Io, Rosalia N
By Rita Alù
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Io, Rosalia N - Rita Alù
Rita Alù
Io, Rosalia N
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Indice dei contenuti
Prefazione
1
2
3
4
5
Note
Bibliografia
Prefazione
Amo Palermo nonostante le sue molteplici contraddizioni.
Da infaticabile turista della mia città, non mi stanco mai di girare per le strade e le piazze, consultare documenti e leggere libri per apprendere nuove curiosità sulla sua storia millenaria, commuovermi al cospetto delle innumerevoli opere d’arte presenti in ogni angolo, scoprire le vicende di uomini e donne più o meno famosi che l’hanno abitata nei secoli.
Un sabato mattina mi recai a visitare la Chiesa del Gesù all’interno del Complesso di Casa Professa. Non era la prima volta che vi entravo ma mai, prima di allora, mi ero soffermata con tanta attenzione sui suoi tesori.
Nella seconda Cappella a sinistra notai che il cartellino descrittivo della pala d’altare raffigurante L’Immacolata Concezione e S. Francesco Borgia
indicava il nome di una donna. Sino a quel momento non conoscevo Rosalia Novelli, la figlia di Pietro, il grande monrealese
. Da allora cominciai a ricercare notizie e informazioni su questa pittrice vissuta nella Palermo del Seicento, affascinata all’idea che Rosalia, sfuggendo all’unico destino all’epoca riservato alle donne – diventare spose del Signore o di uomini scelti dalla famiglia – potesse essersi ritagliata anche uno spazio tutto suo nel quale esprimersi, dando dimostrazione di non essere da meno
rispetto agli artisti dell’altro sesso.
Scarsa è la documentazione disponibile sulla biografia di Rosalia Novelli.
Limitandomi a utilizzare le poche notizie certe, ricostruite sulla base di documenti archivistici da chi prima di me ha voluto conoscerne la storia, mi sono calata nei panni di Rosalia, cercando di immaginare – nel rispetto degli eventi pubblici e privati realmente accaduti nel corso della sua esistenza – come si possa essere svolta la sua vita travagliata di figlia, moglie, pittrice e, da un certo momento in poi, anche di responsabile della bottega paterna, ruolo quest’ultimo inusuale per una donna del suo tempo.
Scrivere questo romanzo è stata per me una meravigliosa avventura che mi ha consentito di immergermi nel mondo della pittura, imparare a comprenderne la tecnica, conoscere in ogni dettaglio i dipinti descritti nel libro. Considerato che la produzione artistica di Rosalia Novelli è incentrata prevalentemente sull’arte sacra, per comprenderne appieno il significato, necessario è stato anche l’approfondimento di tematiche squisitamente teologiche.
Alle vicende di Rosalia fa da cornice la felicissima Palermo, profondamente segnata dalla peste del 1624, dalle rivolte popolari antispagnole soffocate nel sangue, dalle continue carestie, dall’epidemia di febbri maligne. In questo contesto, i cittadini di Palermo, aggrappandosi all’unica ancora di salvezza disponibile, affidavano la loro sorte al Signore rivolgendo le loro preghiere alla Beata Vergine Maria e a Santa Rosalia, dichiarata novella patrona della Città.
Rosalia crebbe all’ombra del padre, un artista famoso conteso da ordini religiosi, vecchia aristocrazia terriera, nuova nobiltà, mercanti e banchieri.
Fu lui a insegnarle il mestiere e, soltanto grazie a lui, Rosalia poté diventare una pittrice.
Nel mio precedente romanzo, Schiava e Sorella
, mi ero occupata della triste vicenda di Suor Anna Magdalena, al secolo Donna Anna Valdina, un’altra donna realmente vissuta nella Sicilia del Seicento. Anna fu costretta dal padre, insieme alle sue sorelle, ad entrare in monastero a soli sette anni e lottò tutta la vita per riconquistare la libertà perduta. Nel suo caso la decisione paterna si rivelò nefasta condannandola a rimanere, per oltre cinquant’anni, murata viva all’interno di un monastero contro la sua volontà.
Cito Schiava e Sorella
per sottolineare come il percorso di vita di due donne vissute a Palermo nello stesso periodo storico, in linea con le prassi e le regole dell’epoca, sia stato fortemente condizionato, nel bene per Rosalia nel male per Anna, dal volere dei loro rispettivi padri.
Pur se è vero che Rosalia diventò pittrice grazie al padre, le sue competenze artistiche furono tuttavia riconosciute ed apprezzate. Ne danno dimostrazione i pochi dipinti che le vengono attribuiti pervenuti ai nostri giorni. Da qui la mia decisione di intitolare il romanzo Io, Rosalia N.
, proprio nell’intento di restituire autonoma dignità a questa donna-artista che ho voluto fare uscire dall’ombra, facendole raccontare la sua storia.
1
1.
Nacqui il primo giorno di un freddo febbraio dell’anno 1628. Ma la mia storia, in realtà, ebbe inizio quattro anni prima.
Tutto cominciò così.
Lungo le strade e i vicoli di Palermo carogne purulente di ratti annunciavano ciò che era già in corso.
Qualcuno, osservando l’anomalo fenomeno, aveva parlato di un morbo mortale e contagioso che avrebbe potuto trasmettersi dall’animale infetto all’uomo. La gente, tuttavia, sdrammatizzava l’accaduto affermando che l’epidemia aveva colpito soltanto i topi e che a loro si sarebbe circoscritta. Si illudeva così, forse, di restare indenne dal contagio.
Nel volgere di qualche settimana, uomini, donne e bambini, che denunciavano tutti gli stessi sintomi – febbre alta, prostrazione e strani rigonfiamenti tumefatti concentrati nelle ascelle e nell’inguine – si rivolgevano agli ospedali cittadini chiedendo soccorso. Ai ricoveri seguirono le prime morti.
La situazione fu presto chiara. La parola peste, però, venne pronunciata per la prima volta quando ormai era troppo tardi. Girò voce che un vascello sospetto
proveniente da Tunisi fosse attraccato a Trapani per proseguire poi alla volta di Palermo per volere del Viceré Emanuele Filiberto, mal consigliato dal suo segretario Antonino Navarro.
Il 7 maggio del 1624 il capitano del bastimento berbero si recava a Palazzo Reale portando con sé i doni inviati dal Re di Tunisi. La peste cominciò così a diffondersi.
Le persone ammorbate dovevano essere dirottate nei lazzaretti, luoghi di sofferenza e morte, e lì rimanere in isolamento. In breve tempo ne furono aperti undici, quasi tutti fuori dalle mura cittadine.
Ad accudire gli appestati si prodigavano medici, infermieri, inservienti e barbieri che, come voleva l’uso, erano abilitati a praticare salassi e piccoli interventi. Anche i frati, con le loro tonache scure, si aggiravano per ospedali e lazzaretti, intenti ad assicurare la cura delle anime che per quei poveretti ormai senza speranza era di gran lunga più importante della medicina.
2.
Le strade della felicissima Palermo, sino a poco tempo prima affollate e frequentate da un andirivieni di gente, erano diventate quasi deserte. Non si udivano più i vocii dei passanti scherzosi né le abbanniate dei venditori ambulanti. Ora solo un silenzio surreale avvolgeva la Città, interrotto di tanto in tanto dal rimbombo metallico delle ruote delle carrozze e dai passi frettolosi di coloro che erano costretti a uscir da casa per necessità.
Chi si trovava per strada, all’apparire in lontananza del carro della morte, si scansava immediatamente infrattandosi dentro il primo portone aperto o nascondendosi nel vicolo buio più vicino. Al terrore provocato dalla macabra scena spesso si aggiungeva la curiosità di vedere a distanza di pochi metri da sé gli effetti devastanti del terribile morbo, nonostante il timore che la semplice visione dei cadaveri adagiati sul carro potesse essere da sola causa di contagio.
Attraversando le pubbliche vie si ascoltavano i lamenti disumani provenienti dalle case basse e dai catoi, alternati a grida di disperazione annunciatrici di morte. Gli ingressi erano barrigiati da assi di legno incrociate per isolare gli appestati e avvertire la gente che quelle case erano contaminate dalla malattia e dunque interdette.
C’era tuttavia un luogo che, in dispregio al buon senso, continuava a brulicare di gente: le chiese, sempre più affollate da fedeli disperati con gli occhi traboccanti di lacrime che invocavano il Signore e la Santa Vergine Maria di liberare la Città dalla peste.
Il contagio e la morte non risparmiavano nessuno, colpendo indifferentemente la povera gente, i nobili e i potenti.
Studiosi e medici di fama non riuscivano a trovare soluzione alcuna al diffondersi dell’epidemia.
Il morbo non risparmiò nemmeno l’amato Viceré Emanuele Filiberto che, in punto di morte, affidò l’anima sua – e, seppur in via provvisoria, le sorti del Regno – al Cardinale e Arcivescovo di Palermo Giannettino Doria.
3.
Tra il giugno del 1624 e l’inizio del 1626 un quarto della popolazione cittadina venne sterminata. Le vittime dell’epidemia furono oltre trentamila.
Molto si parlò delle cause che avessero scatenato la peste, dai più ritenuta un flagello divino, la giusta punizione per un popolo di peccatori. Ed è per questo, si diceva, che a Dio e ai suoi Santi la Città si doveva rivolgere per esserne liberata.
Per tutta la durata dell’epidemia le processioni religiose furono le uniche iniziative pubbliche che, in via eccezionale, continuavano ad essere consentite in deroga alle regole restrittive dettate per la prevenzione del contagio. La fede era rimasta la sola ancora di salvezza e l’avvenuto ritrovamento delle ossa di Santa Rosalia, in seguito proclamata a furor di popolo novella Protettrice di Palermo, aveva riacceso la speranza della gente.
La prima processione, coincidente con il ritrovamento delle ossa della Santa nella grotta di Monte Pellegrino, si svolse il 15 luglio del 1624. Ciononostante l’epidemia continuò a diffondersi e i morti ad aumentare.
In memoria della passione di Cristo che salvò il mondo dal peccato, il 5 gennaio del 1625 la cittadinanza di Palermo prese parte a una indimenticabile e straziante processione. Era il freddo pomeriggio di una domenica, preceduto da una mattinata di pioggia. Dalla Cattedrale prese avvio un lungo corteo diretto, attraverso il Cassaro, alla Chiesa della Madonna della Catena. A guidarlo il Cardinale e Arcivescovo di Palermo vestito in pontificale, insieme al Capitolo, che precedeva il Crocifisso ligneo di nostro Signore.
Uomini, donne e anche qualche bambino sfilavano con pesanti collari al collo e corone di spine sul capo. Alcuni si trascinavano bocconi sulle ginocchia, altri col volto sulla strada leccavano il suolo. Scalzi e con le spalle ignude nonostante il freddo e il fango, si battevano il capo, il petto e si insanguinavano.
4.
Alla disperazione della gente che prese parte alla processione del Cristo ligneo seguì, appena sei mesi dopo, una processione solenne e gioiosa organizzata per il riconoscimento ufficiale dell’autenticità delle reliquie della Santa rinvenute sul Monte Pellegrino.
Per volere della popolazione e disposizione