Milano in giallo. Il commissario Tinon e il caso della contessa innamorata.
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Milano in giallo. Il commissario Tinon e il caso della contessa innamorata. - Maria Cristina Flumiani
Cislaghi
Mercoledì 26 ottobre 2016
Tinon leggeva i giornali bevendo il secondo caffè. Si accese una sigaretta. La giornata si prefigurava tranquilla; si dedicò quindi a riordinare i cassetti della scrivania, ancora pieni dei suoi appunti relativi a indagini concluse, ormai inutili. Tra le scartoffie, trovò la sua fedele stilografica, una Parker blu che aveva comprato in una vecchia cartoleria di corso Matteotti, dove andava ogni tanto perché vi trovava oggetti originali e un po’ fuori dal tempo; l’ultimo acquisto era stato una deliziosa tartaruga in ottone con il carapace smaltato che serviva da fermacarte; ora faceva bella mostra di sé sul tavolino del salotto.
Accidenti! Il pennino della sua amata Parker era rotto; si ricordò che gli era caduta sul pavimento qualche settimana prima e che l’aveva messa nel cassetto ripromettendosi di sostituirlo. Sarebbe andato quella sera stessa a farla riparare; gli era già capitato, il pennino costava cinquanta euro e ci sarebbe voluto un mese per riavere la sua stilografica; doveva stare più attento.
Tra le varie carte, trovò la fattura del dentista – doveva portarla a casa per metterla nella cartellina dei documenti per la dichiarazione dei redditi; sotto il verbale di un’indagine, c’era l’ultimo numero di Playboy; lo sfogliò soffermandosi su alcune immagini e poi lo ripose insieme agli altri nell’armadio alle sue spalle, nell’ultimo cassetto.
In quel momento, si affacciò Francesco Pizzorno. Piccolo di statura, occhi azzurri e capelli corti castani, abitava da una vita a Milano ma aveva conservato molto bene la parlata abruzzese che rendeva assolutamente incomprensibile quello che diceva. All’inizio Tinon gli faceva sempre ripetere la frase, poi aveva capito che l’unica soluzione era cogliere una o due parole per ricostruirne il senso. Ormai si era abituato e comprendeva quasi tutto. Da buon leghista convinto, seguace di Bossi, non aveva mai sopportato i meridionali, che riteneva pigri, indolenti e furbi; purtroppo il corpo di polizia era pieno di questi elementi. Ma qualche anno prima, in una giornata di marzo piovosa e grigia, aveva cambiato idea.
Ricordava benissimo quel giorno: un passante aveva telefonato dicendo di aver visto due uomini scendere da una Citroën C3 blu; avevano il passamontagna ed erano entrati di corsa nell’agenzia della Deutsche Bank in corso Sempione mentre l’auto si allontanava. Il commissario si era recato immediatamente sul posto con una volante e due agenti che, aveva constatato amaramente, erano siciliani; se li era subito immaginati mentre chiacchieravano tra loro, si distraevano e perdevano tempo lasciandosi sfuggire i malviventi. Ricordava l’attesa interminabile sul marciapiede, la pioggia sottile, il freddo umido che penetrava nelle ossa. Finalmente, i due rapinatori erano usciti dalla banca strattonando una ragazza che tenevano davanti come scudo; poi l’avevano spinta e la ragazza era finita per terra, in ginocchio. Approfittando dell’effetto sorpresa, si erano allontanati di corsa; uno di loro però si era girato e aveva sparato all’ostaggio che si stava alzando, forse per ritardare l’inseguimento dei poliziotti. L’agente più vicino a lei si era buttato a farle da scudo, senza esitazione, ed era stato colpito dal proiettile alla spalla sinistra. Per fortuna aveva riportato soltanto una ferita superficiale; Tinon si era congratulato con lui per la prontezza e in seguito gli aveva fatto avere una promozione. Da allora, non aveva più inveito contro i meridionali e aveva cominciato ad apprezzarne il buonumore e la calma con cui affrontavano la quotidianità, in contrasto con la frenesia dei milanesi.
Pizzorno disse che una donna era stata uccisa in un appartamento in viale Tunisia. Tinon sospirò: mai un momento di pace. Uscì e andò a prendere la metropolitana; scese alla fermata di Porta Venezia e si diresse verso l’abitazione della defunta. Era una giornata grigia, l’aria era pungente e umida, sicuramente avrebbe piovuto; meno male che aveva messo l’impermeabile e non il solito piumino leggero. Passò davanti a un negozio di oggetti da regalo, molto originali. Doveva ricordarsene in occasione di qualche ricorrenza; le feste di Natale si avvicinavano e lui doveva fare qualche regalo. Anzi, ci sarebbe tornato con Camilla.
Camilla era la sua fidanzata, conosciuta al mare anni prima. Insegnava inglese e amava tutto quello che era britannico, dal plum cake ai maglioni con il tipico disegno intorno al collo. Erano una bella coppia: lui alto, magro, occhi e capelli castani, gli occhiali senza montatura, la sigaretta sempre tra le dita, accesa o spenta; lei poco più bassa, con un bel viso illuminato da grandi occhi grigi. Avevano caratteri molto diversi: tanto lui era preciso, metodico, abitudinario, quanto lei disordinata e imprevedibile; ma amavano entrambi i puzzle, le crostate di marmellata, le gite in bicicletta e i romanzi storici. Vivevano insieme in un appartamento in via Marghera di fronte all’OVS ed erano entusiasti di quella zona piena di negozi, di bar, di ristoranti e di vita.
Corso Sempione. Foto dell’autrice
Capitava spesso che la sera, dopo cena, Tinon le raccontasse delle sue indagini, soprattutto quando non aveva le idee chiare; Camilla lo ascoltava con attenzione e gli dava qualche suggerimento. In tal modo riusciva ad analizzare i fatti con più distacco e a immaginare scenari diversi.
Il commissario arrivò di fronte al Cinema Arcobaleno, attraversò la strada ed entrò in un edificio grigio, uguale ad altri che si susseguivano nella via; nessun balcone interrompeva l’ordine delle finestre poco distanti l’una dall’altra. Lui desiderava moltissimo un balcone dove coltivare qualche pianta e mangiare nella bella stagione. È vero che via Marghera era molto vivace e trafficata, quindi il rumore sarebbe stato eccessivo, ma gli sarebbe piaciuto lo stesso.
Attraversò l’atrio pieno di gente che lo guardò con curiosità e salì al quarto piano con un vecchio ascensore in ferro. Sul pianerottolo, c’erano due poliziotti. Uno di loro disse: È stato il marito, hanno litigato perché lei voleva andarsene con un altro. Il solito delitto passionale
.
Tinon assentì ed entrò in un appartamento modesto, con pochi mobili ordinari e le pareti scrostate; c’erano solo tre stanze che davano sull’ingresso – il bagno, la camera da letto e la cucina. Qui, seduto vicino al tavolo di formica, c’era un uomo muscoloso, tatuato, sui trent’anni; sul viso aveva una grossa cicatrice e gli tremavano le mani. Non guardò nemmeno il detective; stesa in terra c’era la donna, o meglio quello che rimaneva di lei, la faccia gonfia e i capelli intrisi di sangue. Stringeva in una mano il cellulare; un ultimo disperato tentativo di chiedere aiuto, pensò il commissario; una ragazza, probabilmente, che si era innamorata della persona sbagliata e aveva tentato di sfuggirle. Un caso come tanti, troppi.
Estrasse dal pacchetto una sigaretta, l’accese e inspirò una grossa boccata di fumo; nonostante l’esperienza, non riusciva ad accettare l’idea della morte violenta, della disperazione, del dolore che le vittime dovevano aver provato negli ultimi momenti della loro vita. Avrebbe dato volentieri una manica di botte a quell’individuo prepotente che aveva troncato la vita di un altro essere umano. Lo squadrò: eccolo lì, tremante, il bastardo, che poco prima si era avventato su una persona più debole di lui, implacabile e spietato. Si padroneggiò e gli recitò la formula che lo informava dei suoi diritti.
L’uomo alzò la testa, guardò la cravatta del detective e farfugliò: Voleva lasciarmi per un imbecille che ha tre figli; io l’amavo, ogni tanto la picchiavo, è vero, perché era scema, ma le volevo bene. Ho perso la testa quando mi ha detto che se ne andava e l’ho presa a pugni; a un certo punto mi sono accorto che non si muoveva più; non volevo ucciderla, solo farle cambiare idea
. Ognuno ha la sua teoria su come convincere il prossimo, pensò Tinon. L’uomo venne arrestato e caricato sulla macchina della polizia per andare al commissariato.
Il detective decise di tornare con la metropolitana. In strada il traffico era intenso come al solito; notò con piacere che gli automobilisti erano disciplinati: si fermavano quando il semaforo era giallo e davanti ai passaggi pedonali quando qualcuno attraversava; ogni tanto c’era chi andava di fretta e superava troppo velocemente l’incrocio, ma era uno su dieci. Milano si era davvero evoluta in quegli ultimi anni e i suoi abitanti erano diventati molto civili ed educati.
Al commissariato, Pizzorno lo informò sull’identità dell’arrestato: si chiamava Giuseppe Cassano, era un operaio barese di trentacinque anni, pregiudicato; aveva al suo attivo risse e furti, ma non si era mai macchiato di omicidio fino a quel momento. Pizzorno lo introdusse nell’ufficio di Tinon e si sedette davanti al computer per registrare il colloquio. L’uomo era massiccio, sulle braccia e su quello che una canottiera sporca lasciava intravedere del torace aveva dei tatuaggi che rappresentavano draghi e cuori colorati. Gli occhi erano chiarissimi, gelidi, e la pupilla dilatata; le sopracciglia avevano un arco perfetto. Una moda – quella di curare l’aspetto in modo così… femmineo – che Tinon non condivideva affatto; ne aveva discusso una volta con Camilla, la quale invece sosteneva che anche gli uomini dovessero ricorrere a creme e trattamenti per essere più belli, esattamente come le donne. Mah! Lui rimaneva della sua idea: un vero uomo non dovrebbe essere così centrato sulla sua immagine.
Il tipo rimase un attimo in piedi, in attesa di istruzioni. Un dolciastro tanfo di sudore si propagò nella stanza.
Il commissario gli indicò la sedia e, dopo che si fu seduto, cominciò l’interrogatorio mentre Pizzorno si apprestava a registrare domande e risposte sul computer.
Dimmi come ti chiami e che lavoro fai
.
L’uomo fissava il piano della scrivania. Voglio un avvocato
. Aveva un accento meridionale molto marcato.
L’avvocato non può più fare niente per te; hai già ammesso tutto, dovevi pensarci prima. Ormai è tardi
.
Voglio un avvocato
. L’uomo continuava a fissare la scrivania.
Rispondi alle domande sulle tue generalità; svelto; non farmi perdere la pazienza, non ti conviene
. Il commissario cominciò a tamburellare con le dita su una pila di pratiche.
L’uomo lo guardò un attimo e poi abbassò gli occhi.
Mi chiamo Giuseppe Cassano e sono operaio; adesso però faccio il buttafuori all’Atlantique. Il lavoro me l’ha trovato un cliente di Maria che fa il barista in quella discoteca
.
Dove e quando hai conosciuto Maria?
L’ho conosciuta l’anno scorso in via Melchiorre Gioia, dove faceva la prostituta. Aveva venticinque anni ed era molto simpatica; sono tornato da lei tre sere di fila e poi le ho chiesto di venire a vivere con me, costava meno
. Sorrise mentre ricordava quei momenti. Era stata contenta di trasferirsi da me, perché abitava con altre cinque ragazze
.
E poi, che cosa è successo?
Voglio un avvocato. Altrimenti non dirò nulla
.
Se hai ammesso di averla uccisa, che cosa può fare per te un avvocato?
Cassano lo guardò con l’aria di un topo in trappola; poi vide il pacchetto di Camel sulla scrivania e farfugliò: Voglio una sigaretta
.
Prima mi racconti che cosa è successo
.
L’uomo lo guardò in silenzio con l’espressione di uno che sta per essere ghigliottinato. Tinon si accese una sigaretta e poi gliene offrì una. Cassano ne prese due, una l’accese e l’altra la mise dietro l’orecchio. Inspirò il fumo e lo sbuffò per aria. Poi riprese a parlare.
"Abbiamo vissuto insieme e, a parte qualche litigio, andava tutto bene. Ma da circa una settimana quasi