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Giramondo: Racconti
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Ebook182 pages2 hours

Giramondo: Racconti

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About this ebook

Questo libro è un mappamondo. Da un paese all’altro le storie si rincorrono, dove un racconto finisce un altro trova l’inizio, pagina dopo pagina, città dopo città, perché su un mappamondo le distanze spariscono e anche il tramonto cede subito il passo all’alba. Fate girare il mappamondo, sfiorarlo con l’indice sarà sufficiente. Ma basterà un altro tocco leggero e il mondo si fermerà. E in quel punto, sotto l’indice, apparirà la nuova tappa del viaggio. Vi ritroverete in bilico sulle cascate di Iguaçu in Brasile e poco dopo in Norvegia, sotto lo sguardo minaccioso di un troll. La cartomante di Nizza non farà in tempo a leggervi il futuro, mentre Joe Minnesota ha già le idee chiare sul suo, nel carcere di Folsom, California, dove suonò anche Johnny Cash e non se voleva più andare. E se Enea è passato da Sciacca, il marziano Iuc non vorrà più mettere piede sulla Terra. E se a Mosca per Pyotr Ilyich l’amore è una matrioska, sappiate che l’irlandese Geoffrey Sand sta ancora aspettando la sua Emily sul Ponte di Brooklyn. Comunque sia, permettete un consiglio: non accettate scommesse sulla spiaggia di Brighton.
Storie diverse si rincorrono su questo mappamondo che girando su se stesso sfoglia le pagine di un libro. Ma personaggi e luoghi differenti condividono tutti lo stesso segreto: il legame tra un posto e chi, per scelta o per caso, ci vive.
Scrivere è viaggiare, leggere è fare tappa in un sogno. E dunque se questo libro è un mappamondo non sarà sbagliato chiamare chi lo leggerà Giramondo.
LanguageItaliano
Release dateFeb 20, 2021
ISBN9788861558557
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    Giramondo - Gianluigi Schiavon

    Gianluigi Schiavon

    GIRAMONDO

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-855-7

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2020

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    A mio fratello Nicola

    Prefazione

    Nel viaggio apparente eppure così trascinante di Schiavon per il mondo, si parte e non si arriva, anche quando ci sembra di giungere a una meta, che è allo stesso tempo il punto di partenza. Non a caso, In nessun posto è il titolo dell’ultima tappa.

    Un giro, appunto. Partiamo dunque dal titolo Giramondo che è intraducibile in molte lingue, se non con approssimazione. In francese, diventa Globetrotter, che non è proprio esatto, e in spagnolo si rende con errante o trota mundos, uno che vaga o che corre per il mondo. Il tedesco, lingua più esatta, si avvicina con Weltbummeln, Welt mondo, e bummeln che vuol dire passeggiare, e anche farsi un giro. Tedeschi e italiani hanno qualcosa in comune, a loro insaputa.

    Il giramondo non è un globetrotter, non è un turista, né un viaggiatore o un esploratore. In realtà è il mondo che gli gira intorno, e lui ne carpisce un riflesso, un suono, una vibrazione, a volte attraverso un incontro con chi abita in un luogo, o vi passa come lui. Un breve incontro profondo quanto una intera vita.

    Nel seguire Schiavon a capriccio in giro per il mondo, il suo, il nostro, dal Brasile alla Norvegia, viene piuttosto in mente un pittore, anzi due molto lontani e quindi vicini, René Magritte e Edward Hopper. Ogni capitolo, come un quadro di Magritte, il surrealista belga, dove ogni tratto, ogni pennellata, è di un preciso verismo, la prospettiva esatta, i colori netti, ma l’effetto straniante, troppo vero per essere autentico. L’artista ci lascia sprofondare in una realtà parallela. Nelle tele dell’americano Hopper crediamo di ritrovarci in un luogo, sulle coste del Maine, o sulla Main Street di un paese nel Texas, ma penetriamo in uno stato d’animo, un’attesa, la solitudine, il ricordo di un amante. Frammenti di un tempo sospeso.

    Così in ogni capitolo, lungo poche righe o alcune pagine, Schiavon ci conduce in un posto che descrive, in apparenza con la precisione del giornalista, nomi di strade, distanze, bar e hotel, monumenti, a volte riporta persino la data dell’evento, anno, giorno, ora, ma è l’essere umano al centro, e il luogo è lo sfondo. E come in un riflesso segna il destino di quell’uomo e di quella donna, che non è possibile immaginare altrove. Il rapinatore ballerino di tango potremmo incontrarlo solo a Marsiglia, la sinuosa Brenda per le vie di New York, e per baciare Susan dovremmo andare sull’Abbey Road, quella dei Beatles, ma non è facile trovare la strada giusta.

    L’Italia patria di novellieri come Boccaccio o Matteo Bandello, sfruttati da Shakespeare, o per giungere a Pirandello, al suo Novelle per un anno, ha perso l’arte, il gusto, della novella. Oggi molti autori definiscono romanzi un racconto lungo, e danno spessore al volume con pagine e spazi bianchi. Ma il racconto è cosa diversa dalla novella. E le novelle oggi sono in realtà bozzetti, quelli che apparivano nelle terze pagine dei giornali.

    Schiavon in Enea è passato da qui, in ventotto righe racconta l’intera vita del professore Diomede Pizzolungo, innamorato dei classici, e tradito dalla sua Elena, trascurata nonostante il nome omerico. La mia vendetta si chiama Serpotta, oltre sette pagine, è uno dei racconti più lunghi, quasi un romanzo fiume in proporzione, ma c’è la Sicilia, di ieri e di oggi, la mafia, il mercato della Vucciria, quello di Guttuso, e l’arte barocca dell’isola, con putti, angeli e demoni che hanno i volti della gente comune. Un inferno trasformato in paradiso, o il contrario.

    In una novella si dovrebbe raccontare una storia completa, con personaggi precisi. Ed è difficile. Ci riusciva Moravia, che era un narratore, e che andava controcorrente quando dai critici le trame erano considerate fuori moda. Per una novella si può sprecare una trama da romanzo. Schiavon è un maestro nell’arte dello spreco, ci regala 44 romanzi in 224 pagine. E tronca il racconto sempre una riga, un attimo prima, lascia il lettore con il desiderio di saper di più. Ma ha già narrato tutto, senza scriverlo.

    Roberto Giardina

    BRASILE

    Uma pedra no sapato

    Giunto a patti con se stesso, José Cardoso arrivò fino a metà di Rua Dr. Pereira e lì decise di fermarsi. In centro a Paraty, esattamente 252 chilometri di strada a sud di Rio de Janeiro, Cardoso, la più celebre e precisa guida turistica del Brasile, si sentì perduto come un bambino nel giardino dietro casa. Fissò l’acciottolato sconnesso, poi la punta delle proprie scarpe, fece un respiro grosso e ripeté piano:

    "Como uma pedra no sapato".

    Alzò lo sguardo, ne mancava di strada fino alla Pousada Maravilha, lì in fondo e poi a destra, dove lo aspettavano gli inglesi: esattamente 252 metri, calcolò José Cardoso, distanza insignificante in altri tempi, troppo carica di significati in questo preciso istante. Tre infarti, ma sono ancora qui – consolò se stesso Cardoso – e vivere è sopportare, ma questo dolore che non finisce alla fine di nessuna strada è como uma pedra no sapato.

    Quando la guida turistica più celebre e stremata del Brasile arrivò alla Pousada Maravilha, l’inglese, che si chiamava John come si chiamano John tutti gli inglesi che fanno i turisti, disse:

    José, io e Anne – nemmeno quest’altro nome parve a Cardoso un tocco di originalità – abbiamo cambiato idea: torniamo a Rio e saliamo al Corcovado, sul Cristo Redentor.

    E la guida più affaticata di tutto il Brasile rivide davanti a sé i 252 chilometri appena percorsi per intero e le due facce di John e Anne di nuovo in pullman a chiedersi che Paese fosse quello, senza stazioni di servizio, bus non abusivi, e pieno di spiagge in cui fare il bagno era impossibile perché l’oceano era freddo, troppo agitato e per questo davvero maleducato. E José Cardoso rispose senza nemmeno pensarci:

    "Uma pedra no sapato".

    Che significa?, chiese il turista che si chiamava John come tutti gli altri e altri ancora.

    Letteralmente vuol dire: una pietra nella scarpa.

    E non letteralmente?, chiese il vecchio John.

    Una rottura di coglioni.

    Era il suo motto, il credo, la sua dannazione: uma pedra no sapato. Cardoso guardò John e Anne, pensò di aver conosciuto troppi John e Anne in vita sua. Perciò disse solo: Buon viaggio. Io resto a Paraty.

    Stupito di aver rotto un patto con se stesso, José Cardoso s’incamminò a ritroso lungo Rua Dr. Pereira: era la prima volta che rinunciava ad accompagnare un turista da qualche parte, chiunque fosse quel turista. Era sempre stato uno che non cede: tre infarti e due operazioni, quando girava la testa ritrovava sempre la stessa sensazione, come se invisibili cicatrici dentro al petto gli trattenessero il cuore, como uma pedra no sapato. Eppure neanche in quei momenti José Cardoso, da sempre la più celebre e instancabile guida turistica del Brasile, aveva mai concesso a se stesso di mollare. Si fermò e con un gesto senza senso scrollò il piede destro per sistemare l’immaginaria pietra che nella scarpa rotolava avanti e indietro e gli consumava la pianta del piede assieme alla vita che ancora gli mancava da vivere.

    A quel punto inspiegabilmente si mise a ridere. Subito dopo si chiese perché e si rispose che rideva di se stesso e soprattutto di uma pedra no sapato.

    Così, quando fu in fondo a Rua Dr. Pereira decise di continuare a camminare. E attraversò tutta Paraty, i vicoli incorniciati da finestre e porte dipinte di blu, rosso e verde come donne sgargianti e affascinanti, e guardò le vetrine delle botteghe allegre come sempre, e toccò i souvenir, tucani di legno, piccole navi in microscopiche bottiglie, stuoie multicolori, bottiglie di cachaça che gli schiavi neri inventarono da queste parti e che lui non poteva più bere perché como uma pedra no sapato e ancora sorridendo illustrò a voce alta la bellezza solenne ed erosa dal tempo della Igreja de Santa Rita de Cássia e la nobiltà coloniale della Casa da Cultura e la forza mai perduta del Forte Defensor Perpétuo che proteggeva dai pirati i carichi d’oro delle miniere del Minas Gerais, e raccontò tutto con maestria collaudata e vestì le parole con l’eleganza del sapere e fece tutto questo come aveva sempre saputo fare per l’intera vita, con un’unica sostanziale differenza: stavolta il turista era lui e sempre lui era anche la perfetta guida di se stesso.

    Quando ebbe finito sentì il bisogno di vedere il mare. Allungò un altro po’ il passo non sentendo più nemmeno il peso della stanchezza e così trasportato da pensieri leggeri si ritrovò sulla Praia do Jabaquara. Si sistemò con cura, cercò una posizione comoda e stabile, i piedi ben piantati sulla sabbia, fissò l’oceano e ne inspirò profondamente il respiro calmo e regolare. Successe in quell’esatto istante: l’infarto arrivò ancora una volta a tradimento, il quarto della sua vita, ma stavolta fu ancora più crudele perché spezzò il tramonto che restò per sempre nei suoi occhi.

    "Uma pedra no sapato", disse José Cardoso, crollando, ginocchia nella sabbia.

    Non ci fu bisogno di traduzioni.

    Il tassista di Rio

    Il tassista corre come un pazzo dentro l’alba di Rio. Sul ponte della Via Expressa Presidente João Goulart, che la gente di qui chiama Linha Vermelha, scivola tra auto e pullman come un serpente folle. Ha appena lasciato l’aeroporto di Galeão diretto a Copacabana, e vuole arrivarci prima di tutti. Di certo prima dell’ultimo battito del suo cuore che ora suona la grancassa della paura. Il tassista di Rio corre come un matto inseguito da se stesso. Una volta uccise un tale, dicono. È da allora che scappa.

    Ha la faccia intagliata nel legno, ogni spigolo degli zigomi è una scheggia di dolore, è sempre stato così per tutti i discendenti del popolo Guaraní, perché il Brasile era la loro terra prima che arrivassero i portoghesi venuti da Est e dal niente. Il passato gli dà la caccia. Per questo corre veloce, solo così potrà sfuggire alla giustizia.

    Ma lo sa anche lui che non durerà. Prima o poi scopriranno il travestimento. Prima o poi lo porteranno nel carcere di Gericinó, a ovest di Rio, dove d’estate la temperatura arriva a 43 gradi, e d’inverno continua bruciarti l’anima.

    Il tassista di Rio ora rallenta. C’è una pattuglia della polizia, che il dio degli inseguiti se li porti all’inferno. Supera il posto di blocco docile, velocità non sospetta, non guarda gli agenti, fissa la strada davanti a sé. La sua amica strada. Poi riprende la corsa.

    Accende la radio, ascolta una musica dolce e calma, potreste dire che è l’antica musica dei Guaraní, ma non lo sapete veramente, ciò che vi resta da dire è che dentro di lui non risuonano le stesse note, ma la tempesta delle onde più forti delle correnti di São Conrado, a sud ovest della città, dove i surfisti corrono sul mare più veloci dei taxi sull’asfalto di Rio.

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