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Nel giardino della Salamandra
Nel giardino della Salamandra
Nel giardino della Salamandra
Ebook1,070 pages16 hours

Nel giardino della Salamandra

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About this ebook

Parigi, 1526. Phil è un giovane aristocratico impegnato a spendere la propria vita tra donne, feste e bagordi, sempre a corto di denaro e per tali motivi in perenne contrasto col padre. Vacuo, prepotente e capriccioso, pare attenderlo una vita futile, finché i grandi conflitti che percorrono l'Europa in quegli anni cruciali non travolgono anche lui, portandolo a un passo dal patibolo e facendogli toccare con mano l'amore, la morte, il terrore, il coraggio, l'amicizia... Una svolta radicale, che lo porterà a vivere mille avventure e lo trasformerà in un uomo.vincere agli altri.
LanguageItaliano
Release dateMar 4, 2021
ISBN9788868104672
Nel giardino della Salamandra

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    Nel giardino della Salamandra - Alessandro Bergonzini

    cover.jpg

    Alessandro Bergonzini

    NEL GIARDINO DELLA SALAMANDRA

    Prima Edizione Ebook 2021 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868104672

    Immagine copertina

    Arazzo della battaglia di Pavia: Cattura del re di Francia Francesco I

    Manifattura fiamminga su disegno di Bernart van Orley e William Dermoyen, XVI sec.

    Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

    Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo - Museo e Real Bosco di Capodimonte

    ***

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Piave 60 - 41121 Modena

    http://www.damster.it  e-mail: damster@damster.it

    Alessandro Bergonzini

    Nel giardino della

    Salamandra

    romanzo storico

    Indice

    Prologo

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    18

    19

    20

    21

    22

    EPILOGO

    NOTE

    Note al capitolo 1

    Note al capitolo 2

    Note al capitolo 3

    Note al capitolo 4

    Note al capitolo 5

    Note al capitolo 6

    Note al capitolo 8

    Note al capitolo 10

    Note al capitolo 11

    Note al capitolo 12

    Note al capitolo 13

    Note al capitolo 14

    Note al capitolo 15

    Note al capitolo 16

    Note al capitolo 18

    Note al capitolo 19

    Note al capitolo 20

    Note al capitolo 21

    Note al capitolo 22

    Note all’Epilogo

    NOTA DELL’AUTORE

    CRONOLOGIA ESSENZIALE

    PRINCIPALI PERSONAGGI di fantasia

    PRINCIPALI PERSONAGGI STORICI

    BIBLIOGRAFIA

    RINGRAZIAMENTI

    a Daniela

    a Nicholas Evan Berg

    ed alle altre vittime del fondamentalismo religioso

    Prologo

    Tratti di cielo in mezzo alle fronde

    un suono sopito già si diffonde

    brilla la brace nel tiepido foco

    al velo della notte manca assai poco.

    Vicinanze di Châtellerault, 5 aprile 1498.

    La pioggia durava ormai da alcuni giorni ed aveva trasformato in un viscido acquitrino la campagna circostante Châtellerault, un piccolo villaggio, distante poche leghe da Tours. La strada che conduceva all’abitato, fino a quel momento deserta, si animò all’improvviso, riempendosi per tutta la larghezza di un gruppo di uomini a cavallo che la percorrevano lentamente su tre colonne parallele. Montati su imponenti destrieri da guerra, gli uomini, una ventina in tutto, si riparavano alla meno peggio avvolti nei loro mantelli cerati, maledicendo l’acqua che si suddivideva in mille rivoli e, intrufolandosi nelle pieghe dei tessuti come una gelida mano dalle lunghe propaggini, penetrava fin dentro le ossa.

    Ad un cenno del loro capitano, lasciarono la strada maestra per un sentiero che si inerpicava su una collina coperta da un fitto castagneto e punteggiata qua e là da querce lunghe e sottili. Attraversarono la foresta percorrendo circa un miglio. Giunti in cima alla collina discesero la china dalla parte opposta dove il sentiero terminava aprendosi in uno spiazzo antistante un mulino ad acqua. Benché fosse quasi mezzogiorno, le piccole finestre avevano ancora le imposte serrate, dando l’impressione che la casa fosse disabitata, nonostante due cavalli impastoiati alla staccionata. Il gruppo a cavallo si aprì a ventaglio sul perimetro circostante il caseggiato, ma nessuno venne loro incontro.

    «Il mugnaio dev’essere corso a sotterrarsi in qualche buco con tutta la famiglia!» arguì sghignazzando uno degli uomini mentre smontava da cavallo e sguainava una lunga spada. Assieme a lui scesero dai destrieri altri cinque compagni: il capitano André Danès, tre soldati e Juan Cabral, un giovane maestro d’arme spagnolo.

    André comandava una compagnia di ventura da una decina d’anni e si era fatto le ossa combattendo nelle numerose scorrerie del suo re, Carlo, l’ottavo con quel nome, il quale già progettava una nuova spedizione. L’ultima si era conclusa con un rapido successo ed una altrettanto rapida ritirata. L’esercito aveva varcato le Alpi agli inizi di settembre del 1494 e già a Natale era giunto a Roma. In gennaio avevano preso l’Abruzzo e subito proseguito per conquistare il Napoletano. Il 9 febbraio 1495, il re aveva dato ordine di assaltare l’imprendibile fortezza di Monte San Giovanni sulla linea del Liri. Le mura del coriaceo castello, che pochi anni prima avevano resistito ad un assedio protrattosi per sette anni, vennero sbriciolate dopo appena quattro ore dai nuovi cannoni francesi. Si trattava di armi innovative, non più costruite come le campane, a getto di metallo su un’irregolare anima cilindrica interna che determinava gravi anomalie funzionali e di puntamento. Abbandonata la tecnica precedente, i nuovi cannoni vennero gettati in pezzi pieni, ottenendone l’anima per trapanazione mediante alesatrici idrauliche. Il foro che si ricavava era perfettamente cilindrico e coassiale, riducendo in questo modo la tolleranza fra palla ed anima ed aumentandone conseguentemente la potenza distruttiva. Il panico dilagò e Napoli si arrese subito dopo, permettendo a Carlo di entrarvi il 22 febbraio senza colpo ferire. Veloce fu anche la ritirata, causata dall’ostilità degli altri regni italiani che non vedevano di buon occhio la presenza francese.

    André aveva conosciuto il giovane Juan durante l’occupazione napoletana. Era fra i superstiti del cannoneggiamento di Monte San Giovanni ed era rimasto orfano del padre putativo, un generale spagnolo perito sotto il crollo delle mura. Juan fu preso prigioniero, ma André ne notò l’abilità nell’uso delle armi e, garantendogli un regime di semilibertà, ne fece il compagno col quale si esercitava nei periodi di inattività dell’esercito. Frequentandolo si era reso conto anche della buona istruzione ricevuta dallo spagnolo col quale, di lì a poco, strinse un rapporto di reciproco rispetto che in breve si tramutò in sincera amicizia, destinata ad interrompersi bruscamente quando il re ordinò la ritirata ed il rientro in patria. Inaspettatamente lo spagnolo aveva chiesto di unirsi alla compagnia di ventura ed André lo aveva accolto con grande soddisfazione. Da quell’incontro erano passati alcuni anni, durante i quali i due avevano combattuto sotto la medesima bandiera stringendo un legame solido e sempre più indissolubile, ma nel frattempo qualcosa era cambiato. André li aveva condotti davanti a quel mulino, ma né Juan né gli altri compagni ne conoscevano il motivo. Nelle ultime settimane il capitano era divenuto improvvisamente taciturno, scostante ed irrequieto. Gli uomini non ci fecero caso, abituati ai suoi modi bruschi e soprattutto ad obbedire senza fare troppe domande, ma Juan lo conosceva più intimamente ed aveva notato il cambiamento. Ed invano se ne domandava la ragione.

    Scendendo da cavallo sguainarono le lunghe spade. Affidarono le cavalcature ai compagni e dopo aver scrutato con circospezione la casa e lo spiazzo circostante si avviarono decisi verso l’edificio.

    Con secchi gesti della mano il capitano ordinò agli uomini che erano scesi con lui di controllare il retro del mulino, mentre si posizionava assieme al giovane maestro d’arme ad una quindicina di passi dalla porta d’ingresso.

    «Che succede Dedoît, non vieni a salutare il tuo comandante?» urlò Danès dopo aver atteso che i soldati avessero il tempo di posizionarsi dietro l’abitazione. Tenne lo sguardo fisso sulla porta distogliendolo, di tanto in tanto, per dare una rapida sbirciata allo spagnolo al suo fianco, quasi volesse accertarsi che fosse ancora lì con lui. Dal mulino non venne risposta se non il cigolio dell’uscio che si apriva lentamente ruotando sui cardini. Sulla soglia apparve una specie di spaventapasseri, longilineo, emaciato, gli occhi spiritati, vestito con una tunica lurida ed i capelli arruffati. Con l’indice della mano destra faceva loro segno di entrare. Si trattava di Jacques detto Dedoît, un eccellente segugio che spesso sfogava la sua indole malvagia con brutali quanto inutili omicidi. Un colpo d’ascia gli aveva tranciato tre dita dalla mano destra. Ne erano rimaste due, appunto deux doigts che divennero il soprannome, abbreviato in Dedoît.

    «Quell’essere mette i brividi, non capisco perché continuiate a servirvene!» sussurrò lo spagnolo esprimendosi in francese, ma tenendo gli occhi sull’individuo che li aspettava sull’ingresso e che li sollecitava ad entrare.

    «Esegue gli ordini, senza domande, senza dubbi, con lucida determinazione ed è capace di scovare chiunque, anche se si fosse andato a nascondere nella tana di un ratto. Ecco perché!» tagliò corto il capitano prima di infilarsi due dita in bocca e con un lungo fischio modulato ordinare agli uomini rimasti a cavallo di smontare e seguirlo all’interno del mulino.

    «È un bastardo senza scrupoli. Scannerebbe sua madre per uno sputo!» commentò lo spagnolo con un tono carico di disprezzo.

    «Quello non ce l’ha una madre! Andiamo!» borbottò sbrigativo Danès rinfoderando la spada ed avviandosi verso la porta alla testa dei suoi uomini.

    «Forse non l’ha mai avuta. Forse è stato vomitato da un antro infernale, ma se è una donna che l’ha partorito, allora avrebbe fatto meglio ad affogarlo appena nato!» mormorò Juan a bassa voce dopo aver atteso qualche istante prima di seguire il gruppetto che stava entrando nell’abitazione.

    L’interno della dimora era buio, debolmente rischiarato dalla luce di una candela di sego che Dedoît teneva davanti al volto pallido, rendendone l’aspetto ancor più lugubre di quanto già non fosse alla luce del sole.

    «Per tutti i demoni, qui dentro non si vede nulla! Fate un giro della casa e spalancate le dannate finestre!» ordinò il capitano appena varcata la soglia della casa. «Che diavolo ti è saltato in testa per infilarti in questa topaia?» domandò brusco rivolgendosi a Dedoît, mentre i soldati che lo accompagnavano, accesa una torcia, penetravano nel mulino e davano inizio ad una rapida perlustrazione.

    «Mi ci ha portato lui; io l’ho solo seguito!» spiegò Dedoît con voce cavernosa.

    «Dov’è? Ha parlato?» domandò il capitano divenendo improvvisamente irrequieto. Dedoît non rispose, si limitò a fargli segno di seguirlo nella stanza a lato dell’ingresso, la cucina, dove la fiamma del fuoco acceso in un enorme camino disegnava la scura figura di un uomo incurvato su una sedia. La stanza era grande, ma dalle piccole finestre penetrava appena una colonna di luce che manteneva nell’ombra quasi tutto l’ambiente circostante, solo debolmente rischiarato dal fuoco del camino.

    «È ancora vivo?» domandò Danès dopo aver notato una morsa schiacciamani posata sulla tavola. Si chinò preoccupato sull’individuo che era riverso sulla sedia alla quale era legato per il tronco, una mano e le caviglie. Pareva svenuto. Si trattava di un ragazzo, forse ventenne. Aveva due taglietti paralleli sullo zigomo sinistro, una specie di marchio che Dedoît imprimeva sulle sue vittime, ed una vistosa contusione sotto l’occhio destro. La mano libera, posata sulla tavola, livida e sanguinante. Fortunatamente respirava ancora. Il capitano tirò un sospiro di sollievo, mentre dal piano superiore si udì all’improvviso il rumore delle imposte che sbattevano contro il muro, un vociare confuso ed i passi degli uomini che si muovevano rapidi per la casa.

    André era certo che qualcuno avesse scoperto la missione che gli era stata affidata. Se fosse riuscito nell’intento lo avrebbero coperto di denaro, ma se avesse fallito… era meglio non pensarci!

    «Passando di qua, si è fermato a far visita ai suoi genitori» spiegò Dedoît flemmatico alzando gli occhi, mentre la polvere, smossa dai passi dei soldati, cadeva a terra dopo essersi infilata fra le fessure delle assi di legno del soffitto.

    «Cosa ti ha detto?» domandò sbrigativo il capitano.

    «Niente di importante! Aveva ordine di consegnare questa. La indossava per tener su le brache!» spiegò Dedoît mostrando una lunga striscia di morbido cuoio. Gli occhi del capitano si riaccesero di speranza mentre con delicatezza prendeva fra le mani quella che poteva sembrare una cintura. Gettò uno sguardo rapido sull’oggetto, ma li rialzò immediatamente per fissarli in quelli di Dedoît in attesa di una spiegazione. Juan non aveva tutti i torti: Dedoît era una carogna capace di tutto, un cane rabbioso imprevedibile. Con quello sguardo indecifrabile, avrebbe potuto voltarti le spalle in qualunque momento. Oggi al tuo fianco, domani pronto a pugnalarti alle spalle.

    André si domandò per quanto ancora avrebbe potuto fidarsi di lui. E se fosse stato in combutta con colui che probabilmente ha scoperto il tuo piano? No, impossibile: Dedoît avrà un ruolo centrale nell’esecuzione. E se gli venisse in mente di tradirti all’ultimo momento? Mi difenderei dalle accuse senza troppe difficoltà! Ne sei così certo? Un sospetto spesso è più che sufficiente per finire col cappio al collo e se un sospetto non basterà, una buona confessione estorta con la tortura farà il resto! André deglutì, mentre il cuore gli batteva forte nel petto e alcune goccioline di sudore gli imperlavano la fronte.

    «Vi sentite male?» domandò Dedoît strappandolo da quei pensieri inquietanti. Il capitano lo guardò per un istante con occhi smarriti, poi riprendendo lucidità scosse la testa con indifferenza e con un cenno del mento gli fece segno di spiegarsi meglio.

    «Vedete questi segni? Sembrano lettere. Li avevano nascosti incidendoli nella parte interna. Voi sapete leggere?» domandò Dedoît, grattandosi la barbetta sul mento, dopo aver mostrato i caratteri tracciati sulla cinta.

    «Hai ragione, sono lettere, ma si susseguono senza senso!» esclamò deluso il capitano dopo aver esaminato con attenzione la successione dei caratteri prima da sinistra verso destra, poi ripetendo l’operazione a rovescio nella speranza che il messaggio fosse stato banalmente scritto da destra verso sinistra, ma anche in quel modo dovette constatare che la sequenza non formava nemmeno una parola di senso compiuto. Un vociare concitato lo interruppe costringendolo a voltarsi giusto in tempo per vedere il giovane Juan entrare in cucina e, col volto deformato dalla rabbia, scagliarsi con violenza su Dedoît.

    «Dannato macellaio!» urlò lo spagnolo sferrandogli un pugno allo stomaco. Colto di sorpresa, Dedoît crollò in ginocchio piegato in due, tenendosi l’addome con le braccia e lasciando sfogare un conato di vomito che, salendo dallo stomaco, si riversò sulla terra battuta della cucina dopo avergli bruciato la gola.

    «Che ti prende?» domandò il capitano che con un balzo si era frapposto fra i due e, bloccato lo spagnolo per entrambe le braccia, tentava d’impedirgli d’infierire sull’uomo a terra.

    «Quell’essere è una bestia! Maledetto assassino!» gridò rabbioso lo spagnolo tentando di colpire Dedoît con un calcio prima che il capitano lo spintonasse via, schiacciandolo contro una parete della stanza.

    «Spiegati!» ordinò perentorio Danès rivolgendosi allo spagnolo, mentre Dedoît si sforzava di rimettersi in piedi.

    «Andate a vedere coi vostri occhi! Di là c’è un uomo aperto in due, con le viscere che gli fuoriescono dal ventre, una donna con la gola tagliata così in profondità che la testa è stata quasi spiccata dal corpo e… e un ragazzino… un ragazzino, dannato animale, lo hai strangolato senza pietà!» gridò furibondo lo spagnolo con occhi che sembravano voler schizzare dalle orbite.

    Dedoît si rimise in piedi tossendo e sputacchiando muco con la gola irritata dai succhi gastrici. Gli occhi appuntiti come spilli si conficcarono in quelli dello spagnolo, mentre con la manica della tunica si pulì la bocca dalla saliva.

    «Quando ho tirato il messaggero giù da cavallo, il mugnaio mi ha aggredito, la moglie è corsa in aiuto del marito e del figlio ed il fratello più piccolo si è messo ad urlare» si giustificò Dedoît, sputacchiando nuovamente ed asciugandosi il mento dal quale continuava a colare una bava viscida. «Se mi avessero lasciato fare, sarebbero ancora vivi!»

    «Lurida belva assetata di sangue! Sadica carogna, non ti bastava tramortirli? Godi a far scorrere il sangue della gente inerme, provaci con me se hai coraggio!» gridò lo spagnolo dibattendosi nel tentativo di liberarsi dalla stretta del capitano.

    «Juan! Maledizione, regolerai le tue questioni in un altro momento! Ho un incarico da portare a termine e non posso permettermi che voi due mandiate all’aria tutto quanto!» sussurrò minaccioso il capitano serrando lo spagnolo con maggior forza, mentre lo fissava nella penombra con uno sguardo autoritario che non ammetteva repliche. Juan respirò profondamente un paio di volte nel tentativo di calmarsi; prese quindi un lungo respiro ed infine espirò rumorosamente dalle narici.

    «D’accordo!» esclamò lo spagnolo guadagnandosi un’occhiata poco convinta del capitano che tuttavia gli levò le mani di dosso e chinatosi raccolse da terra la striscia di cuoio per mostrargliela.

    «Sapresti decifrare cosa c’è scritto qui sopra?» gli domandò Danès, mentre alcuni soldati, richiamati dalle urla, li avevano raggiunti in cucina e scrutando i compagni si domandavano quale fosse stata l’origine del diverbio.

    Tenendo la cinghia fra le mani, Juan si avvicinò al camino per poterla esaminare alla luce del fuoco.

    «Sembra una scitala!» osservò lo spagnolo dopo una breve analisi.

    «Ossia?» domandò il capitano con una punta di nervosismo.

    «Un’astuzia greca. Spartana, se ricordo bene! Per decifrare il messaggio occorre un bastone identico a quello utilizzato per scriverlo» spiegò lo spagnolo alzando lo sguardo sul capitano.

    «Spiegati meglio.»

    «Si avvolge il nastro di cuoio in diagonale su un bastone e si scrive il testo, lettera per lettera, in colonne parallele al suo asse. Rimosso il nastro il messaggio diviene incomprensibile e per decifrarlo occorre riavvolgerlo attorno un bastone con lo stesso diametro di quello utilizzato per redigerlo.»

    «Allora puoi decifrarlo» domandò il capitano con rinnovata speranza.

    «Sì, se avessi il bastone! Altrimenti dovrei fare una serie di tentativi con bastoni di diametro diverso, fino a trovare quello giusto.»

    «Non abbiamo tempo per i tentativi, dobbiamo ripartire immediatamente» sbottò il capitano stizzito. «Qualunque cosa ci sia scritta ormai non raggiungerà più il suo destinatario per metterlo in guardia» aggiunse pragmaticamente dopo una breve pausa.

    «Non temete che chi lo ha inviato possa averne mandati altri?» domandò lo spagnolo.

    «Un motivo in più per portare a termine la missione nel più breve tempo possibile, altrimenti sono cibo per vermi. Non posso più tirarmi indietro, lo capisci? Se lo faccio o se fallisco penzolerò da una corda di qui a tre giorni» spiegò il capitano lanciando un’occhiata tetra a Dedoît che sogghignò con complicità.

    «Ciononostante, ancora non volete rivelarmi in cosa consiste la missione che vi è stata affidata. Non vi fidate di me?» borbottò con amarezza lo spagnolo.

    «Non si tratta di questo. Se non mi fidassi saresti già sotto un palmo di terra. Sei tu che devi fidarti di me. Credimi, è meglio che tu non sappia. Se qualcosa va storto, nessuno se la prenderà con te. È per questo che verrai con noi, ma rimarrai a badare ai cavalli, mentre io e Dedoît faremo ciò che mi è stato comandato! Ora è tempo di rimontare a cavallo.»

    «E il ragazzo?» domandò Dedoît indicando il messaggero con un cenno del capo. Danès lo squadrò piegando pensieroso la testa di lato, mentre Juan trattenne il respiro. «Chiudilo in cantina con acqua e cibo. Nel giro di qualche giorno qualcuno passerà di qui e lo troverà. Nel frattempo noi saremo già lontani» disse il capitano mettendo un braccio sulle spalle dello spagnolo per spingerlo fuori dall’edificio facendo cenno agli altri uomini di precederlo. Dedoît li osservò mentre uscivano all’aperto. Rimasto solo, prese il ragazzo per i polsi e lo trascinò verso la porta della cantina. La aprì e con una pedata lo scaraventò giù per i gradini come un sacco di patate. Una sgradevole zaffata di formaggio in stagionatura lo investì appena si affacciò sulla soglia. Tornò sui suoi passi, accese una torcia nel camino, prese dalla tavola un pezzo di pane raffermo che si mise sotto il braccio col quale reggeva la fiaccola, artigliò con l’indice della mano mutilata una brocca d’acqua e, facendosi luce con la torcia, discese i gradini della cantina, una decina in tutto. Lanciò un’occhiata distratta al ragazzo che giaceva riverso sulla terra umida, posò la brocca ed il pane su una mensola e infilò la torcia in un supporto fissato al muro. Il ragazzo mandò un mugolio di dolore e Dedoît si chinò su di lui per assicurarsi che, nonostante la caduta, non avesse ripreso i sensi.

    «Mi spiace averti separato dalla tua famiglia, ma forse posso rimediare» sussurrò premuroso all’orecchio del ragazzo, mentre la lama di un coltello gli luccicò fra le dita della mano buona. Col palmo dell’altra mano gli carezzò delicatamente i capelli, poi la fronte percependo sotto i polpastrelli la pelle liscia del ragazzo. Scoprì il collo reclinandogli lentamente la testa all’indietro e premette la lama sotto la gola.

    «Fossi in te lo lascerei vivere!» disse Juan stagliandosi sulla porta della cantina con due lunghi pugnali fra le mani.

    Dedoît si girò di scatto, alzò gli occhi sui quali balenò un lampo di lucida malignità. «Ragazzo, pensi davvero di potermi battere?»

    «Non vedo l’ora di provarci!» rispose Juan, guadagnandosi la risata sarcastica dell’altro.

    «Prima mi hai colto di sorpresa, ma ti assicuro che non succederà un’altra volta.»

    «Non ne dubito, ma non era mia intenzione giocare sporco. Posso aprirti in due in un duello leale.»

    Dedoît sghignazzò nuovamente sbuffando dalle narici.

    «Sei ingenuo, ragazzo, io lo farei. Ti salterei alla gola quando meno te lo aspetti, ma non sarà necessario perché fra qualche istante ti starai domandando com’è potuto succedere che un monco ti abbia scannato con una mano sola. Scendi qui giù e ti mostro come ci riuscirò, sarà la tua ultima lezione… maestro d’arme!»

    «Voi due invece riserverete i vostri intenti bellicosi per un altro momento!» tuonò Danès che, dopo essere risalito a cavallo, si era accorto che lo spagnolo era tornato nella casa e, presagendone le intenzioni, gli era corso dietro. «Non posso farvi da balia tutto il giorno. Ho una missione delicata da compiere ed ho bisogno di entrambi. Dopo, per quanto mi riguarda, potrete ammazzarvi come vorrete.»

    «Volevo solo aiutarlo a riunirsi ai suoi parenti» si giustificò Dedoît mentre, con innocenza fanciullesca, rinfoderava il pugnale.

    «Nessuno te lo ha chiesto. Esci di lì, prima che venga a prenderti a calci nel fondoschiena!» sbottò brusco il capitano che immediatamente dopo si voltò per fissare i suoi occhi aguzzi in quelli dello spagnolo.

    «E tu, ragazzo, stavi per venire meno alla parola data!» lo rimproverò Danès.

    «Non per causa mia. Quel bastardo lo avrebbe ammazzato senza motivo» replicò Juan.

    «Hai mai sentito dire che è meglio non lasciare in giro testimoni?»

    «Lo avete detto voi che quando lo troveranno saremo già molto lontani» insistette lo spagnolo.

    «Le calunnie ti raggiungono ovunque, ma oggi voglio salva la vita di quel giovane. Spero di non dovermene pentire! Ora andiamo, per causa vostra siamo già in ritardo» concluse sbrigativo il capitano, che con un gesto impaziente sollecitò Dedoît a uscire dalla cantina.

    «Guardati le spalle, fratello!» sussurrò minaccioso Dedoît passando di fianco allo spagnolo mentre si dirigeva verso la porta del mulino.

    «I tuoi fratelli sono i demoni dell’inferno che ti hanno vomitato qui. Nulla a che vedere con me» sbottò Juan con disprezzo, ma l’altro non si voltò nemmeno, alzò le spalle e continuò a camminare uscendo all’aperto.

    «Sopporterei meglio un battibecco fra comari!» mormorò stizzito Danès, spintonando fuori lo spagnolo dopo aver chiuso la cantina.

    1

    LA FESTA

    Biondi capelli di anime perse

    il folle e la gente il vento disperse.

    Parigi, anno del Signore 1526. Fine estate.

    «Si può sapere dove mi stai portando?» berciò stizzito il giovanotto che con aria annoiata guardava fuori dal finestrino della carrozza, lisciandosi il farsetto di lino, impreziosito da bottoni dorati, sull’addome lievemente prominente.

    L’altro lo osservò silenzioso per qualche istante sfoggiando un’espressione divertita: «La curiosità non ti dà pace, eh Phil?» Phil, per il suo unico amico, per tutti gli altri Sua Signoria Philippe Auguste, figlio e futuro erede del barone d’Argonne e della marchesa di Torque.

    «Hai deciso di iscriverti nel lungo elenco di quelli che trovo sgradevoli?»

    «Perché, c’è ancora spazio?» risposte Nicolas, figlio del barone di Bléone e di Verdon-Buech, guardando l’amico e cugino con aria ancor più divertita. Entrambi erano appena ventenni, pienamente dediti a gozzovigliare rincorrendo schive fanciulle o, più facilmente, assidui fruitori dei piaceri dispensati negli allegri bordelli parigini. Del tutto allergici alla nobile arte militare che i rispettivi padri tentavano di inculcare loro senza successo, non rappresentavano altro che un bubbone maligno ed una vergogna per le famiglie da cui discendevano e di cui, malgrado tutto, erano gli unici eredi.

    «Vai al diavolo!» rispose Phil agitando una mano per scacciare una mosca che gli ronzava insistentemente davanti al naso.

    «Oh, tutto ad un tratto fa capolino una delle tue ricorrenti espressioni a cui non si può fare a meno di affezionarsi. Ne sentivo giusto la mancanza. Ebbene, amico mio, percependo la tua impaziente curiosità, rimuovo ogni indugio e la soddisfo immediatamente rivelandoti – ma mi raccomando, conserva gelosamente questo segreto – che siamo invitati ad una festa» scimmiottò Nicolas, sussurrando con espressione da cospiratore.

    «Ma non mi dire… come se fosse una novità! Passiamo da una all’altra da mesi, quindi… fuori il resto, fin lì c’ero arrivato da solo.»

    «Non vuoi provare ad indovinare chi sarà il nostro ospite?»

    «Sarebbe questa la novità? Un ospite misterioso? Ho ancora addosso i postumi della sbronza di ieri sera, figurati se ho voglia di rispondere agli indovinelli… tienila corta!» sbottò Phil, soffermandosi ad osservare con una pronunciata dose d’invidia il farsetto nuovo dell’amico. Un capo particolarmente elegante, aderente e di certo molto costoso che Phil non avrebbe potuto permettersi a causa della proverbiale tirchiaggine del padre. Chiuso sul petto da ventitré bottoni, l’esterno in velluto rosso, mentre un tessuto di seta, lino e cotone rivestiva l’interno dell’imbottitura. Doveva essere l’ennesimo regalo della ricchissima zia, pensò Phil con crescente invidia. Una vecchia vedova senza eredi, innamorata del giovane nipote, figlio della sorella, per il quale dissipava allegramente l’enorme patrimonio lasciatole dal marito.

    «Che diamine! Il tuo proverbiale umore è alle stelle! Cosa…» la frase rimase a metà, interrotta dallo sguardo accigliato dell’altro che aveva ripreso a guardare fuori. «Era solo per fare un po’ di conversazione!» continuò Nicolas con delusione.

    «Hai avuto l’impressione che avessi voglia di scambiare più di quattro parole?» domandò Phil allungandosi col collo fuori dalla carrozza. Si era voltato indietro, l’attenzione catturata da un venditore di ortaggi che dopo essere stato costretto ad appiattirsi al muro, strepitava insulti all’indirizzo del postiglione ed agitava bellicosamente un pugno in aria.

    «No, però… mi arrendo, con te è inutile! Stiamo andando alla festa della contessa di Montgaillard.»

    «Mai sentita!» disse Phil lanciando uno sguardo di sbieco all’amico.

    «Per forza, è a Parigi da poco più di un mese. Con la festa di questa sera cerca di accreditarsi agli occhi dei notabili.»

    «Commovente e rivoltante allo stesso tempo! Povera sciocca, si renderà presto conto di essere capitata in un nido di vipere. L’hai già conosciuta?» domandò Phil, soffermando lo sguardo nuovamente sul farsetto rosso dell’amico. Doveva ammettere che il sarto aveva fatto un capolavoro. Sembrava glielo avesse cucito addosso.

    «No, però si dice sia una donna energica ed intelligente, anche se non particolarmente attraente» rispose distrattamente Nicolas che aveva perso la voglia di scherzare.

    «È sola?»

    «Credo di sì.»

    «Cos’è venuta a fare a Parigi?»

    «Non lo immagini?»

    «Anche lei ad ingrossare la folla dei leccapiedi di corte?» domandò Phil alzando le sopracciglia e lasciando sfogare uno sbuffo gastrico che era risalito dallo stomaco. D’istinto ritrasse il capo, per sottrarsi alla zaffata acidula di vino maldigerito. Contrasse la bocca in una smorfia schifata e rimise la testa fuori dalla carrozza per respirare qualcosa di meno nauseante.

    «Per tutti i profeti, ma che diavolo…» uggiolò Nicolas agitando le mani davanti al volto per dissipare la cortina di fetidi vapori.

    «Doppiamente rivoltante! Con tutti i nobiluomini che si affannano ad uscire dalla melma dei loro squallidi confini, ci mancava proprio una donna che non sa stare al suo posto. Un’ingenua desiderosa di sperperare il proprio patrimonio in cerca di visibilità e di potere» seguitò Phil, ignorando le proteste dell’amico che nel frattempo, per vendicarsi, gli aveva sferrato una bonaria pedata ad una caviglia.

    «Già, e nella migliore delle ipotesi si dovrà giocare anche altre virtù!» profetizzò Nicolas con una punta di malcelato lubrico compiacimento.

    «Quello è fuori discussione e, se non è del tutto inconsapevole del fertilizzante di cui si alimenta questa città, lo avrà certamente preventivato. Appena avrà individuato i cavalli giusti, non esiterà ad allargare le gambe! Come tutte, del resto!» sentenziò Phil col fare di chi, a dispetto della giovane età, la sapeva molto lunga avendo acquisito, dopo assidue frequentazioni di taverne ed osterie ed aver attinto dalla saggezza promanante da lunghi sproloqui di autorevoli nullafacenti immancabilmente ubriachi, le solenni chiavi che dischiudevano la sacrosanta ed incontrovertibile verità.

    «Però è partita col piede sbagliato» osservò Nicolas alzando l’indice verso l’alto.

    «Cosa intendi dire?»

    «Si è sistemata nel palazzo di un ricco commerciante finito in bancarotta. Pare l’abbia acquistato ad un’asta!»

    «Nientemeno… e con ciò?» replicò Phil fingendosi inorridito.

    «Di certo non ha dimostrato di disporre di particolari ricchezze andando a raccattare un palazzo in quel modo, anziché farselo costruire.»

    Sicuro! Ma non tutti hanno una zia che corre ad ogni capriccio del nipote, comprandogli senza battere ciglio ogni cosa possa lontanamente desiderare, pensò Phil, gettando nuovamente un’occhiata sconsolata all’esterno della carrozza. Suo padre invece, quel bastardo tirchio del barone d’Argonne, gli negava di tutto, soprattutto il denaro per le cose più indispensabili e necessarie: abiti, meretrici e vino.

    «Di che ti meravigli? Anche lei avrà risorse limitate oppure, come buona parte degli ingenui, avrà pensato di muoversi con prudenza in un ambiente ancora sconosciuto. Prima sondano il terreno con attenzione spendendo con parsimonia, ma non appena si ambientano, aprono le borse e allora sì che fanno scempio dei loro denari. Uno squallido ammasso di imbecilli! Mi vien voglia di vomitare!» commentò Phil con rinnovata autorevolezza derivante dall’incontrastato possesso delle esperienze tramandate da un ubriaco all’altro.

    «Dall’intensità della fiamma dipende il consumo della candela!» convenne Nicolas, augurandosi che l’amico non avesse necessità di vomitare sul serio.

    «Indiscutibilmente, tuttavia, se non è ingenua come crediamo, starà attenta a come sciuparsi. Potrebbe anche essere un buon partito! Dove risiedeva prima di arrivare a Parigi?» domandò Phil voltandosi verso l’amico, che si ritrasse per sottrarsi ad una nuova alitata di vinaccio andato a male.

    «Per il momento ne ho solo una vaga idea. Pare che le terre della sua famiglia siano quasi ai confini del regno, nel sud-ovest della Francia. Ma certamente una delle nobili pettegole che la frequentano si affretterà a confidarmi anche quanti capelli ha in testa.»

    «Ne parli come se le avessi puntato gli occhi addosso» osservò Phil con espressione stupita.

    «Perché, che male ci sarebbe ad approfittare di una donna che dovrebbe donarsi generosamente? Se ne ha per gli altri posso mettermi in fila anch’io, non ti sembra? Se ha voglia di divertirsi, noi siamo pronti, non è vero?» disse Nicolas dando di gomito all’amico con uno sguardo carico di ammiccante complicità. «Altrimenti che diavolo ci staremmo a fare al mondo? Mentre i contadini lavorano, noi passiamo il tempo a divertirci fra le gonne delle belle dame. Ognuno ha la sua funzione in questa vita ed io cerco di espletare la mia nel migliore dei modi. I contadini, pagando gli affitti, contribuiscono al nostro benessere e noi, grati, contribuiamo al benessere delle signore. Tutti insieme siamo dei gran benefattori! Accidenti, non mi credevo capace di simili ragionamenti. Secondo te dovrei mettermi a fare il filosofo?» concluse Nicolas esplodendo in un’irrefrenabile risata.

    «Sei solo un povero imbecille che non sa tenere l’arnese dentro ai pantaloni!»

    «Sentitelo, il sant’uomo, colui che va alle celebrazioni religiose nei bordelli dispensando buoni consigli alle prostitute. E per fortuna che ci sono pure loro a rendere servizio al mondo, perché altrimenti rimarresti continuamente a bocca asciutta» replicò Nicolas dandogli una pacca su una spalla.

    «Pensa per te!»

    «Ti assicuro che ci penso continuamente. Non ho quasi altri pensieri. Affondare il volto nelle forme maestose di una splendida signora, riempirmi la pancia fino a scoppiare e poi crogiolarmi nell’abbraccio di un caldo letto. Manca qualcosa?»

    «Non mi sembra, quindi adesso puoi anche star zitto! Le tue chiacchiere mi rimbambiscono ed ho la testa che mi scoppia!»

    «Come sua signoria desidera!» rispose Nicolas che, risentito, si drizzò sullo schienale del veicolo voltandosi a guardare dall’altra parte. Non si dissero altro per tutto il resto del viaggio.

    La carrozza che li accompagnava, sfilando per le vie di Parigi sussultava e fremeva sotto i colpi trasmessi all’abitacolo dalle ruote, man mano che queste cozzavano contro i rilievi e le buche della pavimentazione delle piazze e delle vie principali. Gli scossoni la rendevano estremamente scomoda rispetto al morbido dondolio dell’incedere di un cavallo, ma ne valeva la pena, perché solo il re e pochi altri ne possedevano una. Ennesimo dono della famigerata zia al nipote prediletto.

    Con l’eccezione della rue Sant-Antoine, la cui particolare larghezza formava una specie di enorme sagrato davanti alla chiesa di Saint-Louis dei gesuiti, le altre vie principali avevano una luce variabile dai cinque agli otto metri. Rue Saint Denis, rue Saint Martin e rue Saint Honoré si snodavano sulla riva destra della Senna, mentre rue Saint-Jacques e rue de la Harpe su quella sinistra. Le altre strade, in terra battuta, somigliavano più a veri e propri corridoi, tanto erano strette. Su di esse si aprivano vicoli ciechi, spesso tortuosi, che conducevano all’interno degli isolati più vecchi. In questi quartieri, ove tutto era stretto al punto da sembrare opprimente, perfino i sagrati delle chiese erano spesso semi-chiusi e circondati dalle case dei preti o dei canonici e perciò, per le origini o per analogia, si chiamavano Cloître Sainte-Opportune, Cloître Saint-Germain l’Auxerrois, Cloître Saint-Merry o Cloître Saint-Benoît. Gli unici luoghi che potevano dirsi veramente sgomberi erano la Place de Grève, Dauphine e Maubert.

    Una doppia china formava al centro della carreggiata un canale di scolo che serviva a smaltire parte dei rifiuti quotidiani, costringendo i passanti a percorrere le vie rasentando i muri, salvo cedere il passo, e quindi la sommità del camminatoio, alle donne, ai notabili e allorquando qualcuno gridava attenti all’acqua! e rovesciava in strada il contenuto dei buglioli. Il fetore era infatti un’altra caratteristica che affliggeva le strade di ogni città. Alla puzza che imperversava per le vie parigine non si faceva mai l’abitudine, anche perché la miscela degli ingredienti che vi si rovesciavano era sempre diversa, cosicché anche un olfatto non proprio sopraffino poteva, suo malgrado, coglierne le particolari sfumature. Con gli odori rancidi si doveva convivere. Non c’era scelta ed infatti nessuno se ne curava. Solo gli emissari degli altri Paesi ne davano notizia nei loro rapporti periodici, ma senza puntar troppo l’indice, anche perché, pure a casa loro, la situazione non era certamente migliore.

    Il fetore si faceva veramente insopportabile soprattutto quando le immondizie domestiche ostruivano gli sbocchi di quella fogna a cielo aperto che correva sul vecchio letto del ruscello Ménilmontant e che, dalle Filles-du-Calvaire a Chaillot, appestava il percorso della riva destra. Allora le acque putrescenti si riversavano nelle strade, formando quell’incredibile composto melmoso noto come fango di Parigi. Un liquame nauseabondo in grado di macchiare per sempre gli abiti e che poteva essere lavato via solo assieme a tutta la stoffa. D’altra parte i proprietari degli edifici non si preoccupavano di costruire fosse e latrine, nemmeno quando li affittavano a venti-venticinque famiglie, costituite in media, nonostante una mortalità infantile spaventosa, da almeno quattro figli. Una folla di persone, disposte su quattro o cinque piani, con una o due stanze per famiglia. Gente che parla, ride, urla, piange e muore. Gente abituata a vivere per la strada, per sfuggire ad un soffocante alloggio senza luce. La strada era il centro nevralgico della vita dei parigini, con le comari che si sporgevano dalle finestre ad ogni minimo incidente, occasione di distrazione in una vita per niente facile e povera di emozioni. La strada era il piccolo grande mondo della gente comune, brulicante di vita, di chiacchiere sulla porta di casa, davanti alle anguste bottegucce degli artigiani e dei piccoli commercianti, dentro alle taverne ed alle bettole disseminate ovunque. Gente che schiamazzava e ballava ad ogni occasione, in cerca di riscatto – non della compassione delle classi privilegiate – fiera, tollerante e solidale con le miserie del prossimo, perché erano anche le proprie. La strada univa, ti abbracciava nel suo caos quotidiano fatto dei tavoli dei mercanti che invadevano la carreggiata, delle botteghe in legno che spuntavano ad ogni angolo e che, subito dopo essere state demolite per ordine della milizia, riapparivano un poco più là, fatto delle urla e della grida di quelli che vendevano erbe, latticini, frutta, cenci, sabbia, scope, pesci, acqua e mille altri articoli indispensabili alla vita quotidiana. Una confusione spesso assordante, che però ti permetteva di conoscere il tuo vicino di casa ed il vicino del tuo vicino, i suoi parenti e quelli dell’altro e così di seguito, fino a conoscere tutti quelli che abitavano nel tuo quartiere ed in quelli limitrofi, con i loro nomignoli, le loro angosce e perfino i loro peccati, o quelli presunti tali dal chiacchiericcio petulante delle donne, più impegnate nell’arte del pettegolezzo che nelle faccende di casa.

    L’inevitabile promiscuità si convertiva in aiuto scambievole, cameratismo, cortesia; temperava rivalità e disagio, nulla a che fare col disprezzo che i nobili privilegiati nutrivano per essa e per la gente comune – le canaglie come venivano additati – che in tale stato era costretta a vivere, fonte dei presunti vizi che, alquanto generosamente, le si attribuivano.

    Ben sotto al milione di persone che, molti secoli prima, risiedevano nella Roma imperiale, Parigi con i suoi trecentocinquanta-quattrocentomila abitanti era, a pari merito con Napoli, la città più popolosa d’Europa; ben distanziata Londra, che ne contava appena centocinquantamila, mentre di notevoli dimensioni erano pure Lione, con circa settantamila e Rouen, Bordeaux e Tolosa, ove risiedevano in media cinquantamila persone. Le città erano diventate il ricettacolo di una popolazione che non era più di passaggio, come accadeva durante le migrazioni dei grandi gruppi di pellegrini nel Medioevo o, durante la stagione lavorativa, ai contadini delle Cévennes, che infatti ora si erano insediati in pianta stabile ad Avignone, Marsiglia e persino a Lione.

    Questa gente, per la quale l’unica ricchezza era costituita dalla forza delle proprie braccia, vedeva nelle città il luogo in cui poter fuggire alla fame ed alla povertà. Una speranza spesso illusoria, che provocava il disprezzo dei gentiluomini e dei borghesi per quella massa di disoccupati, frutto di un afflusso incontrollato di braccianti francesi, stranieri in patria.

    Il discredito che si abbatteva sulla povera gente si tramutò in sospetto e poi in odio. I delinquenti affollavano gli angoli delle strade più buie. Mentre un tempo si temevano il viaggio ed i briganti, ora anche le città apparivano, agli occhi dei ceti privilegiati, come una sorta di girone dantesco, un invito suadente alla vita licenziosa, in cui si credeva prosperassero le masse e di cui costituivano la presunta prova i bambini abbandonati per le strade. Una moderna torre di Babele si era insediata a Parigi, un pandemonio terribile ove sembrava impossibile capirsi e dove solo i nullafacenti sguazzavano allegramente nella fanghiglia puzzolente delle umide strade cittadine.

    Gli edifici più nobili si innalzavano lungo il corso della Senna che aveva, nell’Île de la Cité, il suo cuore pulsante e che, per lungo tempo ancora, avrebbe mantenuto la sua chiara impronta medievale.

    Con un verso bovino il cocchiere si rivolse ai cavalli tirando a sé le redini per fermare la carrozza nel cortile interno del palazzo della contessa di Montgaillard. Manovrò la leva del freno e saltò giù per aprire lo sportello, rivolgendo un ampio e riverente inchino ai due gentiluomini che attendevano all’interno.

    «Buona serata, vostra signoria» disse a ciascuno di loro facendosi di lato per lasciarli scendere. Phil e Nicolas, scivolando sul sedile, allungarono fuori dalla vettura prima una gamba e poi l’altra ed uscirono passando davanti al postiglione senza degnarlo di uno sguardo.

    Il palazzo era imponente. Eretto nel XIII secolo e più volte rimaneggiato, mostrava anche i particolari della recente ristrutturazione. Sormontato da un’alta torre duecentesca con balconata impreziosita, come anche la facciata, da pregevoli stemmi marmorei, presentava due ordini di finestre – trifore al primo piano e bifore all’ultimo – che sovrastavano un massiccio portale in bugnato sul quale campeggiava l’emblema della casata dei Montgaillard: un grifone che reggeva uno scudo ed una spada. Poco sotto al blasone era scolpito il motto Vias tuas, Domine, demonstra mihi, et semitas tuas edoce me¹.

    In una nicchia ricavata a fianco del fornice d’ingresso vi era un mezzo busto di papa Clemente VII che, evidentemente, doveva essere stato posizionato lì solo di recente. Giulio de’ Medici, figlio di Giuliano di Cosimo il Vecchio, era infatti salito sul trono di Pietro, con l’appoggio dell’imperatore Carlo V, il 19 novembre 1523.

    Attraversato il portale si accedeva al cortile interno fiancheggiato da un ampio portico a volte ribassate sostenute da pilastri polistili. Davanti si trovava una loggia con volte a crociera composta da tre arcate gotiche in pietra fronteggiate, sugli opposti lati, da altre due in laterizio. In un angolo, sul fondo, era posta una statua a grandezza naturale di San Luigi, mentre ovunque si volgesse lo sguardo, piante e fiori rallegravano l’ambiente, rischiarato dalla fiamma di numerose fiaccole fumiganti.

    I servitori all’ingresso, con molta deferenza, invitavano gli ospiti ad entrare in un portone posto sulla destra del cortile. All’interno, un vano di passaggio immetteva in un magnifico scalone monumentale che conduceva al piano superiore. Le pareti laterali erano impreziosite da finte colonne con capitelli dorici e più in basso da un elaborato corrimano scavato nella pietra ed accuratamente levigato. Fra una colonna e l’altra erano appesi dipinti di notevole fattura, mentre sulla volta era affrescata un’allegoria di agosto: Cerere in trionfo con le messi in pugno ed il braccio elevato oltre la sommità del capo. Tutto contribuiva ad accrescere la considerazione che la padrona di casa, evidentemente, desiderava ottenere ancora prima di presentarsi alla nobiltà parigina. D’altra parte era chiaro che non si fosse fatta economia, né nel restauro, né nell’allestimento del ricevimento. La dimora appariva sfavillante, degna di un nobile di alto rango, e l’allegria che si respirava consentiva d’immaginare perfino il profumo del vino mentre invadeva l’alveo delle coppe. Purtroppo si potevano immaginare anche le chiacchiere insulse ed i viscidi baciamano che in quelle occasioni si sprecavano senza alcun ritegno.

    Giunti in cima allo scalone si cominciava ad avvertire più distintamente il vociare degli invitati, ingentilito dalla musica che, discretamente, accompagnava le danze. Attraversata una stanza con funzioni di atrio, si accedeva al salone, ma non prima di essere ricevuti da un paio di servitori che si premuravano di annunciare l’ingresso dei nuovi arrivati.

    Appena varcata la soglia del salone Phil e Nicolas, tronfi e mai abbastanza compiaciuti nel riascoltare, ancora una volta, la declamazione dei propri titoli, rimasero senza parole sopraffatti dalla magnificenza e dalla ricchezza dei decori. Il soffitto a botte era interamente affrescato con scene di caccia, immagini di santi ed allegorie della prosperità incorniciate da motivi floreali, a loro volta cornici di un suggestivo riquadro centrale ove si magnificava la potenza di Dio sugli uomini. Sul lato sinistro si aprivano tre bifore che davano sul cortile interno, mentre su quello destro, prospicienti l’esterno, si trovavano due trifore, fra le quali si ergeva un maestoso camino in marmo d’Arcueil finemente cesellato, lungo circa cinque passi ed alto come un uomo, entro il quale ardeva un’intensa fiamma giallo rossa che contribuiva non poco a riscaldare l’ambiente. Tutte le finestre erano dotate di tende e drappi in velluto blu elegantemente accostati al muro dipinto in un giallo vivo. Sulla parete opposta all’ingresso, distante almeno quaranta braccia, spiccava un’emblematica ed inquietante raffigurazione di Salomé mentre mostra un vassoio sul quale è riversa la testa mozzata di San Giovanni Battista.

    I musici occupavano un angolo in fondo a sinistra su una pedana leggermente rialzata rispetto agli invitati, i quali erano già, in buona parte, impegnati nelle danze.

    Intento com’era ad ammirare il gusto dell’insieme, ma soprattutto ad interrogarsi sul deciso contrasto tra il trionfo maligno di Salomé e le immagini sacre sparse un po’ dovunque, Phil non si accorse dell’avvicinarsi di un servitore che avrebbe introdotto la padrona di casa. Nicolas, anch’egli attonito, fece appena in tempo a raccomandarsi discrezione e cortesia, aggiungendo con un bisbiglio canzonatorio: «Tutti gli ingenui si ambientano spendendo con parsimonia!»

    «Buona parte degli ingenui!» puntualizzò Phil storcendo la bocca per non farsi sentire. «Qui si è fatta eccezione!» proseguì a denti stretti.

    «Le vostre grazie onorano questa casa con la loro presenza» disse con un ampio inchino il servo che si parava innanzi loro e che di seguito aggiunse: «Vorrei presentarvi la mia padrona, Anne Mathiez, contessa di Montgaillard.»

    La contessa aveva un aspetto minuto, non era molto alta, i capelli neri e lisci, raccolti in una treccia sopra la nuca e fermati da un filo di perle, esponevano una fronte alta, mentre il mento volitivo e un po’ pronunciato le conferiva un aspetto vagamente mascolino. Un collo lungo e aggraziato faceva bella mostra di sé, cinto da un filo di cotone che reggeva un pendente in oro nel quale erano incastonate tre perle grandi come nocciole che poggiavano sul profilo del seno. La lunga sopravveste, chiusa sull’addome, ammantava l’estremità delle spalle con un velluto di un delicato color arancio, ricco di decorazioni in rilievo di colore più chiaro che scendevano fino ai piedi. Sotto, la veste vera e propria si allungava coprendo le braccia. Di colore porpora, era ricamata con margherite poste alla sommità di foglie in seta nera, ciascuna delle quali era incorniciata da losanghe formate da nastri cuciti a crociera dello stesso colore della sopravveste. Contrariamente ai canoni dettati dalla moda, che alla donna prescriveva un viso dal colore cereo o quantomeno pallido, il volto della contessa aveva l’incarnato di un roseo naturale, sul quale risaltavano un paio d’occhi scuri e penetranti che non disdegnavano di muoversi vivacemente, come se, a piccoli lampi, stessero analizzando ogni singolo particolare di ciò che avevano di fronte. Dietro le spalle di lei vigilava un gigantesco individuo che attirò lo sguardo preoccupato dei due giovani, costretti ad alzare gli occhi per osservarne la sommità del capo.

    «Lui è Benoît, mi difende dai malintenzionati, ma non lasciatevi impressionare, i miei ospiti non hanno nulla da temere!» si affrettò a precisare la contessa con un aggraziato inchino. Nicolas deglutì senza staccare gli occhi dal gigante, che di rimando lo squadrava come se fosse pronto a farne polpette da dare in pasto ai cani. Benoît sovrastava Anne di quasi tutto il busto, con un torace che probabilmente non si poteva cingere fra la braccia di un uomo e certamente, stimò Nicolas, era più alto di almeno due spanne rispetto all’individuo più alto di cui avesse memoria. Un colosso che dagli alluci alla testa doveva misurare non meno di otto piedi, più di tre e mezzo da una spalla all’altra ed in mezzo un corpo costituito da non meno di trecentocinquanta libbre di organi, muscoli ed ossa.

    Vedendolo paralizzato ed incapace di riscuotersi, Phil lo tolse d’impaccio urtandolo con la spalla mentre rivolgeva alla contessa un tiepido saluto chinando lievemente il capo.

    «Siamo noi ad essere onorati della vostra presenza, contessa. Parigi e tutti i pavoni che l’affollano avevano bisogno di un afflato d’aria nuova!» s’intromise Phil, ignorando un’occhiata di rimprovero del cugino che con la spallata aveva rischiato di perdere l’equilibrio, ristabilito il quale, goffamente si affrettò a baciare la mano della nobil-donna.

    «Siete gentile, ma mi sopravvalutate!» rispose la dama, con poca convinzione circa la sincerità del complimento. Riuscì tuttavia a nascondere la propria perplessità sorridendo e volgendo lo sguardo verso il basso. Aveva denti bianchi come il latte, allineati come raramente si poteva ammirare, ed una piega della bocca che disegnava un sorriso naturale. Trasmetteva un’autentica e schietta allegria che conquistò l’ammirazione dei due ospiti, lasciandoli senza fiato.

    «Per nulla mia signora!» replicò Phil, scacciando l’imbarazzante silenzio che era calato fra di loro a dispetto della musica e del vociare degli altri invitati di cui erano circondati.

    «Avrete sicuramente molte cose da raccontare sulla vostra terra d’origine, su come avete curato la ristrutturazione di questo magnifico palazzo, sull’accoglienza che vi aspettavate dai parigini, sulle ragioni che vi hanno condotto qui e via dicendo, probabilmente potremmo conversare per delle ore… non credete?» chiese infine Phil.

    «Se lo desiderate, mio signore» rispose garbatamente la donna.

    «Sarà un piacere per me, col vostro permesso, venirvi a trovare! A proposito, debbo scusarmi con voi per essere venuto a mani vuote» aggiunse il marchese cambiando discorso. «Tutta colpa di questo mio dissennato cugino che non mi aveva informato, se non mentre eravamo già in viaggio, di questo invito. Comunque rimedierò quanto prima, ho già in mente qualcosa che contribuirebbe a rendere ancora più gradevole questa già sontuosa dimora.»

    «Non ve ne date peso. Trovate davvero la mia casa di vostro gradimento?» domandò la contessa.

    «Certamente, sono… siamo, io ed il mio qui presente cugino, rimasti impressionati ed anche meravigliati nell’apprendere che questo magnifico palazzo appartiene alla vostra famiglia.»

    «In realtà, mio signore, l’ho acquistato solo recentemente, ad un’asta. Un buon affare dettato dalla decisione di trasferirmi a Parigi!» rispose la contessa mettendosi sulla difensiva e scrutandolo con attenzione. Sentiva che quell’individuo, apparentemente galante, le nascondeva qualcosa. Percepiva parole che non erano espressione sincera del pensiero. Non riusciva a spiegarselo, ma ne era convinta e niente poteva risultarle più odioso che un bugiardo, specie se ossequioso e galante. Avrebbe preferito aver a che fare con un ladro, del quale perlomeno è più facile intuire le intenzioni.

    «Interessante. Un buon affare dunque!» osservò Nicolas intromettendosi. La contessa si voltò verso di lui ruotando la testa con eleganza e confermò con un sorriso.

    «Non mi sembrate stupito!» disse rivolgendosi a Nicolas, ma riportando lo sguardo su Phil per osservarne la reazione.

    «In effetti non lo sono. Apprezzo la vostra sincera confidenza!»

    «Felice di sentirvelo dire, anch’io amo la sincerità. Ora, miei signori, col vostro permesso, i doveri di ospitalità mi impongono di non trascurare oltre gli altri ospiti!» replicò congedandosi con una riverenza e mantenendo gli occhi fissi su quelli di Phil, che invece distolse lo sguardo per dare un’ultima occhiata a Benoît, il quale a sua volta lo scrutava minaccioso.

    «Vi prego, non indugiate, è stato un vero piacere conoscervi!» rispose il marchese a cui, nel frattempo, Nicolas aveva appoggiato un braccio sulla spalla trascinandolo in un inchino più pronunciato di quanto avrebbe desiderato.

    «Phil!» lo rimproverò Nicolas non appena la contessa si fu allontanata «Mi ero raccomandato la cortesia!»

    «Perché?» domandò Phil con un’espressione che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto dimostrare un candore fanciullesco, ma che non avrebbe ingannato nemmeno un neonato.

    «Come perché? Hai accolto la contessa con freddezza, giusto un tiepido accenno di inchino. Baciarle la mano? Nemmeno preso in considerazione! Se non ti avessi aiutato non ti saresti inchinato nemmeno al momento del congedo. I trovatori difficilmente potrebbero trarre ispirazione da te per descrivere le gesta di nobili cavalieri impegnati nel corteggiare la dama amata.»

    «È solo una donna che pensa di poter stare alla pari di un uomo e che pare aver dimenticato di dovergli essere sottomessa!»

    «Dannazione Phil, avrei dovuto lasciarti dove t’ho scovato!»

    «Non ti ho chiesto io di portarmi qua! E poi l’hai detto anche tu: siamo venuti per divertirci. Per quello che mi riguarda sono stato fin troppo delicato. Mi sono trattenuto giusto perché me lo avevi chiesto» replicò Phil seccato.

    «Per fortuna! Mi è mancato qualche tuo commento irriguardoso a completare l’opera» sbottò Nicolas con tono canzonatorio.

    «Ascolta amico mio, non vorrai farmi credete che non hai provato un senso di nausea alla vista di quest’ennesima gallinella pronta ad immolarsi per un briciolo di potere!»

    «Onestamente? No!»

    «No? Non vorrai farmi credere che non hai sentito le budella contorcersi!»

    «No!»

    «Buon Dio, poveri noi. Ti sei lasciato incantare!» commentò Phil rivolgendo incredulo gli occhi al cielo.

    «Fammi un favore, Phil: trovati qualcosa da bere ed annegaci le tue frustrazioni!» concluse Nicolas disgustato mentre si allontanava.

    «E tu dove vai?» domandò l’altro sollevando con sconcerto le sopracciglia.

    «Vado a scusarmi con lei. Spero non si sia offesa.»

    «Sei uno stolto, credimi, quella è una donna catafratta, non ha bisogno di essere consolata!» replicò Phil sprezzante.

    «Può darsi» mormorò Nicolas allontanandosi, ma Phil non riuscì a sentire le sue parole mentre fissava le spalle del cugino che si dirigeva dall’altra parte del salone.

    Nicolas era un caro amico, per la verità l’unico che avesse mai avuto. Gli altri erano semplici conoscenti. Amici per il tempo di una bevuta, sconosciuti già dal giorno successivo. Non ne sentiva la mancanza. Per qualche motivo che non aveva ancora individuato si stancava presto delle compagnie ed aveva sempre bisogno di conoscere gente nuova per ripetere immancabilmente lo stesso rituale che sommava insieme: donne, cibo, vino e consumati dialoghi di ebbra filosofia. Esistevano anche varianti nell’ordine degli addendi, ma i saggi princìpi e gli autorevoli dialoghi onniscienti venivano distillati sempre dopo aver vuotato diverse brocche di vino.

    Il cugino Nicolas era l’unico che riusciva a frequentare nuovamente dopo aver smaltito la sbornia. Phil si era aggrappato all’idea che lui fosse il suo vero amico, talvolta però era sfiorato dal dubbio, in verità estremamente passeggero, che quell’amicizia poggiasse su deboli fondamenta. Dovuta più ad una reciproca convenienza che ad un rapporto sincero. Phil era un bel giovanotto, nonostante fosse lievemente appesantito dall’eccesso di cibo e vino. Molto colto, aveva una naturale predisposizione ad intercettare l’attenzione delle dame, che spesso gli entravano nel letto quasi senza accorgersene, stordite dal vino e dalle sue chiacchiere. Quello che avanzava andava benissimo per Nicolas, un bel ragazzo pure lui, tuttavia più impacciato, al limite della goffaggine, ma al culmine della serata per le donzelle l’uno o l’altro diventava indifferente. Nicolas contribuiva però con un ingrediente indispensabile di cui Phil era spesso carente: il denaro che la zia gli infilava nelle tasche e che lui versava ai tavernieri ben felici di spillare vino a fiumi. Fra loro si era quindi creata una specie di simbiosi che poteva essere scambiata per amicizia: l’uno imbandiva una tavolata di donne ed altre comparse reclutate sul momento, l’altro metteva il denaro per rallegrare la serata.

    Il fastidioso dubbio si insinuò nuovamente nella mente di Phil mentre, rimasto solo, si guardava intorno. Fra gli ospiti riconobbe Margherita d’Angoulême, duchessa d’Alençon sorella del re di Francia; alcuni membri dei Lauraguais; il giovane erede di Louis II de La Trémoille, visconte di Thouars deceduto nella sciagurata battaglia di Pavia del 1525, quella nel corso della quale il re di Francia cadde prigioniero delle truppe imperiali; la moglie di Guillaume du Bellay, signore di Langey; la giovane Louise de Clermont-Tallard, futura duchessa d’Uzès; Anne de Pisselleu, duchessa d’Étampes, la favorita del re; Étienne Proncher, vescovo di Parigi; monsieur Budé, maestro della libreria del re; un paio di rampolli del casato de La Tour d’Auvergne ed un numero imprecisato di altri ospiti abituali frequentatori della corte. Un caleidoscopio di scomodi abiti dai colori sgargianti, indossati da individui che Phil avrebbe volentieri evitato, ma che era costretto a frequentare per ambizione paterna. L’anziano genitore, pur non avendo rinunziato ad educare all’arte militare quell’unico figlio rimastogli, svogliato e scostante, sperava contemporaneamente di trovargli moglie, preferibilmente figlia di un duca, o per lo meno di un marchese o di un conte, purché recasse in dote diversi ettari di terra da annettere alle proprietà della famiglia. Una ricerca che fino a quel momento non aveva dato frutti, soprattutto perché il ragazzo preferiva la compagnia di tutt’altro genere di fanciulle, in verità particolarmente disinibite e leste nel togliersi gli abiti a pagamento. Abitudine libertina in sé disdicevole, che si sarebbe facilmente tollerata dopo il matrimonio, ma assai riprovevole prima. Soprattutto agli occhi della madre della potenziale sposina, che dei tradimenti dei mariti era ben consapevole, soprattutto di quelli dei mariti di altre donne, mai di quelli del proprio. Phil, suo malgrado, si era dovuto chinare al volere del padre che, in cambio dei quattrini che spilorciamente centellinava per il suo mantenimento, gli aveva imposto di frequentare la buona marmaglia parigina, nell’ormai disperata speranza di arricchire la famiglia, se non per meriti militari, almeno con un matrimonio fondato sul sacrosanto interesse. Fortunatamente in mezzo a quella sarabanda non fu difficile per Phil defilarsi, individuando in fondo alla sala, proprio a fianco dei musici, la porticina tramite la quale si accedeva alla stanza nella quale sarebbe stato servito il banchetto.

    Il ragazzo non impiegò molto a scegliere il percorso migliore per attraversare la sala evitando discretamente le persone più fastidiose, in particolare quelle logorroiche, come madame de Bordes, tanto formosa quanto petulante.

    L’impresa non riuscì. Quella civetta della de Bordes sembrava occupata in una conversazione fitta fitta con tre donne della sua schiatta. Invece, scoprì Phil, era in agguato come un ragno nella tela. Il gruppetto sbarrava il lato destro del salone, appena oltre l’enorme camino, proprio ai margini della zona ove si svolgevano le danze. Per evitarlo completamente sarebbe stato necessario tornare indietro e percorrere l’altro lato. Allungare il tragitto significava però aumentare le probabilità di essere intercettato da qualche altro insulso invitato. Un’opzione immediatamente esclusa. Madame de Bordes dava le spalle alla parete lasciando uno spazio sufficiente al passaggio di un paio di persone affiancate. Un piccolo corridoio, forse sufficiente per sperare di poter passare inosservati. Phil era intento in quelle valutazioni quando si accorse che un uomo, proveniente dal fondo della sala, veniva nella sua direzione. Un’occasione che non si lasciò sfuggire. Con un’occhiata sincronizzò il suo passo con quello dell’altro affinché si trovassero a passare contemporaneamente, anche se in senso inverso, nell’angusta strettoia rimasta fra il gruppetto della de Bordes e la parete della sala. Quando furono ormai vicini alle donne concentrate in un fitto spettegolìo, Phil scartò a destra quasi strisciando la spalla contro la parete in modo che l’altro potesse coprirlo, almeno in parte, frapponendosi fra sé e le donne. In quell’istante, gli occhi che teneva ben fissi sulla parete di fronte, si ribellarono e contro la sua volontà, con la coda dell’occhio gettò uno sguardo curioso sul gruppetto di dame, per accertarsi di essere scampato al pericolo. Invece fu giusto per notare il segnale. La trappola era scattata e lui come un allocco non era riuscito ad evitarla. Si maledisse per non aver preferito il percorso alternativo. I sensi sono complementari e spesso si soccorrono fra loro, supplendo alle deficienze gli uni degli altri. Così, come il cieco vede con le mani ed il sordo ascolta con le immagini del mondo circostante, gli occhi talvolta sentono ciò che non può essere udito. Percepiscono quelli degli altri e rapidi si volgono a cercarli. Ne captano l’affinità e, come attirati da ormoni irresistibili, si corrono incontro fino a quando non si incrociano. Si ammirano rapiti per un istante, poi, soddisfatti, distolgono lo sguardo. Gli occhi di Phil avevano intuito quelli cilestrini di madame Nourry. Se li erano sentiti addosso e li incrociarono proprio mentre si staccavano per incontrare quelli della de Bordes e subito dopo tornare indietro e puntarli di nuovo sulla selvaggina. Era il cenno che il ragno attendeva. La preda era caduta nella rete.

    Madame de Bordes era una donna giunonica, larga di fianchi e di petto. Il volto, le mani ed il seno erano resi diafani da un pesante strato cosmetico costituito da biacca di piombo. Le sottili sopracciglia erano ben rasate, come l’attaccatura dei capelli, affinché la fronte risultasse più alta ed imponente. Così voleva la moda del tempo. Indossava una camora scarlatta listata di velluto verde, sopra ad un vestito la cui ampia scollatura quadrata scopriva generosamente la rosea prospicienza del seno. Dalla veste si dipartivano lunghe maniche ricoperte da numerosi nastri di raso, in un’orgia di tessuti e colori che terminava con raffinati merletti color dell’oro. Muoveva le mani facendole volteggiare con malizia, quasi sempre tenendo le dita nascoste, leggermente reclinate all’interno del palmo affinché le pietre dei numerosi anelli potessero riflettere meglio la luce delle molteplici candele. Con naturalezza si sfiorava, di quando in quando, il solco del seno, per raggiungere un’enorme perla che le pendeva dal collo e con la quale giocava facendola roteare tra le tozze dita. Riusciva così ad incantare diversi uomini che, attirati dalle forme procaci, ne supplicavano le grazie. Erano in molti quelli che si erano rovinati per quella callida dama, primo tra tutti il suo sciagurato marito, che le veniva appresso come un cagnolino fedele. Aveva avuto molti uomini ai suoi piedi, ma avida com’era ne bramava altri, in particolare quelli che sembravano insensibili alle sue forme sinuose, e più di tutti desiderava il giovane marchese di Torque.

    Non appena il segnale fu dato, madame de Bordes si girò con consumata eleganza simulando di essersi imbattuta del tutto casualmente nel protagonista dei suoi più scandalosi sogni. Fingendosi sorpresa, si affrettò in un profondo inchino poi, senza concedere tregua, prese a blandire il malcapitato marchese ancora stordito dall’agguato che stoltamente non era riuscito ad evitare. Mentre la de

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