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L'emblema dell'anima
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L'emblema dell'anima

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About this ebook

Medara sembra una giovane ragazza come tutte le altre, in procinto di iniziare una nuova avventura alla Yale University. Nessuno sospetta che in realtà sia una creatura ultracentenaria in cerca di risposte su un importante oggetto del suo passato, né potrebbe mai immaginare che faccia parte di uno dei più importanti Clan di Cacciatori del mondo… Perché all’oscuro degli esseri umani, si aggirano creature quasi immortali e dai poteri terribili, creature che sembrano voler distruggere l’equilibrio del nostro mondo.

Eliana Crescenzo nasce a Torino il 15 gennaio 1997.
Figlia di genitori divorziati, vive a Bricherasio (TO) fin da quando era bambina e lì frequenta le scuole dell’obbligo.
Da quando ha dodici anni, ha sempre avuto la passione per la scrittura e l’invenzione di storie e, insieme alla lettura, questo è sempre stato il suo hobby più grande. Ha, inoltre, una certa passione per la musica e sono molti i generi che apprezza.
Ha frequentato la scuola professionale alberghiera di Pinerolo e, nonostante non abbia proseguito quella strada e sebbene non fosse quella che si può definire una studentessa modello, molte conoscenze, specialmente teoriche, le sono tornate utili per la sua passione nello scrivere.
LanguageItaliano
Release dateFeb 24, 2021
ISBN9788830635524
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    L'emblema dell'anima - Eliana Crescenzo

    cover01.jpg

    Eliana Crescenzo

    L’Emblema Dell’Anima

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3427-5

    I edizione febbraio 2021

    Finito di stampare nel mese di febbraio 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    L’Emblema Dell’Anima

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile:

    Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere.

    Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Prologo

    Merclan, Gloucestershire.

    1600 D.C.

    Le fiamme illuminavano l’intera prateria, rischiarando il bosco circostante.

    Non aveva la forza di voltarsi per contemplarle, ma ne sentiva il calore. Dovevano essere molto alte, ma di sicuro non erano state appiccate per lei. Non per ucciderla almeno. Sarebbe stato troppo veloce e liberatorio.

    Una decina di persone con dei mantelli l’avevano circondata, torturata e costretta ad accovacciarsi su se stessa. Riusciva a percepire gli sguardi di disgusto nascosti sotto i loro cappucci.

    «Sei una traditrice.» parlò infine un uomo con voce cupa, senza scomporsi più di tanto. Il suono proveniva da dietro di lei. Era deluso. La sua unica pupilla aveva tradito.

    Era stata cresciuta per quello scopo e, invece di portarlo a termine, era rimasta inebriata dalla curiosità.

    Possibile che, come molti avevano sostenuto dal momento del suo arresto, l’immenso potere della Pietra l’avesse soggiogata?

    «Non faremo differenze!» aggiunse un secondo uomo, avvicinandosi. La sua voce era carica d’odio e soddisfazione, come se da anni non aspettasse altro che quel momento.

    La osservò malignamente, per poi accovacciarsi di fronte a lei, conficcando la spada nel terreno, a pochi centimetri dalla gamba di Medara. Uccidere il condannato con la propria arma era un gesto nobile del loro clan, ma a lei non sarebbe stato concesso di morire dignitosamente.

    Avrebbe voluto reagire, ma in quel momento non ne era capace. Le mani le erano state legate ed era stata costretta da due di loro, probabilmente Coris e Lenar, a restare inginocchiata dopo aver ricevuto una scarica elettrica che l’aveva lasciata intontita e dolorante.

    Persino Acor era stato sopraffatto dalle ferite. A qualche metro da lei, il grande lupo nero giaceva inerme sul prato, il pelo sul torace aveva smesso di muoversi per il naturale movimento respiratorio. L’avrebbe difesa fino alle fine e così aveva fatto, persino il suo ultimo sguardo era stato per lei.

    Poteva solo aspettare.

    Buffo ci fossero le fiamme a danzarle dietro. Proprio le fiamme l’avevano portata al tradimento del suo clan, e ora erano lì a guardarla perire.

    Ma le fiamme non erano le uniche ad osservarla. A pochi metri dal gruppo, nascosto tra gli alberi c’era lui. Impeccabile come sempre, con la schiena appoggiata ad un tronco, in attesa del momento perfetto.

    La ragazza percepì una strana sensazione, qualcosa che avvertiva solo in presenza di Demoni. Stavano arrivando?

    Il capo estrasse un pugnale, a tutti ben noto, e con la lama le fece scivolare il cappuccio dalla testa per guardarla dritta in faccia.

    «Lo sapevo che ti saresti tradita, Medara. E sinceramente, ci speravo» le sussurrò all’orecchio, posizionando la magica arma dinnanzi a lei, con fare teatrale, in modo da mostrare a tutto il clan chi era veramente la Guardiana. Era tutto calcolato.

    Possibile che, come molti avevano sostenuto dal momento del suo arresto, l’immenso potere della Pietra l’avesse soggiogata proprio tramite il Pugnale?

    La ragazza alzò gli occhi verso l’uomo che la sovrastava e sostenne il suo sguardo, con fierezza.

    «Ho sempre messo in guardia gli altri, ma non mi hanno mai creduto» proseguì l’uomo, con voce calma. Aveva atteso quel momento per anni e voleva vedere la scintilla della vita spegnersi a poco a poco negli occhi della giovane. Il suo unico intento era solamente ammirare la riuscita del suo lavoro.

    «Non rimpiango le mie scelte, Elgor, e se questo sarà il tuo verdetto, sarò lieta di morire per un dignitoso pretesto.» rispose lei, con un ghigno soddisfatto. Aveva sempre detestato il suo fare da spaccone ed era appagata nel vedere che, come sempre, la sua scelta di parole riusciva ad innervosirlo.

    «Oh, no. Morirai come una lurida traditrice qual sei, ma non per mano mia. Voglio che tu capisca il tuo errore. Saranno loro stessi a farlo e il loro arrivo è imminente! Lo percepisci?»

    Medara l’aveva immaginato. Un esiliato era difficile che sopravvivesse a lungo. Per quanto fosse abile, se si fosse trovata circondata dai Demoni, in quel momento, avrebbe combattuto invano e le alte fiamme servivano proprio a richiamarli. Ben presto, Elgor e gli altri se ne sarebbero andati, lasciandola al suo destino.

    Il capoclan si sfilò il cappuccio per osservarla meglio. Emise un ghigno e si alzò, raccogliendo con la mano la spada della ragazza. La fece roteare tra le dita; era leggera, possente ed estremamente affilata al tempo stesso. Era decisamente la sua spada.

    Le concesse di tenerla, lanciandogliela a qualche metro di distanza. Tanto sarebbe morta in ogni caso, era debole e sola.

    La gamba sinistra le doleva. Abbassò gli occhi sul suo polpaccio e vide la profonda ferita attraverso i suoi amati pantaloni di cuoio nero. Anche se avesse provato a scappare, la ferita alla gamba le avrebbe comunque impedito di correre e stava perdendo troppo sangue per potersi spostare velocemente.

    Elgor osservò il circolo di gente attorno a loro e gridò: «Esilio!»

    Prima che i suoi compagni potessero rispondere, le fiamme presero vita, circondandola e separandola da quella marmaglia di gente incappucciata. Si muovevano in modo strano, come avessero vita propria e la stessero proteggendo.

    Un denso fumo nero si generò dalla barriera di fiamme, non più ormai sotto il controllo di Elgor.

    Eppure lei non riusciva a dominare il fuoco, non in quel modo. Non era tra le sue capacità. C’era solo una spiegazione, ma non poteva essere lui…Non poteva essere Dargo.

    Elgor si voltò a guardarla, con gli occhi stracolmi d’ira. Aveva capito cosa stava succedendo e doveva impedirlo. Si avvicinò a lei per tentare di recuperare il Pugnale e, nel mentre, alzò una mano verso le fiamme per provare a governarle, ma non appena la sua mano liberò una scia grigiastra, ci fu un’esplosione.

    Qualcosa o qualcuno aveva creato uno scudo magico altrettanto potente.

    L’onda d’urto scaraventò tutti a terra a una decina di metri di distanza, lasciando erba bruciata là dove il cerchio di fuoco l’aveva reclusa. Ma di lei e del Pugnale, più nessuna traccia.

    Capitolo 0 - Guerra Buia

    Contea del Gloucestershire.

    1100 D.C.

    L’intera valle era immersa in un silenzio tombale e illuminata dai raggi del sole calante. Sarebbe avvenuto al calar del sole, lo sapevano: li avrebbero attaccati senza pietà o compassione.

    I Demoni erano questo. Erano il male puro.

    Per questo, secoli addietro, erano nati i Cacciatori. Fisionomicamente identici agli esseri umani, erano abili combattenti. La loro comunità viveva nascosta dalle persone normali, in quanto erano esseri semi-immortali e chiunque si sarebbe accorto della loro esistenza e, di conseguenza, di quella dei Demoni.

    Uno dei più famosi sobborghi dei Cacciatori, chiamato Merclan, era situato tra gli immensi boschi di Bibury, circondato da betulle e querce, e confinante con il fiume Coln.

    Tutto il tratto di terra dei Cacciatori era protetto da incantesimi, in modo da non destare sospetti a chi vagava casualmente da quelle parti.

    Questi, infatti, erano dotati tutti di poteri antichissimi, donati dagli Angeli e derivanti dai quattro elementi naturali e, in seguito a quella terribile notte, sarebbero stati sostenuti dalla Pietra che avrebbero nominato Emblema dell’Anima.

    Si vociferava avesse una vita propria, un’anima, dalla quale prendeva appunto il nome, ma dopo la fine della Guerra Buia la cosa sarebbe stata certa.

    Si trattava di un’antica pietra dai poteri misteriosi, che rendeva il suo possessore l’essere perfetto, un catalizzatore di energia pura. Quella pietra era di proprietà dei Demoni. Creata nelle profondità del sottomondo, era considerata uno dei loro maggiori punti di forza e veniva spesso portata da loro in battaglia, per rendergli più facile la vittoria.

    I Demoni erano, inoltre, in grado di trasformare qualsiasi essere vivente in uno di loro con un semplice morso e neppure la Pietra, utilizzata con benevolenza, poteva impedirne l’avvenimento.

    Solitamente, se si trattava di comuni esseri umani, si acquisivano le capacità dominanti del Demone creatore. I Cacciatori, invece, rifiutando la natura che li avrebbe attesi dopo un morso, preferivano generalmente venire uccisi prima che il veleno completasse la trasformazione.

    La proprietà terriera dei Cacciatori di Merclan si estendeva fin dove si apriva, sotto il cielo, un’enorme distesa d’erba. In quella prateria, dopo due secoli, sarebbe terminata la Guerra.

    L’ansia si faceva largo tra gli uomini. I pensieri andavano alle mogli e ai figli, che non sapevano se avrebbero rivisto.

    Appena la Luna fece capolino tra le stelle, un boato tuonò nella valle. All’orizzonte si intravidero delle fiamme che, senza indugio, proseguivano la loro marcia. Erano arrivati.

    Le lingue di fuoco presero forma, assumendo l’aspetto di migliaia di uomini, capitanati dal peggiore dei mostri, il Demone Supremo, il primo Demone creato dall’Angelo Caduto, il suo asso nella manica.

    Come tutti i grandi Signori, infatti, Lucifero aveva preferito un luogotenente da inviare sulla Terra, mentre lui restava comodo nelle profondità del sottomondo. L’essere in questione era un Demone del Fuoco, in quanto abitante delle regioni più profonde dell’Inferno, e portava il nome di Molock.

    Aveva assunto la sua forma più orribile, quella che era solito usare nelle battaglie che considerava vinte ancora prima che cominciassero. Era evidente che valutava già sua la vittoria, altrimenti avrebbe assunto il suo aspetto supremo. Invece, era alto più di due metri, con la pelle di un cupo grigio-marrone e grosse corna, tra le quali fluttuava la Pietra, come se fosse incastonata e sorretta da qualche particolare incantesimo. La cosa più particolare, erano i suoi occhi: l’iride di un giallo limone tendente al crema circondava la pupilla verticale.

    Nessun Demone, nemmeno quando cambiava forma, aveva quegli occhi. Generalmente, per incutere più timore, mutavano i loro bulbi oculari, eliminando totalmente il bianco della sclera cosicché la pupilla potesse essere coperta. Ma il Molock era diverso e i suoi occhi risultavano più inquietanti rispetto agli altri.

    I Demoni erano seguiti da animali orrendi simili alle arpie, dotati di corna e ali seghettate, che infondevano ancora più timore agli uomini dinnanzi a loro.

    L’uomo al comando emise un profondo respiro e infilò l’elmo. Si voltò verso i suoi soldati, con occhi pieni di speranza. Aveva paura. Sapeva che sarebbe stata difficile. Durante i tempi della Guerra Buia, molti dei Cacciatori migliori erano periti dinnanzi ai Demoni e per quanto fossero tutti ben addestrati, non era certo che sarebbe stato sufficiente nemmeno questa volta. Ma la cosa che gli permetteva di trovare il coraggio necessario per combattere era la vendetta. La sua famiglia, infatti, era stata completamente annientata dalla furia brutale dei Demoni ed era tempo, per lui, di vendicarla.

    «Questa notte, dopo 205 anni, avrà termine la Guerra Buia. Fate in modo di sopravvivere per i festeggiamenti!» li incoraggiò.

    «Signore, se qualcuno di noi dovesse non presentarsi?» mormorò un ragazzo, con tono impaurito.

    «Non accetto riluttanti rifiuti alle celebrazioni da nessuno, Nelf!» Parlò con voce ferma, ma si fece scappare un occhiolino che rincuorò il giovane.

    Non poteva mollare, doveva combattere e infondere speranza ai suoi compagni. Diede una carezza al suo cavallo, che si voltò appena, per poi tornare a guardare davanti a sé.

    Il cavaliere annuii, estraendo la spada, e altrettanto fecero i suoi soldati.

    «Per l’Emblema dell’Anima!» gridò e si lanciò all’attacco di quei mostri, seguito dalle sue truppe. Non avrebbe permesso che la magica pietra, sotto le diaboliche mani dei Demoni, distruggesse l’intera creazione divina.

    Attese di giungere abbastanza vicino all’esercito infernale e, con la mano libera, imprigionò i propri uomini in uno scudo di energia, il più potente da lui mai creato, così da impedirne l’avanzare. Avrebbe affrontato i Demoni da solo e con la certezza della vittoria, sorrise ai mostri che gli correvano incontro.

    Strinse l’elsa con tutta la forza che possedeva, si portò la spada dietro la spalla e quando fu il momento la spinse nuovamente in avanti, verso il basso. L’ultima cosa che i suoi occhi videro, furono gli strani occhi gialli di Molock spalancarsi per l’incredulità.

    L’impatto generò scintille magiche, detriti e buio. L’onda d’urto fu talmente estesa da sgretolare tutto l’esercito dei Demoni e le creature insieme a loro.

    Quella notte, terminò davvero la Guerra Buia e fu vinta dai Cacciatori, ma ad un caro prezzo. Per riuscire ad ottenere la Pietra, il capo clan, Keros si sacrificò e la sua aura si fuse insieme a quella del Demone Supremo.

    La fusione delle due magiche entità creò un nucleo che si intersecò al centro dell’Emblema dell’Anima, aumentandone il potere. Il nucleo del Bene e del Male.

    Raccolta dai Cacciatori sopravvissuti, la Pietra divenne il simbolo del loro clan, come protettori della Terra e distruttori dei Demoni. Rimase custodita per secoli, al centro di un santuario dedicato alle vittime della Guerra Buia, come simbolo della sanguinosa battaglia con i Demoni.

    Ma nonostante la sconfitta subita e la perdita di Molock, quegli esseri tentarono più volte di impossessarsi di nuovo del loro talismano e così i Cacciatori decisero di scegliere uno di loro come Guardiano della Pietra.

    Nelf, divenuto capo clan, in seguito alla caduta di Keros, non avrebbe mai permesso che i Demoni la riprendessero e, quindi, usò l’astuzia per proteggere meglio l’Emblema. Decise, infatti, di far incidere la Pietra e con la scheggia ricavata fece costruire un Pugnale da donare al Cacciatore che doveva proteggere l’Emblema dell’Anima.

    La sua struttura era particolare: l’impugnatura aveva la forma di un Iris, intrecciato con delle foglie. Non si era mai vista un’arma simile.

    Secondo una leggenda, nel 496 D.C. Clodoveo I, il re dei Franchi, ricevette il fiore in sogno, donatogli da un angelo, e ne fece il simbolo del regno per onorare la sua conversione al cristianesimo.

    Per i Cacciatori, discendenti degli Angeli, l’Iris rappresentava, dunque, la saggezza, la fede e il coraggio. Per cui, Nelf decise di dare quella forma all’elsa del Pugnale, in onore dei mistici servitori alati.

    Ciò che molti ignoravano, era che il potere dell’Emblema dell’Anima non risultava al massimo senza avere accanto il frammento contenuto nel Pugnale.

    Ma questo, forse, era un bene.

    Grazie al potere della Pietra, prima che venisse incisa, i Cacciatori sigillarono i Sette Portali dell’Inferno, in modo che nessun Demone vi avesse avuto più accesso, impedendone l’ascesa sulla Terra.

    L’Inferno era, infatti, suddiviso in sette regioni, in base alla distanza dall’ottava zona, la più temibile, quella dove vi dimorava l’Angelo Caduto. Le zone intorno al nucleo erano denominate in base alla categoria di Demoni che le abitava. Le regioni erano quelle dell’Acqua, dell’Aria, dei Sotterranei, della Terra, dei Ghiacci, delle Tenebre e del Fuoco.

    Le regioni del Fuoco erano le più temute e potenti, in quanto erano le più vicine e devote all’Angelo Caduto.

    Ognuna di queste sette zone vantava la presenza di un Portale di Accesso sulla Terra, che permetteva loro il diretto passaggio.

    Ma quello che i Cacciatori non sapevano era che alcuni Demoni riuscirono ad arrivare sulla Terra prima che i Portali venissero sigillati. Dopo la Guerra Buia, l’Angelo era così adirato per la sconfitta che rese la vita impossibile ai suoi seguaci, e così molti di loro riuscirono a scappare dal loro mondo, rifugiandosi in giro per il mondo, tra cui a Callander, in Scozia, creando a loro volta dei clan.

    Per molte ere, i Cacciatori rimasero ignari della loro presenza, ma quando vennero a sapere di loro li definirono Demoni Passati. Questi non rivelarono mai le località dei loro rifugi, in modo da non essere distrutti, e preferendo vivere ignorando la presenza dei Cacciatori.

    Ovviamente non tutti furono d’accordo con la scelta di vivere in pace e abbandonarono Callander e gli altri clan, vivendo per conto loro e attaccando sovente le comunità nemiche.

    Per quanto riguardava Merclan e Callander, almeno fino al 1600, ognuno visse per se stesso, evitando gli altri clan.

    Un giorno, senza alcun apparente motivo, Nelf scomparve senza lasciar traccia, e di lui non si seppe più nulla. Prima di andarsene, consegnò il titolo di capoclan al fratello Mogohan, che si prese cura di Merclan, di tutti i suoi abitanti e tutto ciò che Nelf aveva creato e istituito, sotto l’esempio di Keros.

    E per molti secoli la situazione rimase invariata.

    Capitolo 1 – Il Primo Portale

    New York, Stati Uniti

    XXI secolo

    Sarah si diede un’occhiata allo specchio, soddisfatta. Seppur fosse una bella ragazza, non le capitava spesso di ricevere inviti da ragazzi come Michael.

    L’aveva incontrato per la prima volta qualche giorno prima, a Central Park. Stava facendo jogging, mentre lei percorreva la solita strada per tornare a casa da scuola. Con la banalissima scusa di chiederle se ci fosse una fontana dove poter bere nelle vicinanze, le aveva rivolto la parola. E da quel momento tutto aveva avuto inizio.

    Il giorno seguente l’aveva aspettata fuori dalla scuola, offrendosi di accompagnarla a casa, facendo una passeggiata e ripercorrendo la stessa strada del giorno prima.

    Sembrava un ragazzo perfetto e a modo, per cui quando la invitò a cena fuori, la ragazza accettò, timidamente ma senza indugio.

    Quella sera, nella Fifth Avenue, gli enormi viali erano illuminati da una cascata di luci e davano un senso di festa; ma d’altronde New York era famosa per le sue decorazioni in qualsiasi momento dell’anno.

    La coppia uscì da un ristorantino situato in centro città. Pareva il classico locale dove consumare un pasto a lume di candela. Michael aprì l’ombrello, riparando la ragazza che si strinse al suo braccio, dalle sottili gocce di pioggia. Era la solita pioggerellina estiva.

    Sarah era davvero bella quella sera. Portava i capelli chiari legati in due trecce e indossava un paio di jeans rossi, in tinta con il foulard. Il ragazzo, invece, aveva una giacca elegante nera, che teneva sbottonata, e pareva incurante dell’arietta emanata dalla pioggia estiva.

    Lei odiava la pioggia, ma aveva in viso un’espressione entusiasta. Il ragazzo, invece, aveva un sorriso strano, come se avesse appena avuto tutto ciò che desiderava ottenere, ma lei era troppo felice per accorgersene. Per essere il primo appuntamento, era andato di gran lunga oltre le aspettative di Sarah.

    «Grazie, Michael. È stata una serata fantastica.»

    «È stato un piacere. Quando vuoi!» disse lui, facendola arrossire con un sorriso da perfetto latin lover.

    Passeggiarono indisturbati a braccetto, ammirando le splendide vetrine che rendevano famoso quel viale. Camminarono a lungo, oltrepassando cinque o sei isolati.

    Tutto d’un tratto una forza disumana, identificata da un fumo nero, li trascinò in un vicolo cieco e desolato, lanciando i due all’altra estremità e bloccandogli il passaggio. L’ombrello sbatté contro il muro, spezzandosi.

    Dalla cortina di fumo, ne uscì una figura incappucciata e vestita di nero che li fronteggiò, intimorendo la ragazza, stretta al braccio di Michael, che pareva indisturbato.

    Il loro aggressore estrasse un Pugnale, rivelando un paio di guanti neri tagliati sulle dita. L’impugnatura dell’arma aveva la forma di un iris, con delle foglie intrecciate che componevano l’elsa.

    «Dunque, ce l’hai tu… Che cosa vuoi?» chiese il ragazzo, facendosi avanti e indicando quello strano aggeggio di metallo.

    «Lo sai perfettamente.» rispose la figura, con voce rilassata.

    La ragazza, pensando si trattasse della classica rapina, si tolse un anello dal dito e lo porse, tremante, all’uomo di fronte a loro. «Ho solo questo… Ti prego, lasciaci andare.»

    «Puoi tenerlo, non sei tu che mi interessi.»

    La pioggia aumentò radicalmente, come fosse controllata. Era talmente fitta che Sarah faticava a vedere.

    «Non credi piova un po’ troppo per te?»

    La ragazza non riusciva a comprendere la frase detta da Michael, ma a quanto parve, l’altro sì.

    L’assalitore sbuffò, quasi annoiato, rigirandosi il Pugnale tra le dita. Dopodiché scosse lievemente la testa e rispose «Tu credi? Vediamo!»

    Si scagliò contro il ragazzo, che a sua volta fece comparire nella sua mano una spada e lanciò a terra Sarah. Il suo viso mutò. Del bel ragazzo di prima non rimase nulla. Gli occhi divennero completamente gialli e il viso prese le sembianze di un teschio mezzo scarnato.

    La ragazza sgranò gli occhi, non potendo credere a ciò che stava vedendo.

    Combatterono per qualche minuto, sotto gli occhi terrorizzati di lei.

    La figura schivò quella che alla ragazza parve una scarica elettrica emanata dal palmo della mano di Michael. Ma l’altro era agile, oltre ad essere estremamente veloce. A sua volta, l’essere apparso dalla nebbia, emanò una scarica elettrica con la mano libera, la sinistra, che l’altro non riuscì ad evitare ed incassò il colpo nel torace. Si riprese velocemente, prima che l’aggressore gli fosse addosso, e contrattaccò.

    La stranezza era che ogni volta che Michael incassava un colpo, la pioggia diminuiva di intensità, quasi come dipendesse dalla sua concentrazione. Ma com’era possibile?

    L’aggressore approfittò di uno di quei momenti per fare uscire dalla sua mano libera una fiamma che si avvolse al braccio armato dell’altro. Il dolore gli fece lanciare un grido di dolore, mentre lasciava la presa sulla spada. Michael cadde in ginocchio stringendosi l’arto bruciato e guardando l’uomo di fronte a lui con odio.

    Sarah indietreggiò, schiacciandosi contro il muro, esterrefatta. Quell’uomo aveva creato delle fiamme dal palmo della propria mano. Che cos’era?

    «Come hai fatto ad arrivare qui?» domandò con tono pacato l’aggressore. «Come sei riuscito a passare?»

    A causa del dolore, l’ira prese il sopravvento. «Ci hai abbandonati! Non sei più uno di noi! Verrà riferito!» urlò rabbioso Michael, stringendosi il polso.

    L’aggressore fece qualche passo verso di lui, con aria strafottente, e Michael gridò ancora più adirato: «Avresti dovuto continuare a farti gli affari tuoi!»

    Afferrò di nuovo la spada e si lanciò con rabbia contro l’uomo che aveva creato le fiamme.

    Con la mano libera, quello che un tempo era Michael lo afferrò per il collo, tentando di tagliargli la gola con la spada ma l’altro si divincolò abilmente e gli infilò la lama del Pugnale sotto al collo, trafiggendogli i linfonodi sottomentali, poi estrasse la lama dal collo della sua vittima, gettandola a terra. Dopo qualche gorgoglio di agonia, Michael rimase immobile, mentre una pozza di sangue si allargava sotto il suo corpo.

    La ragazza gridò e si accovacciò contro il muro, tentando di nascondersi con le braccia. La figura incappucciata fece volatilizzare lo strano Pugnale e si avvicinò a lei, trascinandola lontano dal corpo senza vita e appoggiandola contro la parete opposta.

    «Calmati.» disse.

    «Tu…» balbettò lei, in evidente stato di shock. Era comprensibile: il ragazzo con cui era andata a cena era sparito, lasciando spazio ad un mostro orribile che era poi morto davanti ai suoi occhi.

    Ma la sua attenzione venne catturata dalla sua mano sinistra: era sporca di sangue, il sangue del mostro che era stato Michael.

    Lo sconosciuto le accarezzò una guancia, facendola gemere di terrore. «Come ti chiami?»

    L’altro la scosse appena, distogliendo la sua attenzione. Sotto il cappuccio intravide il bel viso di un ragazzo, incorniciato da capelli neri, lunghi fino alla base del collo.

    «Sarah…» rispose finalmente lei. Tenne gli occhi fissi sul loro aggressore, probabilmente non volendo rivedere la mano sporca o il cadavere. Eppure tremava ancora, per lo shock e per paura della fine che avrebbe fatto.

    Stava tentando di riordinare le idee, quando il ragazzo parlò nuovamente: «Hai un bel nome… Stai tranquilla, Sarah non ti farò del male.»

    Dopo qualche momento, la ragazza riuscì a smettere di tremare e si alzò in piedi, aiutata dalla figura, che si tolse il cappuccio. «Ti chiedo perdono per averti rovinato la serata.»

    «L’hai… l’hai ucciso.» Osservò il corpo senza vita del mostro davanti a loro, che lentamente stava riassumendo le sembianze umane.

    «Avrebbe ucciso te. Prima si sarebbe divertito e poi avresti fatto una fine molto peggiore di quella che ha fatto lui, te lo garantisco.» rispose l’altro, serio.

    «Chi sei tu?» E dopo qualche attimo di silenzio, indicò l’essere ai loro piedi. «E che diavolo era lui?»

    «Sicuramente, non ciò che ti aveva detto di essere. Ma se anche se te lo dicessi, non ci crederesti. Fatti un favore, Sarah, tornatene a casa e dimentica ciò che hai visto questa sera. E prima di uscire con uno sconosciuto, assicurati che sia davvero una persona affidabile.»

    Con un lieve inchino, si congedò, tornando nella Fifth Avenue, per poi scomparire nella nebbia da lui stesso generata.

    New Haven, Connecticut

    Ore e ore dopo, a 130 chilometri di distanza, le tende aperte delle finestre fecero trapelare i raggi del sole.

    Odiava la luce così forte appena sveglia, eppure non si sarebbe svegliata senza. Infilò la testa sotto al cuscino, sperando di ingannare il tempo e continuare a dormire, ma un’idea terribile le balenò nella mente. Era il giorno dell’orientamento al college. Non poteva permettersi di tardare.

    In realtà, gli studenti avrebbero fatto i fatidici giri degli edifici e partecipato alle varie prediche di benvenuto. Il cosiddetto primo giorno di scuola del ventunesimo secolo, visto che il vero e proprio orientamento si era tenuto qualche mese prima. Le lezioni sarebbero iniziate l’indomani, ma quello era il giorno per fare amicizia con i nuovi compagni e non andava sprecato.

    Non era mai stata molto brava a fare amicizia, o almeno ne era convinta.

    Forza, ce la puoi fare. Dov’è finita la tua grinta? si chiese, cercando di farsi coraggio. Allontanò questo pensiero dalla mente insieme alle coperte e si diresse verso il bagno. Sospirò quando vide che i suoi capelli castani ramati erano tutti arruffati, ci sarebbe voluta una vita a rendersi presentabile. Fortunatamente non erano lunghi lunghi come un tempo: qualche anno prima, sarebbe stata una vera impresa snodarli. Non che ora andasse molto meglio, ma era già qualcosa.

    Una bella doccia rilassante era quello che ci andava per iniziare bene la giornata. Si concesse venti minuti sotto l’acqua, prima di dirigersi verso l’armadio e optare per un abbigliamento consono, ma non troppo retrò. Un paio di jeans e una camicetta verde e blu potevano andare bene.

    Dopo essersi pettinata e aver terminato la colazione uscì, dirigendosi verso la Yale University. Era considerata una delle più prestigiose del mondo e vantava un sacco di facoltà, dalle scelte più frequenti a quelle più ambigue e, apparentemente, non particolarmente seguite.

    Raggiunse il piazzale del college. Non era male.

    Le foglie autunnali che contornavano gli alberi davano loro un tono variopinto e rendevano misterioso l’enorme edificio che si trovava davanti. Era una struttura in pietra color caffè, simile ad un castello, e costruita nel 1701. Nel parcheggio c’erano un’infinità di macchine.

    Gli studenti nel piazzale erano tantissimi e di ogni tipo.

    Un gruppetto di hippie, una decina di persone, aveva steso in terra delle coperte e degli asciugamani e vi erano sdraiati sopra. Cantavano canzoni allegre a squarciagola, facendosi notare da chiunque passasse.

    Scostò lo sguardo verso sinistra e vide l’insieme più amato dagli studenti di sesso maschile: l’ammasso di bambole di porcellana perennemente perfette. Odiava quel genere di ragazze, non le aveva mai tollerate. Così piene di sé, così spaccone e così poco intelligenti da preoccuparsi unicamente di attirare l’attenzione di più ragazzi possibile. Forse era perché erano così diverse da lei, ma non era mai riuscita ad avere una conversazione sensata con una di quelle.

    A qualche metro da loro, ad ammirarle, c’erano tre ragazzi, con indosso la divisa di basket della scuola. Sembravano i classici cagnolini scodinzolanti, in attesa di un occhiolino e di un numero di telefono da usare la sera per festeggiare l’inizio del college. Il quarto giocatore era seduto in terra e vestiva semplicemente una tuta grigia. Sembrava prendere in giro gli amici per i loro comportamenti verso le ragazze. Aveva l’aria di essere asiatico, ma gli occhiali da sole ne coprivano in parte i tratti.

    Infine, appoggiato con la schiena ad un tronco di quercia, c’era un quinto individuo. Medara non riusciva a vederlo bene, poiché gli altri ragazzi le impedivano la visuale.

    Portava una camicia con un maglione leggero sopra e un paio di jeans. Doveva essere il quinto componente della squadra, che per il giorno di orientamento aveva scelto un abbigliamento più consono dei suoi compagni.

    Una fitta al cuore le arrivò dritta come un puntello di ghiaccio. Quei capelli, quelle braccia… no, si sbagliava sicuramente.

    Le sue teorie vennero interrotte da uno spintone sul fianco sinistro e da qualcuno che cadde rovinosamente a terra. Si era schiantato contro di lei un ammasso di foulard colorati e capelli ricci e rossi.

    Si alzò, in evidente imbarazzo, e raccogliendo i libri che aveva in mano si voltò, dispiaciuta, verso di lei.

    «Scusami, io… Non guardavo dove camminavo…Se vuoi picchiarmi lo capisco, non fa niente.» Tenne lo sguardo basso, puntato sulle Nike bianche dell’altra.

    «Solo perché mi hai urtato? Ci vuole molto di peggio perché picchi qualcuno» esclamò la castana, stranita.

    L’altra alzò lo sguardo verso Medara e appena incrociò i suoi occhi, trovò un gran sorriso ad attenderla.

    «Oh, beh… Io sono Nicole, ma puoi chiamarmi Nicky.» Le allungò una mano, in segno di amicizia, che lei strinse calorosamente.

    Aveva tutta l’aria di essere la classica ragazza perennemente presa in giro. Forse per i suoi abiti o i suoi modi? Poco male, una nuova amica era sempre meglio di nulla e comunque preferibile alle bambole di porcellana che si erano voltate a guardarle e che ora le stavano schernendo.

    Nicole era carina. La criniera rossa le incorniciava il viso allungato, provvisto di occhi azzurri e tratti dolci, ma con un chè di selvaggio.

    Forse per questo l’era andata subito a genio. Se una Miss Universo, come il gruppo di manichini poco distante, le fosse andata contro probabilmente si sarebbe infuriata. Nicky, invece, pareva una ragazza a posto.

    «Mi chiamo Medara e non ho un nomignolo, ma se vuoi, puoi sceglierne uno tu.» rispose con fare espansivo. Il soprannome ce l’aveva eccome, ma non voleva più essere chiamata così. Era quasi sicura che la ragazza avrebbe scelto Meddy, il che le andava bene.

    Nicole sgranò gli occhi stupefatta. Quella ragazza si stava comportando in modo gentile con lei. Medara non poteva saperlo ancora, ma nessuno si era mai comportato in modo socievole con lei. Tranne, ovviamente, i suoi genitori, qualche amico e il suo pappagallino Barry.

    «Hai tutta l’aria di non essere esattamente nuova.» affermò, curiosa.

    «Sì, io vivo qui da sempre e… molte di queste persone le conosco fin da bambina» confermò, titubante, la rossa.

    «Allora, dimmi…» proseguì in tono circospetto, facendo impaurire l’ammasso di foulard «…Ti dispiacerebbe farmi visitare il campus e magari, più tardi, prendere un caffè con me?» Tornò a sorridere, alzando un sopracciglio benevola.

    Nicole biascicò un sì, incredula ed entusiasta allo stesso tempo.

    «Perfetto!» esordì Medara, prendendola sotto braccio.

    Iniziò un giro che le parve interminabile.

    Visitarono ogni angolo del campus, dalle strutture più antiche a quelle più recenti. La sala dei congressi, alcuni corridoi delle facoltà, la biblioteca, la piscina e il laboratorio di chimica.

    Nicole le raccontò delle feste di quartiere che si svolgevano ormai da anni, delle magiche recite della facoltà di teatro, delle spettacolari partite di basket e football, e del ballo di Natale e di quello di fine anno. Amava la tradizione del ballo di fine anno, ma nelle scuole precedenti era inusuale, perciò per Meddy si trattava solo di una leggenda metropolitana, narrata delle serie tv americane.

    Si recarono poi alla caffetteria, dove ordinarono due caffè e si accomodarono in un tavolino. Parlarono del più e del meno, fin quando non furono interrotte da una voce sbiascicata e tagliente: «Bene bene, Nicole. Non credevo che una povera sfigata come te potesse fare amicizia con le nuove reclute. Specie con quelle come lei, che sembrano ragazze prepotenti.»

    Voltandosi, le due videro una ragazza bionda, con indosso una camicetta bianca e una gonna blu. I capelli liscissimi erano sciolti e le ricadevano sulle spalle. Sopra la camicetta, indossava la spilla del secondo anno. Era una di quelle che aveva visto nel cortile e che ridevano quando Nicky le era caduta addosso. Alle sue spalle vi erano altre due ragazze, un po’ meno carine ma del suo stesso stampo.

    Tipica ragazza barbie sfrontata, seguita dal suo branco di pecore, pensò Medara. Nicole abbassò lo sguardo, sottomessa, e iniziò a balbettare frasi sconnesse.

    «Ma sentila, la povera sfigata. Nemmeno riesci a dire una frase di senso compiuto!» rincarò la dose, per poi rivolgersi all’altra. «Fossi in te, cambierei compagnia, tesoro. Non vorrai farti una pessima reputazione già il primo giorno facendo amicizia con questo errore umano?» proseguì mielosa la barbie, tra le risa delle sue compari.

    «Spiacente deluderti, ma preferisco gli errori umani come lei alle stupide barbie come te» replicò Medara, con tono calmo e aria di sfida.

    La sua nuova amica spalancò la bocca e gli occhi dallo stupore, e la bionda, chiaramente non abituata a sentirsi schernire, si infuriò moltissimo.

    «Ma come ti permetti, brutto rospo? Io sono…»

    Non terminò la frase che Medara si alzò veloce come il vento. La colpì all’addome con un pugno ben dato e concluse il tutto con una testata. La bambolina cadde a terra. Reggendosi la fronte, con una lieve colata di sangue dal naso, tentò di rialzarsi. Le sue care amiche si fecero indietro, sconvolte e spaventate.

    Medara prese per mano Nicole e la costrinse ad alzarsi. Scavalcando la biondina, le disse ancora: «Scusami se sono così poco cordiale e non ti aiuto ad alzarti, ma non vorrei mai essere infettata dalla tua perfezione!»

    Si trascinò la riccia all’esterno, che esclamò emozionata: «Nessuno aveva mai affrontato Deborah in quel modo!»

    Nessuno doveva permettersi di maltrattare una sua amica e quella si che era una buona motivazione per picchiare qualcuno. Almeno, per il suo caratterino poco tollerante.

    Nicky rimase interdetta. «Noi… Siamo amiche?»

    «Non avrei mai chiesto ad un manichino come quella di farmi fare un giro turistico del campus… Quindi sì, se ti va possiamo essere amiche.» E le fece l’occhiolino, prima di sorridere.

    L’altra si gettò letteralmente tra le sue braccia e la strinse forte. Medara ricambiò l’abbraccio, dopodiché si staccarono e la rossa iniziò a saltellare felice. «Figo! Ho un’amica!»

    Ok, era una ragazza particolare, ma le piaceva.

    Camminarono fino al campo da basket, ancora da visitare, e si sedettero sulle gradinate. Il sole era alto a quell’ora e un po’ d’aria era il massimo. Il giorno dopo sarebbe iniziata la segregazione nelle aule e decisero di godersi quegli attimi appieno.

    Senza contare che Medara doveva calmarsi. Era riuscita a fermarsi. Non sapeva neppure lei come fosse possibile. Faticava ogni volta a frenare la sua rabbia e nonostante tutto il tempo che era passato, non sempre riusciva a dominarla. I suoi pensieri furono interrotti dalla timida voce di Nicole. «Posso chiederti dove hai imparato a picchiare così?»

    Maledizione, e ora? Che diavolo poteva inventarsi?

    «Nella mia vecchia scuola frequentavo lezioni di difesa personale e mi divertivano. Secondo il mio insegnante ero una delle migliori.» rispose, tentando di essere il più convincente possibile. In fondo, non era esattamente una bugia. Goran, all’epoca, la ritenette la migliore dell’intera valle.

    «Mi piacerebbe imparare … E mi piacerebbe avere il tuo carattere. Sei aggressiva al punto giusto. Io, invece, faccio pena e non so difendermi.»

    Medara scosse la testa. «Non fai così pena come credi! Altrimenti non mi saresti andata a genio. E poi il tuo carattere non ha niente di sbagliato, dovresti solo avere più autostima. Ma ci lavoreremo.» le sorrise, radiosa.

    Parlarono per un bel pezzo, intente ad ammirare il campo da basket, beneficiandosi del sole.

    Nicole era figlia unica ed era orfana di madre. Le raccontò che la donna morì di malattia quando lei era piccola ed era, quindi, stata cresciuta dal padre, per la quale nutriva un immenso affetto. Le restava solo lui e, insieme, vivevano in una sorta di cascinale, non molto lontano dal centro.

    Medara, invece, viveva in un monolocale isolato dal mondo. Si trattava di una piccola villetta a schiera, adatta a una persona. Le piaceva rilassarsi quando tornava a casa, senza udire macchine o

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