si alimentavano. Persone anche da altre parti del mondo iniziarono a discuterne. Nel giro di poco tempo nacquero racconti capaci di far rabbrividire e gelare il sangue anche al più tenace e coraggioso degli uomini.
Un’ombra si era abbattuta lentamente a Soho e aveva incupito le anime dei suoi abitanti. Un’ombra che proveniva dal cielo o forse dal profondo della terra. Un’ombra che aleggiava in ogni nicchia, ogni angolo e ogni via del paese, soprattutto una: la via (come l’avrebbero soprannominata poi gli abitanti stessi di Soho) innominabile.
Molti libri vennero così pubblicati rendendo la vicenda ancora più affascinante e misteriosa di quanto non fosse.
Gli abitanti di Soho da parte loro erano convinti di sapere la realtà dei fatti, anche se realmente nessuno di loro aveva mai assistito con i propri occhi agli eventi in questione. Alcuni giovani, che cercavano di distinguersi per coraggio, facevano a gara tra loro scommettendo su chi sarebbe rimasto per tutta la notte dentro quelle case abbandonate da tempo immemore.
La storia in questione ebbe inizio al termine degli anni più bui della civiltà: a quei tempi la guerra opprimeva gli animi delle persone.
La maggior parte della popolazione era occupata a pensare alle provviste, a rifugiarsi in luoghi sicuri, anche se in realtà gli scontri avanzavano verso oriente e non coinvolgevano direttamente la popolazione a occidente. Ma la guerra esigeva sempre nuova carne. Di consueto strappava alle famiglie i loro cari: uomini e alle volte anche giovani.
Col tempo iniziarono a giungere anche vagabondi, i quali girovagavano per le vie per poi svanire oltre i confini, a sud.
La guerra aveva inasprito tutto il mondo e in particolare gli abitanti di Soho. La gente soleva alzarsi al mattino e non augurare il buongiorno a nessuno. Si poteva scorgere, di tanto in tanto, nell’unica piazza al centro del paese, un gruppo di bambini giocherellare a pallone. Accanto a loro, seduti sulle panchine, i soliti anziani borbottavano rimembrando i tempi trascorsi.
Il tutto avveniva alle porte della primavera, quando l’aria fresca e il sole permettevano ai più anziani di uscire senza problemi. Prima della guerra, l’estate era da sempre stata la stagione preferita dagli abitanti di Soho, i quali erano soliti organizzare gare di pesca in un piccolo lago, distante poche miglia dal paese.
Tutto taceva invece durante l’autunno, verso la fine di settembre, quando giungeva alle porte il freddo e il gelo. La temperatura scendeva in maniera spropositata e gran parte dei cittadini trascorreva i loro giorni dentro casa.
Di sera la città era completamente deserta. L’unica luce che si poteva scorgere in lontananza era quella della piccola chiesa, poco distante dalla piazza, edificata anni addietro da un architetto di scarsa fama. L’entrata era composta da due colonne votive in marmo, avvolte da piante rampicanti e colme di meravigliosi fiori che le percorrevano, intrecciandosi tra loro.
La stessa chiesa una notte di tanto tempo fa, si scontrò con la sua cattiva sorte, poiché venne saccheggiata e successivamente incendiata. La colpa, come spesso accadeva, venne data agli stranieri provenienti da Oriente: Quelli sono i peggiori!
, avrebbe detto qualsiasi sohiano. L’edificio e ciò che vi era rimasto al suo interno (sicuramente non molto) finì col degradarsi anno dopo anno. Fortunatamente dopo qualche tempo venne ristrutturata, ma ormai quella chiesa aveva perso il suo fascino, così come ogni cosa in quel paese.
Il piccolo cimitero si trovava a nord, nella zona alta, costruito proprio sul dorso della collina. Isolato da ogni altra cosa, si celava tra la folta erba e gli anziani alberi trascurati ormai da tempo. La stazione poco più giù era l’unico punto in cui il cimitero si poteva scorgere nelle rare nottate senza nebbia.
Si diceva che il cimitero col passare degli anni fosse divenuto la dimora indisturbata di gente poco raccomandabile. Pochi erano coloro che si avventuravano lì sopra da soli o anche in compagnia.
Accedendo da sotto i binari tramite un sottopassaggio, si trovava una delle più belle vie del luogo: via Dedra. I pini, i cui aghi reclamavano il loro posto lungo tutta la strada, coprivano anche il marciapiede che, al calar della notte, era illuminato da antichi lampioni a olio che donavano, con la loro luce giallastra e fioca, un’atmosfera tanto meravigliosa quanto tetra. Alla fine della via, tra vecchi casolari e campagne, vi era un sentiero privo di qualsiasi fonte di luce. Inerpicandosi tra le colline, su a nord, si scorgeva un luogo ormai da tempo abbandonato. Nascosta tra neri ceppi e folti rovi vi era quel posto innominabile. Proprio lì ebbe inizio la triste storia di cui pochi coraggiosi narrano.
Lo si avverte nell’aria e lo si vede dagli alberi da tempo spogli.
Vorrei adesso narrarvi di questa storia, siete liberi di credere o meno a ciò che state per leggere. La mia modesta opinione è che ogni storia, anche la più insignificante, merita di essere raccontata.
Capitolo I
Una lunga amicizia
Nella tetra notte d’inverno tutto a Soho taceva.
Talvolta, oltre al sussurrare del vento che si infrangeva contro i rami, si udiva l’ululato dei cani vagabondi nella gelida oscurità.
Oltre a una piccola finestra in legno logoro e marcio, si riusciva a intravedere una luce fioca provenire da un camino che riscaldava un salotto in cui erano seduti un ragazzino di appena sedici anni, Henry Powers, e un altro uomo.
Henry era un ragazzo molto diverso dagli altri. Voleva emergere dall’anonimato e sapeva benissimo che Soho non era il luogo giusto per riuscire nella sua impresa. Sarebbe voluto partire da lì per poi tornare dopo molto tempo, andare in giro a conoscere il mondo, incontrare gente nuova e diventare qualcuno per distinguersi dai compagni che lo credevano molto meno capace di quanto non fosse e lo prendevano costantemente in giro. Prima o poi l’avrebbe fatto, solo che dentro di sé sapeva che non era ancora arrivato il momento. C’era una cosa che ostacolava il suo intento: un legame così solido di cui ancora non poteva fare a meno.
Quando era piccolo, amava recarsi al cimitero assieme al padre (prima che questo divenisse un luogo poco raccomandabile), per portare delle rose alla madre, deceduta prematuramente perché ne ricordasse il volto.
Quando scoppiò la guerra, il padre fu chiamato a servire la patria, così Henry fu affidato per un po’ di tempo agli zii, che abitavano in un paese poco distante da Soho.
Il giovane Henry, nonostante ciò, continuò a visitare il cimitero con sempre più frequenza, tanto che quasi divenne la sua seconda casa. Senza alcuna compagnia andava lì a giocare o a scrivere lettere dedicate alla madre.
Ma, quelle lettere, col tempo si avvizzirono e i fiori appassirono.
Henry si sentì sempre più solo e abbandonato e quando arrivarono i vagabondi a stabilirsi sulle colline, raramente si recava a farle visita poiché gli zii glielo vietarono tassativamente.
Un giorno capitò che un suo compagno di classe lo vide accanto alla lapide di sua madre.
Non si sbagliava, ne era sicuro:
Henry Powers parlava da solo!
Non ci volle molto perché lo seppe tutta la scuola e ben presto venne preso di mira e schernito dalla maggior parte dei suoi coetanei.
Alla notizia della morte del padre, caduto in guerra, Henry rimase orfano e perse ogni speranza di poter riuscire a diventare qualcuno. Non lesse più quei libri d’avventura che narravano di viaggi attraverso mondi incantati, quei libri, che prima facevano vivere la fantasia in lui portandolo a credere che la vita prima o poi avrebbe riservato qualcosa di speciale.
Tuttavia un giorno bussò alla sua porta un signore dal volto emaciato e il fisico minuto, senza un accenno di barba sul viso e l’aria allegra. Si presentò a Henry come un suo lontano parente, giunto a Soho proprio per prendersi cura di lui. Gli zii, senza porsi troppe domande, glielo diedero in custodia. Ormai erano vecchi e incapaci di provvedere ai bisogni del ragazzo. Il nome di questo signore era Alfred Grembel Din (anche se preferiva esser chiamato dottor Effe
).
L’uomo era un fisico, astrologo e lavorava nel campo della ricerca scientifica. Nonostante fosse sempre molto impegnato nel suo lavoro, Henry divenne la sua più piacevole distrazione, difatti dedicava tutto il tempo che gli rimaneva a lui.
Non parlava molto del suo passato. Alle volte si limitava ad accennare a eventi che aveva condiviso con i genitori di Henry.
Aveva una personalità stravagante e scostante, poteva scherzare e, nel giro di qualche secondo, tornare serio.
Il ragazzo col passare del tempo si affezionò al dottore.
La cosa che più amavano fare insieme era passeggiare al crepuscolo lungo via Dedra.
Il dottor Effe accompagnava ogni giorno il giovane a scuola e si assicurava che andasse bene. Gli insegnò l’amore per la natura e per l’universo e divenne col tempo una consuetudine passare ore e ore a guardare le stelle quando il cielo lo permetteva. A volte leggeva a Henry le storie che un tempo aveva messo da parte, altre volte scendevano nella parte bassa del paese per andare a fare compere e giocherellare in piazza.
§§§§
Passarono molti anni dalla comparsa di Alfred nella vita di Henry e i legami andavano sempre più rafforzandosi. Com’era consuetudine, il dottore veniva chiamato per questioni di lavoro e allora doveva partire con la sua vecchia Ford azzurrina, denominata da lui stesso la lamiera mobile
, per poi tornare dopo qualche settimana o, a volte, anche dopo mesi.
Spesso e volentieri, soprattutto quando si sentiva solo, Henry andava a trovare il suo amico John Terdenik.
John ed Henry erano grandi amici sin dall’infanzia ma i loro destini si erano separati prematuramente. All’età di diciassette anni John si era arruolato nell’esercito poiché aveva da sempre voluto seguire le orme del padre. Ma fortunatamente, o sfortunatamente per lui, l’esercito l’aveva prosciolto ancor prima di riuscire a terminare il servizio.
Appena Henry lo seppe non se ne meravigliò affatto.
All’età di tredici anni John aveva già subito due interventi: si era rotto il braccio e aveva una gamba piena di ferri.
Dire che quel ragazzo fosse vivace era proprio un eufemismo: si buttava e si arrampicava ovunque. Il padre di Henry lo riteneva una compagnia poco raccomandabile e lo pregava sempre di stargli alla larga. Entrambi amavano le storie d’avventura. Dopo aver condiviso un libro, la loro mente era come se viaggiasse all’unisono. Nella loro immaginazione le case abbandonate a Dark Hall avrebbero potuto celare qualche prezioso tesoro, magari quello di cui narrava il libro o mostrava il film che avevano appena visto al cinema. Con i loro zaini mimetici (probabilmente rubati al padre di John) e le western flyer verniciate, coi fanali che andavano a intermittenza, uscivano la sera all’insaputa dei loro genitori e partivano verso le vaste radure oltre i confini di Dark Hall, in cerca di qualche vecchia casa abbandonata da visitare. Si infilavano in ogni singolo angolo, scavalcando mura pericolanti. Una volta accadde che al giovane Henry rimasero i pantaloni impigliati a del filo spinato. John, che aveva già scavalcato il muro di cinta, lo aveva incitato a spingere con forza per buttarsi giù, così Henry dopo vani tentativi, riuscì finalmente a liberarsi, squarciandosi i pantaloni. Il filo spinato però si conficcò anche dentro la gamba di Henry, procurandogli un taglio che partiva dalla vita fino al ginocchio. Iniziò a piangere e urlare dal dolore e John cercò di consolarlo paragonando l’importanza della loro missione a quello a cui suo padre stava partecipando in quel periodo. Inutile