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Negretta: Baci razzisti
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Negretta: Baci razzisti
Ebook189 pages2 hours

Negretta: Baci razzisti

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About this ebook

Se tua madre lavora, deve per forza di cose pulire le scale. O fare la puttana. Se invece cammini da sola per strada, sei tu a essere presa per una puttana. Succede se sei una donna. Nera. In Italia. Oggi. E non ha nessuna importanza che tu sia nata in questo paese, perché ci sarà sempre chi, ascoltandoti parlare, non potrà fare a meno di stupirsi di come tu conosca così bene l’italiano… Accade perché la lingua della discriminazione non conosce mezzi termini. E aggiunge agli episodi di brutale razzismo mille occasioni di sottile disprezzo e di malcelata ignoranza. A raccontarlo è una ragazza diventata grande sentendosi chiamare Negretta e cresciuta trovando ogni giorno la forza per affrontare le ferite inferte alla sua anima dal sessismo, dal disprezzo per i poveri e dalla xenofobia. Una battaglia per l’affermazione di un’identità afroitaliana che non rinuncia a sfoderare l’arma dell’ironia, costruendo un labirinto di finali imprevedibili, di passioni irrinunciabili e di consapevolezze strappate al disprezzo di chi, pagina dopo pagina, dall’alto del suo machismo e del suo razzismo più o meno conclamato, sarà costretto a scoprire di essere già stato sconfitto dalla storia.
LanguageItaliano
Release dateMar 4, 2021
ISBN9788867182831
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    Book preview

    Negretta - Marilena Umuhoza Delli

    resilienza.

    Introduzione

    Eroi pronti a morire per il nostro paese

    Quando i miei concittadini mi dicono «perché non te ne torni a casa tua?», è evidente che non gli sia mai passato per la mente che mi trovi esattamente nell’unico paese che abbia mai conosciuto: l’Italia. Il posto in cui sono nata e cresciuta. Il posto da cui ho fatto ingresso in questo mondo e in cui intendo vivere ognuno dei miei giorni fino alla fine.

    Non c’è altro posto sulla terra in cui vorrei essere. L’Italia è casa mia.

    Quando testimonio le dure prove che i molti immigrati affrontano per raggiungere le nostre spiagge, sospesi tra la vita e la morte, credo fortemente che invece di ricevere una punizione dovrebbe essere garantita loro la cittadinanza. Non sono criminali, ma individui così attaccati al nostro paese da aver rischiato la vita per la benché minima possibilità di viverci.

    La loro devozione è radicata così a fondo che non può competere con la casualità di un luogo di nascita. Perché sono quegli stessi stranieri ad aver scelto questa nazione a ogni costo – a costo della loro stessa esistenza.

    C’è forse un test sulla cittadinanza migliore di questo?

    Negretta

    Baci razzisti

    prologo

    Mia madre voleva chiamarmi Maria Elena, come la regina d’Austria.

    Quando mio padre andò a registrarmi al comune, non riuscì a ricordare con esattezza il nome tanto desiderato dalla moglie. Lui e gli impiegati optarono quindi per Marilena, riducendo i due nomi a uno solo.

    Come se non bastasse, lo staff del comune non accettò di registrare anche il nome rwandese scelto per me da mia madre: Umuhoza, consolatrice. Si rifiutarono, sostenendo che quel nome non avrebbe fatto altro che rivestire il bambino di ridicolo, un po’ come se avessero voluto chiamarmi Hitler o Rompiballe.

    Più di trent’anni dopo fui io ad andare in città per documentare la nascita di mia figlia. Era passato tanto tempo, eppure il nome rwandese scelto per lei fu rifiutato di nuovo.

    non una singola grinza

    Rwanda, 1978.

    Ogni centimetro della sua pelle era coperto di polvere rossa quando l’incontrò per la prima volta. Si era avventurato in una corsa di sei ore in moto, senza casco, su per le vie sterrate verso l’estremità nord-est del Rwanda, dove le strade muoiono all’altezza del lago Kivu.

    La sua futura sposa lo aspettava davanti alla capanna. Una tunica psichedelica perfettamente stirata, nonostante la famiglia vivesse senza elettricità e acqua corrente.

    Col dorso delle mani, Giuseppe strofinò via la terra dagli occhi, per ritrovarsi di fronte una donna mingherlina. Era la madre di lei. Gli ricordò le tante donne bergamasche con cui era cresciuto a Verdello. Come la sua, di madre, era una donna stoica, una contadina.

    « Maman, amakuru?».

    saliva rwandese

    Quando i miei non si trovavano d’accordo su qualcosa, io davo sempre ragione a papà. Lui era quello bianco, l’italiano. E perciò, l’intelligente. La voce dell’autorità. Un ex prete da cui la gente pendeva dalle labbra, immeritatamente.

    Fu allora che mia madre cominciò a sputare: addosso a me, a papà, alle finestre e alla tv. Addosso a qualsiasi cosa. La sua saliva percorre tutte le mie memorie, come un ritornello musicale.

    Fui battezzata dalla sua rabbia.

    la casta dei biscotti

    La odiavo.

    Lei, che mi aveva passato quel colore. Avevo imparato a conviverci, ma ogni volta che me ne dimenticavo c’erano i poster della Lega a ricordarmelo. Quei poster di merda più i miei ventisette compagni di prima elementare.

    Strizzata nel cucinotto 2x2, mamma dava amorevolmente forma a ogni biscotto con la stessa dedizione di uno scultore dell’Accademia Carrara.

    Chili di noccioline sbucciate, due cucchiai di miele e una teglia ben oliata erano tutto l’occorrente. Dal settimo piano di Athena 3, venti metri sopra la porta d’ingresso con la scritta « immigrati merda» e i graffiti « vendo droga» , il profumo di dolci si spanse per l’intero vicinato.

    Più tardi, alla festa della scuola, la tavola del rinfresco fu imbandita con delizie bergamasche di ogni sorta: spongada dè Solt , sfogliatine di lago, polentine, tegoline. L’unico vassoio straniero era il mio: un monte Karisimbi di biscotti, cinque volte più grande degli altri piatti. E ancora fumante, come il vulcano rwandese. Mamma si era alzata alle quattro del mattino perché tutto arrivasse caldo e croccante.

    «Vedrai. I nostri biscotti speciali conquisteranno anche il bambino più ostile. Te lo prometto».

    Quando alla fine della giornata squillò la campanella, i miei compagni ritirarono i loro vassoi completamente vuoti. E io mi ritirai la mia montagna, intoccata.

    Caricai i miei speciali non più speciali biscottini sul pulmino e non osai provare a offrirne nessuno agli altri bimbi. La risposta la sapevo già. Infatti, arrivò senza nemmeno pronunciare parola: «Negretta!».

    il metodo pestalozzi

    Mi diede una frustata sulle chiappe nude con la cintura che mamma gli aveva appena regalato per il compleanno.

    « Egne qua, piaga ! A scuola, o sono guai!».

    «No, non ci vado!».

    «Allora userò il metodo Pestalozzi», e così dicendo mi diede un potente calcio al fondoschiena, che indirizzò dritto alla porta, finendo per spalancarla.

    Un nonnino che passava coi borsoni della spesa si fermò, ma poi riprese come se niente fosse.

    fino all’ultima crosta di cacca

    Il giorno che mamma si decise a trovare un lavoro, aveva il ciclo.

    Le strade erano coperte di ghiaccio, ma si avventurò comunque fuori a piedi, con lo stesso straccio a brandelli zuppo di mestruo tra le gambe. Durante il ciclo perdeva sangue a fiotti e i crampi erano così acuti da irrigidirla e farla collassare contro il muro in cerca di sostegno. Ma il dolore fisico poteva sopportarlo. O almeno, ci si era abituata: «Cosa sono le mestruazioni a confronto dei due genocidi che mi hanno sterminato la famiglia?», si ripeteva.

    Era l’umiliazione che non reggeva più. Soprattutto lei, una Tutsi, a cui era stato instillato fin dalla nascita che apparenza e orgoglio erano tutto. Cosa avrebbe pensato sua madre adesso, se avesse visto il vestito di sua figlia macchiato di sangue?

    Così mamma si era fatta coraggio e aveva supplicato mio padre per la centesima volta, perché le prestasse due spiccioli per gli assorbenti. Ma lui rifiutò. La chiesa non l’aveva certo preparato ad affrontare i bisogni di una donna. Che si trattasse di ventimila lire per l’unico vestito nuovo comprato in un anno o di mille lire per la pasta e il sugo, la reazione di papà era sempre la stessa: scherno.

    E così, in preda alla disperazione, mia madre si era messa a pulire case. Avrebbe grattato fino all’ultima crosta di cacca dal water e si sarebbe prostrata a terra per sfregare il pavimento di estranei razzisti. Era determinata a impedire che sua figlia subisse la stessa umiliazione, il giorno che avesse sanguinato per la prima volta.

    Papà non aveva soldi per gli assorbenti di mamma eppure, chissà come, ne trovava sempre per il suo formaggio. E non uno solo, ma una varietà infinita dei suoi prediletti: taleggio, mascarpone, parmigiano, gorgonzola e lo stracchino bergamasco più delicato.

    « La bóca l’è mia straca se la sènt mia de aca» , era il suo motto.

    le mie nere

    Kigali, 1975.

    Il suo predecessore aveva lasciato l’ufficio in un tale disordine che la prima cosa che Chantal fece fu ripulirlo. Era nel pieno delle pulizie quando le insegnanti aprirono la porta, trovandola così: foulard in testa, scopa in mano e piedi nudi; tale e quale a una sguattera.

    Con un battito di mani, suor Maurine invitò le sue nere, come le chiamava lei, a entrare. A testa bassa, presero posto in silenzio.

    Quelle donne erano di Cyangugu, al confine tra Rwanda e Congo. Nessuna di loro aveva mai lasciato la foresta di Nyungwe, nessuna di loro superava i vent’anni.

    «Sono Chantal, la nuova…».

    «Sappiamo tutti chi è».

    La suora lanciò un’occhiata ai suoi libri, disposti sulla scrivania.

    «Le faccio notare che in questa scuola ogni riferimento a re o regine del Rwanda è proibito. Se lei è qui, è solo per la bontà della nostra madre superiora, che per qualche sconosciuta ragione accoglie i Tutsi come tanti cani randagi. Si consideri fortunata».

    Al che quella donna, senza capelli né sopracciglia ma baffi a vista, rovesciò a terra la pila di carte e cartelle che teneva in mano.

    «Scusi, lei chi…?».

    «Suor Maurine. Sono la sua segretaria».

    «La ringrazio Maurine, ma dovrebbe sistemare le cartelle sul mio tavolo se non le spiace».

    «Perché, lei non è capace?».

    Un risolino sommesso percorse la stanza.

    Se c’era una cosa in cui Chantal faceva fatica, quella era piegare la gamba zoppa. Costretta a quell’onere, ci provò, ma perse l’equilibrio e cadde a terra sbattendo la testa.

    Nessuna delle nuove colleghe mosse un dito per aiutarla.

    Dopo aver raccolto i fogli, si sedette dietro la scrivania. Una goccia di sangue le serpeggiò giù dalla testa e formò una pozzanghera dentro l’occhio sinistro. Cominciò a passare in rassegna le facce di ogni insegnante finché una a una non distolsero lo sguardo.

    La nuova direttrice era arrivata.

    i vantaggi di un cesso

    Mi piegai in due per proteggermi il viso dal battipanni. Tentai di sfuggirle, ma finii solo per inciampare tra le lenzuola zuppe di piscio.

    « Nyagasani ! Hai ancora bagnato il letto. Quando la pianterai di farmi lavorare come una schiava?».

    Era la seconda notte di fila. Di solito non capitava più di una volta al mese. Così da sei anni.

    «Almeno gli esercizi d’inglese li hai fatti?».

    Gli esercizi d’inglese: un corso a fascicoli dal titolo L’inglese senza pretese . Eppure esordiva con i tempi verbali ed era avaro di immagini e spiegazioni. In copertina, un vecchio sdentato in bilico sopra il Tamigi. Ogni volta che aprivo quel dannato libro, m’immaginavo di spintonare il vecchio giù nel fiume e rimpiazzarlo con Hugh Grant.

    Mia madre sollevò ancora il battipanni e lo batté sulla mia schiena con maggiore violenza. A ogni botta, una parola: «Quando-lo-capirai-che-noi-contiamo-meno-dei-bianchi!».

    Finché abbassò l’arma e mi prese la testa con le dita.

    «Ma tu lo sai che io facevo dieci chilometri a piedi, in collina, per raggiungere la scuola più vicina? E con una gamba zoppa! La borsa di studio la vinsi a otto anni. Otto! E tu che fai? Dai per scontata l’altissima educazione di questo paese e la mandi jù nel scesso … noi non ce l’avevamo nemmeno il scesso ! L’inglese è tutto nella vita, lo capisci o no?», sbraitava mamma, battendomi.

    E così, mentre i miei coetanei giocavano a nascondino al parco o facevano qualche corso figo come danza moderna o body painting, io ero confinata in casa e costretta a studiare una lingua straniera prevista unicamente dalle medie in su. Solo io la studiavo da prima delle elementari.

    «Loro ci guarderanno sempre come esseri inferiori. Partiamo svantajati . Quindi dobbiamo rimboccarci le maniche dieci volte più di loro», martellava mia madre.

    «E perché?».

    «Perché tu sei diversa».

    «In che senso diversa?».

    «Che sei speciale».

    E così, giù a studiare le poesie dell’Ungaretti, la caduta dell’Impero Romano e l’alfabeto inglese, ben oltre l’ora del sonnellino montessoriano prescritto ai miei coetanei.

    sai parlare l’africano?

    La maestra puntò la bacchetta sull’immagine di una chitarra acustica.

    «Chi vuole sillabare questa parola?».

    Alzai la mano, col sorriso della certezza stampato in faccia.

    « g-h-i-t-a-r-e . Ghitare».

    La classe scoppiò a ridere.

    «Marilena, in italiano questa è una chitarra . So che in africano è diverso. Cerca solo di non confondere più le due lingue, va bene?».

    L’ africano raggruppava, a dire della maestra Pennacchia, le migliaia di lingue e dialetti che costellavano l’Africa intera.

    Ghitare fu la prima di tante parole che dovetti re-imparare a scuola. Cortero fu corretto in coltello, aise in aids .

    Mamma mi parlava in un italiano immigrato. Un misto di parole francesi, bergamasche e rwandesi. Era un italiano approssimato il suo, appreso da cartoni animati e vicini di casa che parlavano solo dialetto.

    Quel pomeriggio, di rientro dal lavoro, mamma accostò una sedia alla mia per leggere con attenzione ciò che stavo scrivendo.

    «Vai via, smettila di farmi sbagliare».

    La scansai, ma lei non accennò a muoversi.

    «Oggi la maestra ci ha spiegato che ghitare non è una parola. Si dice chitarra, e si scrive in questo modo…».

    Fu così che mia madre – lei che in Rwanda era stata direttrice e insegnante di filosofia, chimica, algebra, letteratura e lingua francese, corse a prendere carta e penna. Da brava studentessa, copiò la parola che avevo appena scritto cinque volte. Fu la prima di tante lezioni d’italiano a venire.

    afro- zucchero filato

    La fila di clienti sollevò lo sguardo dai bikini di «Novella 2000» alle facce forestére di me e mia madre. La chioma bionda della parrucchiera era infilzata da una gigantesca molletta fucsia. Spense l’asciugacapelli e scoppiò la Big Babol mentre apriva bocca: «Io

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