Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Chi vince non ha colpe
Chi vince non ha colpe
Chi vince non ha colpe
Ebook368 pages5 hours

Chi vince non ha colpe

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

1948 - I ricordi della guerra sono ancora vividi e a Pontescuro, una cittadina della provincia immaginaria di Lunezia, affiorano casualmente due scheletri. L'ufficiale dei Carabinieri, Luigi Martini, nuovo comandante della Tenenza locale, tormentato negli stessi giorni da un amore infelice e dai ricordi della prigionia, dubita di riuscire a risolvere un caso così labile.

Un mese dopo un delitto d'onore è la prima vera indagine a cui viene chiamato il tenente. La vittima è il dottor Alberto Barbieri, medico ed ex partigiano, il suo assassino Giuseppe Moretti, padre dell'ex fidanzata. Sembrerebbe un caso fin troppo facile da chiudere ma per l'ufficiale e per il suo collaboratore, il maresciallo Giordano, in quell'omicidio c'è qualcosa che non torna. I due s'inoltrano in un'indagine complicata da reticenze, delazioni e false piste che porterà a intrecci insospettabili e ad un finale inatteso.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 16, 2021
ISBN9791220321327
Chi vince non ha colpe

Related to Chi vince non ha colpe

Related ebooks

Historical Fiction For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Chi vince non ha colpe

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Chi vince non ha colpe - Patrizia Lello

    nonno.

    Venerdì 10 Settembre 1948

    Una lama di sole tagliò il grigiore polveroso dell’ufficio, trasformando il giallo spento del fascicolo in un vivido colore dorato. Martini prese la trasformazione cromatica per un richiamo: con rispetto, tenente, ma lei deve dedicarsi a me: è o non è il responsabile delle forze investigative di Pontescuro?

    Una sollecitazione che non raccolse: seppellì, anzi, l’informativa sotto una pagina del CORRIERE DELLA SERA che teneva aperto davanti a sé. Sapeva come giustificarsi: aspetta un attimo, devo pur capire qualche cosa del mondo in cui sono tornato. Mi mancano ben sei anni all’appello. Una frattura tra il prima e l’adesso che gli procurava disagio, come se soffrisse a tratti di amnesia e non sapesse bene dove si trovava. Così si applicava al quotidiano con lo stesso zelo con cui uno studente cerca di recuperare le lezioni perse per affrontare adeguatamente gli argomenti nuovi.

    Tralasciò le altre notizie – l’America non cedeva su Berlino e i russi avevano sparato davanti alla Porta di Brandeburgo – per concentrarsi sul congresso che avrebbe discusso delle colonie italiane. Scatoloni di sabbia che lui aveva fatto appena a tempo a vedere e provare perché, alla fine, il suo soggiorno in Libia si era ridotto a pochi mesi. Un ricordo di vipere e mosche e del ghibli che velava cose e persone con la sabbia. Cadeva dai capelli quando ti toglievi la bustina, la mangiavi con le gallette, bruciava in qualsiasi parte del corpo ti finisse. L’inizio e la fine della sua guerra come combattente. Alzò le spalle: tanto erano terre perse, perché illudersi.

    Ripiegò il giornale e la cartelletta tornò in vista. Aveva ripreso il suo spento colore ministeriale ma lo stava ancora chiamando. Se la pose davanti e incominciò a leggere.

    La relazione era sintetica ma con precisazioni superflue, dettate evidentemente dallo stesso protagonista della vicenda.

    Il 6 settembre Tognetti Mario si reca in località La Serra, nella frazione di Baroni, presso un proprio appezzamento che confina con un castagneto. Avanza con fatica perché il terreno è in salita e lui non ha più le gambe di un tempo. Lo accompagna il cane Buck, meticcio di grossa taglia dal pelo come quello di una iena.

    La prima inutile puntualizzazione lo fece sorridere; la seconda, però, un senso ce l’aveva, almeno dal punto di vista del signor Mario. Perché se lui poi deve correre alla stazione dell’Arma, è proprio a causa, o grazie, al bastardo dal pelo maculato che gli è scappato via e che, grufolando di qui e di là, fa emergere dal terreno delle ossa, umane senza alcun dubbio. Il signor Tognetti precisa ancora che lui, ex sergente dell’ex Regio Esercito, aveva visto troppa guerra per sbagliarsi. Questo è stato in AOI come me: parla di iene come se le avesse viste.

    Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare. Doveva rispondere? Sentiva già la frase con cui sarebbe stato apostrofato: Luigi, non ti sarai mica dimenticato? dando per certo che lui si fosse proprio dimenticato. Alzò rassegnato la cornetta.

    «Fatti portare fino a Marina… No, Ida, che non ti faccio arrivare con il furgoncino fino all’hotel, lì ci andiamo con la macchina…. La mia, certo».

    In realtà sì, gli sarebbe proprio piaciuto costringere sua sorella, inguainata in un abito da soirée sotto le stelle, ad emergere dal camioncino dello zio Edo con la scritta sulla fiancata Macelleria Corti Goffredo – Si consegna ovunque. Ti prego, Luigi, lo avrebbe rimproverato sua madre, con un tono a metà tra un invito e un ordine, perché assecondasse le smanie della sorella minore. Represse l’idea del dispetto ma cercò subito un altro tipo di vendetta.

    «Per il futuro evita di telefonarmi quando sono in ufficio. Sto occupandomi di un caso importante». Poi chiuse senza darle tempo di rispondere: sapeva che vedersi portare via la parola e il suo tono sussiegoso l’avrebbero irritata.

    Perché ce l’ho tanto con lei? Non riusciva a spiegarsi per quale motivo lui e Ida, divisi da soli due anni di età, si trascinassero dietro una scarsa simpatia che risaliva alla loro infanzia. Avremmo dovuto fare fronte comune contro Beppe, Luisa, Emilia, i nostri fratelli grandi che cercavano sempre di tenerci lontani e invece…

    Il pensiero di uscire con Ida gli riusciva così fastidioso che, nonostante i buoni propositi di contenere il numero delle Nazionali giornaliere, estrasse il portasigarette d’argento. Altro errore, più grave che aver risposto al telefono. L’astuccio era elegante con le sue cifre, L. M., incise in corsivo e sul retro la data di compleanno, 31 ottobre. Era ciò che era scritto all’interno che avrebbe voluto cancellare: Amado mio. Margherita. A metà tra la dichiarazione d’amore e lo scherzo.

    Soffiò il fumo, sperando che trascinasse via il ricordo, e riprese a leggere: …nessun segno di riconoscimento né sugli scheletri né nel terreno circostante…due proiettili da esaminare... resti inviati al medico legale per gli esami di rito.

    Sto occupandomi di un caso importante, aveva detto a sua sorella come se di casi importanti ne avesse affrontati altri. Sarebbe stato più rispondente al vero se avesse usato le parole il primo caso – c’è di mezzo un delitto, anzi un duplice omicidio - della sua carriera. Certo, una bella partenza in salita con gli elementi che aveva in mano! Tutto era affidato agli esami scientifici e i periti se la sarebbero presa molto comoda. Tanto chi poteva avere fretta? I diretti interessati – la battuta macabra e irriverente gli uscì suo malgrado – erano morti e sepolti. Speranza di dare un nome ai resti, stabilire le cause certe del decesso, individuare l’eventuale arma del delitto, scovare il colpevole, trovare il movente… ? Potevano scriverla in fondo a ‘ste due paginette battute da schifo: nessuna.

    Sbuffò irritato e, istintivamente, alzò lo sguardo verso il soffitto, dove incrociò lo sguardo di una Venere formosissima avvinghiata a un dio Marte con l’elmo sulle ventitré. La stanza riservata a ufficio del comandante era, infatti, grande, buia e disadorna ma decorata con affreschi dai colori deteriorati dal tempo eppure ancora perfettamente visibili.

    «Sono del Settecento» aveva puntualizzato il sottufficiale - cicerone al momento del suo insediamento qualche mese prima. «Sono stati commissionati da Filippo Zecchi - Ricci, padrone del palazzo, al pittore Giovanni Rocchi».

    Il maresciallo Alfredo Giordano si era interrotto un attimo, incerto se aggiungere un suo personale commento. Poi aveva deciso che poteva permetterselo. «Al nobiluomo gli doveva piacere parecchio ‘sta Venere: ce sta su ‘a capa in ogni stanza». Sembrava annoiato dalle antiche pitture, mentre lui, al contrario, se ne sentiva intimidito, come da tutto il resto del palazzotto d’epoca in cui era sistemata la caserma. Ma non è solo per quello se mi sento un ospite in visita invece del legittimo occupante.

    Cercò conforto guardando fuori dalla finestra, ma il lucente pomeriggio settembrino si riduceva per lui alla facciata, illuminata solo nei piani alti, del palazzo di fronte, ugualmente d’epoca e ugualmente provato dall’età. Sfocata oltre tutto perché aveva lasciato sulla scrivania i sottili occhiali da miope. Chiuse la cartelletta, prese un foglio e scrisse:

    1) Controllare se i giornali locali riportano la notizia del ritrovamento;

    2) sollecitare gli esami di rito.

    Lo piegò in due e lo posò sulla scrivania di Giordano; lo riaprì e aggiunse.

    Grazie

    Tenente Luigi Martini

    Salì nel suo alloggio stanco e scontento come chi pensa di aver buttato una giornata.

    Sabato 11 Settembre.

    L’Hotel Fedeli a Marina di Pontescuro, affondato nella pineta, che a quell’ora era soltanto un fondale buio, si gloriava di un dancing all’aperto: una gettata di cemento per il ballo, una pedana appena rialzata per il piccolo gruppo di orchestrali e i due cantanti, il fascio luminoso di un riflettore. Intorno, sotto la luce modesta di lampade sospese tra gli alberi, uno spazio bianco di ghiaia, in cui affondavano tavolini e sedie, e che finiva nell’asfalto della piazza vicina. Si estendeva in quel punto un confine invisibile: di qua chi poteva permettersi consumazione seduta con la maggiorazione del sabato e dell’orchestra, di là chi non poteva e rimaneva in piedi con un gelato in mano ad ascoltare di straforo la musica.

    La serata si svolse come Martini prevedeva e temeva.

    «Eccoli, eccoli!» Ida lo prese per un braccio, tirandolo verso un tavolino troppo vicino all’orchestra. Poi si voltò sussurrandogli. «Che vestito pacchiano!».

    In effetti la ragazza seduta davanti a lui indossava un abito a fiori che non le donava particolarmente. In compenso esibiva occhi azzurri, capelli neri e lineamenti fini. Insomma era bella e seduttiva perché sapeva di esserlo. Un modello che conosceva.

    «Marco e Licia Bernardi, fratello e sorella, come noi» Ida completò la presentazione «ma lui è molto più gentile di te. E poi è medico». Un dott. davanti al nome faceva sempre presa su sua sorella (e su sua madre) «Comunque lui è il tenente.» Così riportiamo in pari i titoli.

    «Lo sappiamo!» il coretto dei due gli sembrò più entusiasta. Si definirono i contorni anagrafici – lei era compagna di Ida alla facoltà di Farmacia, lui stava facendo la specializzazione – e si trovarono passioni comuni – musica, cinema, ballo - cercando però di rimanere sul vago. Metti che uno stronca un cantante che l’altra adora…la simpatia finisce prima d’iniziare. I Bernardi furono concordi, soprattutto, nella critica a Morcigno al Monte. Il nostro natio borgo selvaggio fa proprio… schifo, Marco si fermò prima di diventare troppo volgare. Lui e il nuovo conoscente appartenevano a una generazione e a una classe sociale che non diceva parolacce in pubblico, soprattutto se c’erano gentili signore o signorine. Certo tra uomini sarebbe stato diverso. Non parliamo poi di quali termini si potevano usare quando si pensava, come capitava spesso a lui.

    I due giovani e sua sorella cominciarono a parlare e a ridere, fingendo di frequentarsi da sempre; lui, invece, sentiva di avere stampato sul volto un sorriso fisso e un po’ spento, come se l’umorismo di certe battute gli sfuggisse.

    «Siamo venuti qua per divertirci o sbaglio?» Ida non aspettava altro e seguì sulla pista il dottore che, oltre tutto, era la copia maschile della sorella.

    Almeno ballo con una bella ragazza, pensò mentre guidava Licia tra le altre coppie sulle note di un lento. Ormai aveva acquisito sufficiente esperienza per non ripassare a mente le dritte che gli aveva dato a suo tempo suo cugino Lello: struscia i piedi altrimenti pesti quelli di lei; parla ma non troppo; ogni tanto guardala negli occhi così capisci.

    Capisci che cosa? A lui quella sera non interessava per niente capire né la sua ballerina né altre. Cercò di dimenticare la domanda della canzone - Amore, cosa farai stasera? - perché avrebbe voluto farla a Ghita.

    Quando si sedettero, Marco guardò subito l’orologio.

    «Licia, nostro cugino Barbieri quando pensa di arrivare? Sono già le dieci!»

    La sorella non gli rispose poi, cercando forse di minimizzarne l’irritazione, spiegò, rivolta a Ida : «Stiamo aspettando Alberto per un brindisi, domani Marco compie gli anni e lui…».

    «Perché non chiedi a Elsa?» la interruppe Bernardi, facendo un cenno verso un tavolino occupato da una giovane signora biondissima in compagnia di un uomo più vecchio di lei.

    «Che cosa ti salta in mente? Non vedi con chi è? » Licia si era alterata e per un attimo lui temette di essere costretto ad assistere a una lite tra fratelli. Grazie no, mi bastano le mie con Ida.

    Marco arrossì e lui non capì se per il rimprovero della sorella o perché aveva capito di aver detto qualche cosa di inopportuno. Qualche cosa noto solo ai due Bernardi.

    Ida si mise a cinguettare sul tempo che passa e che bisogna godere la vita ecc. Stronzate, pensò lui irritato.

    «"Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol essere lieto sia: del doman non c’è certezza…Ah, te la ricordi» sua sorella aveva accompagnato la declamazione della strofa da parte di Marco. «Allora non sei solo bella?» Ci stai provando? Auguri, dottore.

    Arrivò il cameriere con una bottiglia e brindarono con uno spumante a temperatura ambiente. Non avevano ancora finito con gli auguri che l’orchestra si lanciò in un boogie woogie. Un ooohh di approvazione serpeggiò tra il pubblico seduto e in piedi e Ida corse via, aggrappata alla mano di Marco. Quando Licia lo guardò interrogativa, lui scosse sorridendo la testa così si trovò quasi subito solo. Mentre orchestrali e ballerini davano fondo all’energie, rimase a guardare di soppiatto l’orologio, incerto se sperare che il tempo passasse in fretta o che, invece, la sera si prolungasse per non dover dare forma alla vita che lo aspettava.

    Intorno a lui risate che esplodevano, sigarette che si accendevano, bicchieri che si svuotavano, mentre la sua compagnia si attardava davanti a un tavolo poco lontano. Licia tornò al tavolo da sola e per un po’ rimasero in silenzio ad ascoltare la musica. Si accorse subito che la sua nuova conoscente guardava spesso verso la biondissima che Marco aveva chiamato Elsa. L’altra sembrava non accorgersene. Certo non perché fosse impegnata a parlare con il proprio accompagnatore: i due non solo non si scambiavano un commento ma non si guardavano neppure. Coppia in crisi, pensò. Beh, grazie a Dio ‘ste scene ce le siamo risparmiate Ghita ed io.

    Avrebbe voluto portare avanti un briciolo di conversazione con la bella ragazza che gli sedeva accanto e, invece, non poteva fare a meno di osservare le due donne. Perché Licia tenta ad ogni costo di comunicare con la platinée, mentre quella non la degna di attenzione? Dovette ricredersi quasi subito perché, quando l’uomo anzianotto si alzò e si diresse verso l’hotel – andrà alla toilette: prostata, pensò impietoso -, la biondissima ne approfittò immediatamente. Rapida fece a Licia un segno inequivocabile, portando una mano a pugno all’altezza dell’orecchio. L’altra assentì veloce, poi lo sbirciò come per accertarsi di quanto lui avesse visto ma in quel momento risuonarono le note de’ La vie en rose. La ragazza fece un sospiro che lui ebbe cura di scambiare per uno sbuffo d’impazienza.

    «Non ti piace?»

    «No, anzi…ma è per innamorati: guarda» e con una mano la ragazza accennò a tutte le coppie che si stringevano sulla pista. Braccia intorno al collo o sui fianchi, labbra che si cercavano.

    Merda, un’altra delusa dall’amore? Oppure è una che lo sta cercando? Nessuna delle due ipotesi lo interessava.

    «È solo una canzone. Vieni» e le porse la mano.

    Mentre si avviavano verso la pista, la coppia in crisi si alzò. La donna passò proprio dietro le spalle di Licia e lui poté osservarla bene anche se solo per pochi secondi. Assomiglia a Lana Turner. Poi i due sparirono, fendendo la piccola folla assiepata ai margini del dancing.

    Lui e Licia ballarono in silenzio, all’inizio mantenendo la posizione di chi è destinato a separarsi alla fine della musica. Ce lui pour moi. Moi pour lui dans la vie, il me l’a dit, l’a juré pour la vie. La carezza di Licia sulla nuca, però, non era casuale e lui si sentì in dovere di stringerla maggiormente a sé. Quando si sedettero, Marco e sua sorella erano ancora ad un altro tavolo.

    «Ida ha il numero di casa ma per sicurezza… » Lei glielo dettò e lui, obbediente, lo trascrisse su un tovagliolino di carta. Forse potevo dirle che non avevo la penna…ma dai, perché no?

    Intanto il vento, che aveva soffiato per tutta la giornata, si era fatto più forte mentre in alto, nel buio della notte, affastellava sulla costa nuvole gonfie di pioggia. Una folata più forte delle altre ad un tratto portò la sabbia della spiaggia vicina; fu come un segnale: la gente seduta, quasi in sincronia, cominciò ad alzarsi e il pubblico rimasto in piedi ad allontanarsi. Le note di O mama, mama mama li inseguirono mentre si salutavano.

    In macchina sua sorella non smetteva di parlare: pettegolezzi, informazioni patrimoniali, liste di eventi a cui sperava di essere invitata. Insomma il repertorio abituale, che non richiedeva la sua attenzione, rivolta piuttosto ad azionare il tergicristallo troppo lento per gli scrosci d’acqua del temporale. E poi doveva pensare al lavoro. La storia dell’ex sergente del ex Regio Esercito e del suo Buck non si era davvero staccata da lui per tutta la sera. …Ossa. umane senza alcun dubbio, si ripeteva. Come quelle sgusciate fuori da una cassa troppo marcia. Il corpo non c’era più e l’abbigliamento militare racchiudeva solo uno scheletro. India 1941, campo di prigionia inglese di Yol. Lui e altri tre erano stati comandati per un servizio al cimitero: dovevano spostare alcune bare. Non ricordava il perché ma soltanto che tutti loro si muovevano in modo maldestro, facendosi sfuggire gli attrezzi di mano, e che le bare apparivano pronte a disfarsi per lasciar uscire il loro contenuto. Così, in effetti, era successo. Non aveva memoria di quello che aveva fatto dopo. Continuava a vedere solo le ossa lunghe e sottili degli arti e le orbite del cranio. Aveva pensato che avrebbe voluto conoscere intorno a quali corpi si erano strette in abbracci d’amore quelle mani o verso chi avevano indirizzato i propri sguardi gli occhi che occupavano quei vuoti. Boh, forse avevo già l’animo dell’investigatore. Sperava che questa tendenza gli servisse per la sua prima indagine. Si prese un appunto mentale: controllare che Giordano si sia attivato

    «Mi ascolti o no?»

    «No» sperava di zittire Ida ma lei aveva pronta la domanda indiretta e maligna.

    «Stavo parlando di Licia: non si può dire che non sia bella però ha poco stile? Non ti pare?»

    «Non sono d’accordo. Anzi, si muove con molta eleganza e poi ha due occhi …» lasciò in sospeso perché sua sorella potesse immaginare la sua definizione entusiastica: incantevoli, sensuali, fantastici. In quel momento decise che avrebbe chiamato casa Bernardi.

    Al pensiero dei nuovi amici fece seguito il ricordo del loro screzio a proposito del cugino e delle strane manovre tra Licia e l’altra… come si chiamava? ah, sì Elsa. Avrebbe voluto chiedere lumi a Ida ma, per prima cosa, non era sicuro che lei gli avrebbe risposto, magari solo per fargli un dispetto. Sua sorella, inoltre aveva indossato la maschera del muso. Labbra strette e viso allungato. Perché è arrabbiata? per il confronto con Licia? perché Marco ha soltanto finto di provarci e lei se ne è accorta? Vallo a sapere.

    Lasciò perdere. Quando, dopo aver corso sotto la pioggia fino all’androne dello stabilimento balneare A. Martini, la loro casa, lei gli soffiò un ciao stentato, lui aveva già dimenticato l’episodio.

    Non molto tempo dopo si sarebbe pentito della propria noncuranza.

    Sabato 30 Ottobre.

    «Allora non la vedi proprio più?».

    A Martini sembrò un miracolo che suo fratello avesse la forza di dedicare un pensiero ai suoi guai sentimentali. Scosse la testa in silenzio.

    «Peccato. Una gran bella ragazza, di classe… anche troppo per casa nostra. Si può sapere perché? ».

    Vorrei saperlo anch’io, avrebbe voluto rispondergli. Invece niente era stato chiarito. Forse se si fosse applicato a ricostruire ciò che era successo, avrebbe capito qualche cosa di più. Ma ogni volta che ci provava, sentiva ancora il colpo così forte in mezzo al petto che se ne allontanava come per fuggire un aggressore visibilmente più forte di lui. Scappava, insomma, abbastanza ignobilmente.

    Beppe continuava a guardarlo con i suoi occhi scuri sempre carichi di un dolore, quello sì inestinguibile, che si vergognò della propria sofferenza.

    «L’idea di diventare la moglie di un ufficiale non la entusiasmava poi tanto» sorrise come se in fondo fosse d’accordo con lei « sai, stipendio basso, senza orari…»

    «Beh, qualche cosa dietro le spalle abbiamo anche noi…Comunque, posso capire» suo fratello non infierì. «A proposito, secondo te, qualcuno prima o poi se la prende Ida?».

    «Chiunque sia, non vorrei che dopo chiedesse i danni alla mamma».

    «Sì, l’hai trovata la mamma che apre la borsetta! Senti, Luigi, ti dispiace se domani al pranzo ci diamo il turno io e Iride? Sai, per via di…Poi ci sono le altre …».

    Gli strinse il braccio per rassicurarlo che no, non gli dispiaceva.

    «Ciao, Matteo» un saluto, che più inutile non avrebbe potuto essere, rivolto al lettino del nipote.

    «Ciao, zio Luigi». Suo fratello rispose per il figlio.

    Percorse a ritroso e con cautela il budello che si apriva tra quadri, tavoli antichi, mobili con statuette di porcellana nel negozio antiquario di Beppe e si chiuse la porta della vetrina alle spalle. Respirò a pieni polmoni, anzi una via di mezzo tra uno sbuffo e un sospiro profondo, molto profondo. Come gli accadeva ogni volta che usciva da lì. Non ce ne sarebbe stato bisogno in realtà perché sua cognata teneva sempre leggermente aperta la finestra nella stanza del bambino. Più Matteo respira aria di mare, meglio è, ripeteva. Come se le condizioni del figlio, cerebroleso gravissimo, potessero migliorare in qualche modo. Nessuno le dava credito, neanche il marito, ma chiunque entrasse lì, assentiva convinto a quell’illusione.

    Si allontanò sul viale a mare verso la zona di ponente, cercando di mettere spazio fra sé e l’odore di disperazione che assediava la casa di suo fratello. Dovevo almeno accarezzarlo mio nipote, e, invece, anche quel giorno le sue mani erano rimaste ostinatamente nascoste nelle tasche dell’impermeabile. Margherita ci riusciva. Si accese una sigaretta come per placare il disagio, poi accelerò il passo perché il vento era freddo e gli faceva lacrimare gli occhi. O forse non era il vento?

    Così, però, sarebbe arrivato troppo presto a casa. Era quasi pentito di essersi fatto dare l’appartamento dell’androne. Era più scomodo dell’alloggio in caserma che, almeno, non puzzava perennemente di salsedine e in cui le lenzuola non sembravano stese sul letto ancora umide di bucato. Però di sopra doveva coabitare con sua madre e Ida. Troppo di tutte due per lui ormai, anche per quel poco che ci stava.

    Sei stato fortunato a essere stato nominato a pochi chilometri da casa, gli ripeteva suo cognato Valerio. Invece no, lui sarebbe voluto andare lontano e non sentirsi costretto – da chi, poi? – a passare i giorni di riposo a Vicorto. E a festeggiare il suo compleanno il giorno seguente con tutta la famiglia, comprese le cinque nipoti cinque, figlie delle sue sorelle. Tutte femmine, belle e sane però loro. Il posto è tranquillo oltre tutto, aggiungeva Valerio. Come se lui avesse scelto di fare il carabiniere per stare tranquillo. Scosse la testa dubbioso anche di sé stesso. Sapeva perché aveva firmato dopo la leva, questo sì. L’unica cosa che gli interessava, era esclusa: sua madre teneva lui e i suoi fratelli ben lontani dal gabbiotto del comando del bagno. Per non far torto a nessuno, diceva lei. Per continuare ad essere l’unica padrona, pensavano loro figli. Entrare nell’Esercito era stato un ripiego, insomma. Ma passare all’Arma perché? Perché sei vanesio e ti piaci di più la divisa nera sfolgorante d’argento che con il verde della Fanteria, gli avrebbe spiattellato addosso Ida. Gli era sembrata, invece, l’unica opportunità per fare ma questo sua sorella non l’avrebbe capito; d’altra parte nemmeno lui sapeva ancora completare quel verbo.

    Certo, per il momento il tran tran della Tenenza era più monotono che impegnativo. La vita criminale della cittadina e frazioni limitrofe registrava una calma quasi piatta. Qualche reato contro la morale, liti familiari e /o tra vicini, furtarelli. Anomalo per una nazione che non sembrava del tutto pacificata. A Pontescuro, invece, no, niente, non succedeva niente. Non è del tutto esatto, si corresse e pensò alle ossa, umane senza dubbio, ritrovate a La Serra. Devo ricordarmi di fare partire un sollecito per avere gli esiti degli esami scientifici. Sospirò: sarebbe stata la seconda volta.

    Entrò nella profumeria Vera, una delle tante affittuarie di sua madre. Aveva bisogno di Acqua di Parma, una colonia costosa - troppo per le mie tasche – che a Pontescuro non trovava.

    «Luigi, come mai qui?»

    Una coppia, sbucata, dall’androne del Sirena gli si parò davanti. Accidenti, Tina con quell’altro, il fidanzato. Come si chiama?

    «Ciao. Come stai?» gli sembrò un saluto sufficientemente cordiale.

    La ragazza si alzò sulla punta dei piedi per sfiorargli lievemente la guancia con la propria.

    «Ti ricordi di Ruggero, vero?»

    «Certo, come va?» Educato ma neutro perché non rammentava se si erano dati del tu o del lei nell’unica volta in cui si erano incontrati.

    Voglio che tu lo conosca, gli aveva intimato Tina, come se lui dovesse darle il permesso per lasciarlo e sostituirlo con il tizio in questione. Quando era sceso alla stazione di Vicorto, meta finale del rimpatrio, il caldo di luglio gli era parso persino più forte di quello di Bangalore, forse perché non ne poteva più. C’era anche la sua fidanzata con la tribù familiare dei Martini ma tutto gli era sembrato sfocato e irreale, anche lei. Poi dopo una settimana la confessione. Amo un altro, gli aveva detto tra le lacrime. L’aveva consolata senza difficoltà: si era già immaginato passare in divisa sotto le spade dei colleghi, sposato con una ragazza che gli era diventata estranea. Un partigiano, aveva precisato Tina, forse per fargli capire che non si era messa con il primo che capita. E ancora: sarai un gentiluomo, vero? Come se potesse saltargli in mente d’illuminarlo sulle loro scopate saltuarie e goffe.

    A lui Ruggero D’Amico era riuscito simpatico: si era appena laureato in Lettere – nonostante la guerra - e avrebbe fatto l’insegnante per educare i giovani alla libertà e alla democrazia, aveva affermato solenne. Lo aveva invidiato per le sue certezze.

    «Ce la facciamo a prenderci un Campari? Venite, domani è il mio compleanno, offro io».

    «Ma veramente…» «Volentieri, grazie». I due fidanzati si parlarono addosso e scoppiarono a ridere.

    I lampioni del lungomare gettavano coni di luce fioca e misera sulla passeggiata; al di là della barriera costituita dagli stabilimenti liberty si sentiva il mugghiare forte delle onde. Si ripararono nel caffè Poseidone. Prima della guerra sarebbero annegati in un profumo di cioccolata e di tè. Ora erano già contenti di godersi l’aroma amarognolo dell’aperitivo.

    «Si prepara una bella libecciata, ho paura». Tina si raddrizzò il cappellino verde perfettamente intonato al colore biondo- rosso della chioma.

    È sempre carina, pensò lui, con la stessa emozione con cui l’avrebbe detto della sua nipote maggiore. Con Ruggero finirono per parlare della situazione.

    «Non si ripara alla violenza passata con altra violenza. Noi dobbiamo prendere le distanze da certi elementi e riconoscere che non siamo stati tutti buoni».

    C’era passione negli occhi scuri del professore - partigiano e questa volta lui lo ammirò.

    «Dai, cerchiamo di rivederci» disse ai due innamorati al momento dei saluti.

    «Certo Luigi, magari ci presenti la tua fidanzata».

    Non era un’osservazione maligna, non era da Tina. Però era chiaro che gli mandava un messaggio: ormai devi viaggiare in coppia, come faccio io.

    Forse dovrei insistere con Licia.

    Le aveva telefonato e si erano poi incontrati a Vicorto. L’aveva aspettata alla corriera che si fermava nella piazza ed erano rimasti un attimo indecisi a guardarsi. Anche lei, come me, si chiederà che cazzo ci faccio qui? ricordò di aver pensato.

    «Andiamo a vedere qualche negozio?» aveva suggerito lei.

    Aveva subito acconsentito. Era una cosa da donne, lo sapeva, ma lui desiderava tuffarsi nel mondo femminile dopo tanti uomini con cui aveva dovuto condividere, e doveva ancora, spazi, parole, pensieri. Certe volte non ne poteva più di volti scuri di barba, di tratti spigolosi, di voci baritonali. E poi quegli odori aspri! Era stata quella la cosa più difficile da sopportare, più della frustrante castità a cui si era dovuto rassegnare. Non male per

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1