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Introduzione di Antonia Arslan
KZ Lager è un libro che racconta un percorso, insieme rigoroso ed emotivo, attraverso ventitré campi di concentramento e di sterminio: da Bergen-Belsen a Buchenwald, da Dachau a Mauthausen, sino ad Auschwitz, luoghi dove Davide Romanin Jacur ha accompagnato, in oltre cinquanta viaggi, gruppi di studenti o adulti. Un percorso in cui si intersecano e integrano due strade, una contraddistinta dall’ordine e dalla razionalità con le quali si descrivono i campi: la diversità morfologica, la collocazione, la dimensione e gli strumenti che servivano alla detenzione e all’uccisione dei prigionieri. La seconda è invece riflessiva, definisce la condizione emotiva dell’autore e traccia una sua riflessione personale: di ebreo partecipe della tragedia del suo popolo, e di uomo posto di fronte al mistero della cattiveria umana. Il testo è corredato da fotografie, carte geografiche, e alcuni testi scritti dai ragazzi che hanno partecipato ai viaggi.
«Lo stile è duttile, e si piega con sicurezza a rendere i tanti e diversi luoghi, momenti e situazioni di questi itinerari, che infatti sono viaggi della conoscenza prima che della memoria: una conoscenza austera e controllata, eppure ricca di infinite sfumature di pathos» (dalla Prefazione di Antonia Arslan).

Davide Romanin Jacur
Davide Romanin Jacur (Padova, 1949), nel 1973 si laurea in Ingegneria edile all’Università di Padova, e prosegue poi i suoi studi in Architettura a Venezia. Dal 1975 al 2016 è progettista e direttore lavori di edifici civili e industriali. Dal 1990 assume cariche di responsabilità in diversi consigli di amministrazione in svariati settori: finanziari, industriali, immobiliari. Dal 1978 al 2017 è consigliere della Comunità Ebraica di Padova, rivestendone la carica di Presidente dal 2003. Dal 2010 è consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dal 2018 ne è assessore al bilancio e finanze. È socio onorario dell’Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti in Padova.
Parallelamente alle sue attività manageriali, Romanin Jacur tiene conferenze, organizza viaggi didattici e attività museali. Nel 2018 pubblica Tre conferenze sulla storia del popolo ebraico (Il prato, Saonara, Padova).
LanguageItaliano
Release dateJan 26, 2021
ISBN9791259600141
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    KZ lager - Davide Romanin Jacur

    Davide Romanin Jacur

    KZ lager

    Davide Romanin Jacur

    KZ lager

    RONZANI S.r.l. - © Ronzani Numeri

    Via San Giovanni Bosco 11/2 - Dueville (VI)

    www.ronzanieditore.it | info@ronzanieditore.it

    eISBN 979-12-5960-014-1 - Prima edizione digitale: Gennaio 2021

    Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (L. 633/1941 e successive modificazioni). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel contratto di licenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla riproduzione in qualsiasi forma, nonché alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet, sono riservati.

    La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale, è vietata. Per l’autorizzazione all’uso dei contenuti, si prega di rivolgersi alla Casa editrice.

    ISBN: 9791259600141

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    KZ lager

    Chinarsi sull’abisso e restare uomini

    Introduzione

    I. I campi di sterminio, concentramento, lavoro, raccolta

    ​Bełżec

    Bergen-Belsen

    Bolzano

    Buchenwald

    Dachau

    Flossenbürg

    Fossoli / Carpi

    Gross - Rosen

    Gusen

    Jasenovac

    Majdanek

    Mauthausen

    Mittelbau-Dora

    Natzweiler-Struthof

    Ravensbrück

    Sachsenhausen

    San Sabba (Risiera di)

    Sobibór

    Terezín

    Treblinka

    Vo’ Vecchio

    Auschwitz

    Birkenau

    II. Altri luoghi connessi alla Shoah

    Berlino

    Białystok e Tykocin

    Budapest

    Cracovia

    Lublino

    Norimberga

    Ponary

    Praga

    Riga

    Varsavia

    Vienna

    Vilnius

    Yad VaShem

    III. Considerazioni su tematiche generali e costruzione dei viaggi

    La memoria (della Shoah)

    Le troppe parole usate in modo improprio

    La forza della propaganda e la passività nel recepirla

    La ferocia, la mancanza di etica e l’impunità

    Il disperato attaccamento alla vita

    Pettini e spazzole

    I principi fondanti dei nostri viaggi ai campi di sterminio

    Le lezioni

    IV. Un campione selezionato delle restituzioni

    Stralci delle presentazioni dei viaggi del sindaco Flavio Zanonato e dell’assessore alle politiche scolastiche e giovanili Claudio Piron

    Testi scritti dopo il ritorno

    Appunti raccolti in viaggio

    Ringraziamenti

    KZ lager

    Chinarsi sull’abisso e restare uomini

    di Antonia Arslan

    Ci sono, in questo libro – che vorrei chiamare necessario e completo – di Davide Romanin Jacur sui campi di concentramento e di sterminio da lui visitati in più di cinquanta viaggi con studenti e adulti, due direzioni evidenti nella composizione e nella riflessione: come due strade che si intersecano e si integrano continuamente, illuminandosi reciprocamente di significati attraverso dettagli e riflessioni che rendono particolarmente affascinante – anche se dolorosa – la lettura.

    La prima è il rigore, l’ordine e la precisione direi geometrica con cui sono descritti e analizzati i campi, dai più piccoli e quasi dimenticati fino al più grande e celebre, Auschwitz, che con la sua indispensabile appendice di Birkenau rappresenta il punto culminante di ogni percorso sull’argomento. Nella descrizione di ognuno appare evidente la stessa chiarezza espositiva, che si rivela accurata, completa, razionale, e insieme carica di una pietà intensa e vivissima. Lo stile è duttile, e si piega con sicurezza a rendere i tanti e diversi luoghi, momenti e situazioni di questi itinerari, che infatti sono viaggi della conoscenza prima che della memoria: una conoscenza austera e controllata, eppure ricca di infinite sfumature di pathos.

    La seconda – che è ben distinta, ma si intreccia continuamente alla prima, la sottolinea e la potenzia – è la riflessione personale, lo strazio emotivo: quello di un fratello verso gli innumerevoli fratelli affondati nella sventura, che viene affrontato dall’autore con quella testarda volontà di esaustività dell’informazione e di controllo della sofferenza che mi tocca molto, personalmente, e che ho tante volte cercato di raggiungere nel documentarmi sulle storie e le testimonianze della tragedia armena.

    Da Bergen-Belsen a Buchenwald, da Dachau a Mauthausen, non dimenticando luoghi meno noti come Mittelbau-Dora, pagina dopo pagina si dispiega la macabra contabilità delle centinaia e centinaia di migliaia di creature umane che furono inghiottite da quelle enormi fabbriche di morte. Ognuna di esse, nota molto opportunamente l’autore, si presentava con un grande arco d’entrata, intimidente ed efficace simbolo di un ingresso che non prevedeva uscite se non sotto forma di corpi senz’anima, cenere, polvere d’ossa. In diverse occasioni, i luoghi dove sorgevano i campi furono abbandonati dagli stessi nazisti in ritirata, nell’intento di occultare o minimizzare le mute testimonianze dei crimini che vi erano stati commessi; spesso, le costruzioni rimaste vennero successivamente distrutte. Ma che orribile impressione di indifferente follia lascia nel lettore la notizia della trasformazione, nel capitolo su Flossenbürg, del sito del campo in un tranquillo quartiere per gente qualsiasi; oppure, a Gusen, la fotografia dell’edificio di ingresso al campo, diventato oggi la villa di un possidente...

    Nello svolgersi del racconto non c’è nessuna monotonia. Anzi, ogni capitolo dimostra chiaramente di essere frutto di un viaggio veramente avvenuto (parecchie volte anche ripetuto), e fa entrare il lettore con immediatezza in atmosfere reali vissute da persone reali. Così ognuno di questi luoghi infernali si colloca in un paesaggio diverso, e aggiunge un tassello di tragico realismo alla vicenda complessiva: i ganci da macellaio di Buchenwald o la scala della morte dei 186 alti gradini di Mauthausen, sui quali i deportati erano costretti ad arrampicarsi con grossi pesi sulle spalle, o il dato terribile del cannibalismo per sopravvivere testimoniato a Gross-Rosen, aggiungono informazioni, ma soprattutto fanno riflettere sull’estensione dell’inumanità e sulle perversioni dell’organizzazione del male: non solo uccidere, ma provare piacere nel farlo in modi particolarmente efferati; non solo costringere a un lavoro forzato e sfiancante, ma calcolare con precisione i tempi di sopravvivenza possibile per i deportati, in modo da sfruttarli completamente, fino alla morte per estenuazione totale.

    Ogni tanto l’autore si ferma e si racconta, sempre con equilibrata passione. Esprime le sue riflessioni di uomo, posto di fronte al mistero del male, e di ebreo, partecipe della tragedia del suo popolo: e non si può che condividerle, sia quando constata, ancora una volta, come in Germania la gente non poteva non sapere quello che avveniva, visto l’enorme numero di persone coinvolte nell’amministrazione e sfruttamento delle deportazioni di massa; sia quando scrive dell’indifferenza insofferente di tanti, fino all’aperta ostilità. Ma anche quando sbuffa di fronte allo sfruttamento dei vecchi sopravvissuti, portati di qua e di là nelle occasioni rituali, a ripetere stancamente gli stessi episodi. Non è tanto un’adesione emotiva che si deve ricercare, scrive: noi dobbiamo creare la consapevolezza di ciò che è accaduto, non solo per gli ebrei, ma per tutti, attraverso un’informazione estesa e corretta e una partecipazione cinica, perché la Shoah non riguarda solo la storia ebraica ma l’umanità intera, in quanto mostra l’immane possibilità negativa dell’essere umano.

    Completano il libro – e si leggono con particolare interesse – alcuni testi scritti da ragazzi che hanno partecipato ai viaggi. Le loro reazioni intelligenti e meditate rappresentano uno stimolo e un’autentica lezione per la distratta indifferenza di troppi adulti.

    Introduzione

    Sono abbastanza convinto che sul tema dei campi di concentramento e sterminio, presso la gente comune, ci siano ancora delle lacune culturali di sostanza.

    È ormai quantitativamente enorme la produzione letteraria disponibile e consistente quella cinematografica, per altro ampiamente recepita; ci sono studiosi che ne hanno fatto ampie trattazioni, corsi e masters universitari di alto livello; sono disponibili seminari, trattati, cicli di conferenze sulla didattica della Shoah; vi sono impagabili ricercatori che continuano a reperire e rendere disponibili nuovi testi su argomenti ancora non rilevati; varie Associazioni o gruppi culturali hanno organizzato viaggi collettivi in alcuni dei siti più simbolici e parecchie persone vi si sono recate in autonomia; la Legge n. 211 del 20 luglio 2000 di istituzione del Giorno della Memoria nel nostro Paese, ha promosso e favorito la diffusione e la coscienza degli eventi storici accaduti a metà del secolo scorso, presso gli studenti e categorie più disponibili. Il risultato di tutto ciò è riassumibile nella seguente categorizzazione dei pensieri diffusi tra la gente comune:

    Di queste cose non ne voglio sapere;

    Basta con questi ebrei, ne abbiamo le tasche piene di queste lamentazioni;

    "Ho letto Se questo è un uomo e Il Diario di Anne Frank (la mia coscienza è a posto)";

    Ho letto le opere di Primo Levi, Etty Hillesum, Elie Wiesel, Vasilij Grossman e altri: so quel che devo sapere;

    Io sono stato ad Auschwitz e ho visto…;

    Ho visitato Auschwitz e Mauthausen, ho sentito parlare Liliana Segre, Shlomo Venezia e Sami Modiano: sono ben conscio di quanto accaduto….

    La mia personale sensazione, ciononostante, è che molti degli approcci, sia di insegnamento che di consapevolezza, siano carenti di una sorta di materialità: che, per la maggior parte delle persone, resti inevasa la concretezza della conoscenza della Shoah, avvolta in una nuvola di percezioni e nozioni, pur fondamentali, ma distaccate.

    Ho avuto la possibilità, quasi casuale – non posso parlare né di fortuna, né di volontà programmata; se il Comune di Padova non mi avesse chiamato fin dall’inizio, la mia esperienza non si sarebbe maturata – di compiere più di cinquanta viaggi a diversi campi, purtroppo non certo tutti. Ogni volta ho visto situazioni sconosciute, ogni volta ho percepito sensazioni diverse, ogni volta ho avuto l’occasione di avere pensieri nuovi e talora di condividerli con le persone che accompagnavo; oppure di doverli razionalizzare e facilitare per loro delle spiegazioni – sui corsi storici, sulle nozioni di ebraismo (laico) e comportamentale – che si connettevano alla visita effettuata, in alternativa alla percezione emotiva.

    Primo Levi non è l’unico scrittore che ha vissuto l’inferno, Auschwitz non è l’unico campo di sterminio, Liliana Segre non è l’unica sopravvissuta; la Shoah non è l’evento riconoscibile del popolo ebraico. Per ognuno di questi simboli vi è una casistica immensa, banalmente si potrebbe dire sei milioni di volte. Viene dunque a mancare – ripeto, nella percezione comune – un quadro globale di riferimento, con il rischio di annullare nei simboli, una generalità che travalica l’enormità dell’evento storico.

    Ho cominciato questo libro pensando di descrivere la diversità dei campi di concentramento e sterminio che ho visitato: dove sono e come erano fatti; perché erano anche molto differenti uno dall’altro, come disegno e morfologia, collocazione e posizione geografica o urbanistica, dimensione, scopo, tecnologie dedicate alla detenzione, uccisione, eliminazione dei resti; contenuti tuttora visibili, musealizzazione, ricostruzioni.

    Ma già descrivendo i primi siti è avvenuta una variazione dell’obiettivo che mi ero posto: mi sono reso conto che raccontavo la mia visita, senza distacco e oggettività; e che, probabilmente, tale approccio era più empatico per il lettore e più liberatorio per me. Pertanto il capitoletto su ognuno dei campi è diviso in tre sezioni: collocazione del luogo e ciò che oggi si vede; cui segue – in carattere diverso, quasi una voce fuori campo – l’esposizione di nozioni storiche, quantitative o narrative che non sono mie, ma riprese da testi o siti disponibili (Wikipedia, Aned e qualche altro, dopo opportuna revisione), che ho soltanto riassunto, collegato o interpretato. La terza parte è assolutamente privata ed egocentrica, descrivendo le emozioni destate in me, le considerazioni elaborate, i commenti di carattere divulgativo che mi sono stati indotti dalle visite e dalla descrizione di quei luoghi specifici.

    Una annotazione: tranne in casi particolari ho sempre volutamente omesso i nomi dei gerarchi nazisti, dei direttori dei campi, degli aguzzini: non meritano di essere ricordati, né citati.

    Tra i siti di concentramento non potevo omettere Vo’ Vecchio, il campo di raccolta degli ebrei padovani, il cui restauro e rivalorizzazione ho inaugurato quando avevo il ruolo di presidente della Comunità ebraica di Padova e Rovigo: ho preferito che la descrizione fosse però fatta dall’amica Chiara Saonara, che vi ha accompagnato delle scolaresche e che da almeno dodici anni condivide con me i viaggi degli studenti delle scuole superiori, istituiti dal Comune di Padova, svolgendo la parte didattica della storia e ha poi partecipato anche ad alcuni viaggi di adulti.

    Dovevo trovare la maniera di ordinare la descrizione dei vari campi: avrei potuto partire dal più conosciuto Auschwitz, per proseguire mano a mano in decrescenza di importanza e terminare con Vo’; oppure nell’ordine temporale in cui li ho visitati la prima volta (allora avrei cominciato con Terezin, Auschwitz e Dachau, per concludere con Gross-Rosen e Natzweiler). Ho scelto l’ordine alfabetico, ma lasciando per ultimi Auschwitz e Birkenau – considerati separati e autonomi uno dall’altro, perché diversi in tutto – in quanto sono rappresentativi di compendio e sintesi del sistema concentrazionario, oltre che, oggi, i più conservati e visitati.

    Ho pensato fin dall’inizio di aggiungere delle fotografie, soltanto in bianco e nero, per esaltarne la drammaticità: in prima istanza dovevano essere originali, selezionate personalmente tra quelle dei partecipanti ai viaggi e che si dovevano accompagnare alle descrizioni e alla mia memoria dei luoghi: ho scelto tra i materiali di Bruno Maran, Gabriele Toso e dello studente Filippo Schettini; successivamente, per supplire la carenza di materiale su alcuni siti, ho reperito altre fotografie da fonti disponibili; ho deciso poi di aggiungere poche rappresentazioni geografiche per far meglio localizzare i luoghi di cui tratto.

    Quando stavo finendo la descrizione dei campi, ho apportato una seconda variazione al piano dell’opera. Da un lato i soli campi non mi sono più sembrati sufficienti a esprimere il mio percorso attraverso i siti della Shoah: c’erano altri luoghi, che avevo spesso specificatamente visitato, che dovevano essere inseriti. Dall’altro ho realizzato che quanto stavo scrivendo era assolutamente coerente con la missione didattica che mi è capitato di intraprendere dal 2004 a tutt’oggi: accompagnare, preparare, raccontare agli studenti e alle persone più adulte questa parte della storia dell’umanità; il libro è del tutto simile a un grande viaggio prolungato fino alla fine della lettura. Comprende, come nei viaggi, una esposizione laica di parti dell’ebraismo, così come sollecitato da domande più o meno frequenti o dalla mia necessità/opportunità di spiegare cose che generalmente la gente non sa: nella personale certezza che l’antisemitismo possa essere combattuto anche normalizzando il popolo ebraico e facendolo uscire dalle categorie aprioristiche della diversità, dell’elitarismo, del mistero e mostrando invece certe ricchezze del pensiero, certe primogeniture della socialità, della cultura o di altri aspetti.

    La seconda parte dei siti (sempre in ordine alfabetico) comprende principalmente città, ma vi ho inserito anche Ponary, luogo di eccidio numericamente spaventoso ma non campo di sterminio. Ho volutamente omesso di parlare della razzia al Ghetto di Roma, del Binario 21 a Milano o di altri luoghi simbolo della Shoah italiana, per non aprire ferite ancora troppo dolorose per il lettore italiano e aliene dal concetto di viaggio che ho tratteggiato. Si conclude invece, con lo Yad VaShem di Gerusalemme: non solo perché è l’apice delle ricerche e della storia della Shoah, ma anche perché – pur essendovi stato da solo in precedenti occasioni – nel 2019 ho effettivamente accompagnato un gruppo di adulti in visita in Israele, su specifica richiesta di quanti erano venuti ai campi europei e che ne vedevano una sorta di necessario completamento. Nel timore di essere banale, ho preferito che il capitolo di Yad VaShem fosse svolto ancora da Chiara Saonara e da Gigliola Bettelle, che vi ha soggiornato per un seminario didattico e che ha tradotto il Diario di Ponary di K. Sakowicz.

    La terza parte doveva essere soltanto dedicata alle consolidate filosofie con cui prepariamo e conduciamo i viaggi didattici: ho aggiunto invece una serie di capitoli dove tratto delle questioni generali connesse alla memoria, alle conferenze che mi capita di tenere, a miei pensieri complessivi sui temi di cui ho scritto. Di nuovo – e come sempre – devo affermare e premettere che non sono uno storico, né un filosofo, né un erudito; parimenti non sono un rabbino, né un ebreo osservante; né pretendo di sostituirmi ad alcuno di quei ruoli. Ho soltanto imparato a divulgare alcune notizie, ho capito che quanto più riesco a filtrarle attraverso me stesso, rinunciando talora alla reticenza, al pudore dei sentimenti personali, oppure usando come scudo un assoluto cinismo che mi permette di esprimere come tali le efferatezze più terribili, tanto più la comunicazione è efficace e l’effetto sull’uditore è maggiormente assicurato.

    La quarta parte conclude il viaggio con alcuni significativi pezzi scritti in restituzione dai ragazzi: ne disponevo di tanti, ho scelto i più significativi, meno ripetitivi e meno scontati; un paio sono delle vere opere d’arte.

    Prima di procedere all’edizione di questo libro avrei voluto aggiungervi almeno l’esito di un viaggio, già organizzato a Chelmno, Lodzt e Stutthof (Danzica): la pandemia mi ha fermato. Ci sono ancora decine di posti che sentirei il dovere di visitare: Babij Jar e Odessa, Lwow (Leopoli) e Podolki; Westerbork e Neuengamme; Darcy e il Velodrome di Parigi; Maly Trostenets e Plaszow; e magari altri ancora. Per capire cosa, dove, come è successo, è utile anche andarci fisicamente. Per sentire profondamente come questi eventi siano una reale amputazione non solo del mio popolo, ma della collettività e della società di tutti, è necessario viverne un attimo localizzato. Perché la vita e la morte di così tanti individui non sia stata totalmente inutile, è doveroso ripercorrere i loro ultimi passi. Perché il loro ricordo non resti relegato alla letteratura, alla cinematografia e alle declamazioni stereotipate, è opportuno anche rendere omaggio ai cimiteri che li hanno sepolti, all’aria che li ha dissolti, al vento – umano e celeste – che li ha portati via.

    I. I campi di sterminio, concentramento, lavoro, raccolta

    ​Bełżec

    Costituito il 17.03.1942,

    funzionante fino alla primavera 1943, poi distrutto dai nazisti,

    434.508 ebrei ufficialmente assassinati.

    Da Zamość, puntando verso sud, si giunge a Bełżec in poco più di un’ora di pullman. Siamo vicinissimi a quel punto della carta geografica in cui si congiungono i confini che separano attualmente Polonia, Ucraina e Bielorussia.

    Dal XVII secolo la maggior concentrazione di ebrei si ebbe nella Grande Polonia, il territorio dei Quattro Paesi, che si espande a sud-est (Moldavia, Slovacchia, Ucraina, Bielorussia e parte della Romania) e confina con la Lituania, allora più estesa di quella attuale. Gli ebrei erano presenti in una numerosissima quantità di Comunità importanti, Comunità di media grandezza, città commerciali dove la presenza ebraica era sensibile, oltre a una polverizzazione di micro comunità agricole, di cui il vasto territorio era pieno.

    Nei grandi numeri del famoso documento sulla presenza ebraica in Europa, preparato per la Conferenza di Wannsee che decise la soluzione finale, spiccano i 3.000.000 di ebrei ucraini e i 3.147.700 di ebrei polacchi.

    Scesi dal pullman entriamo dal cancello della recinzione in muratura e il primo pensiero è ma era così piccolo?; con l’animo come sempre in vigile apprensione, ci troviamo di fronte non a un campo, ma a una grande scultura. Non è una forma umana o rituale: tutto il campo è una (magnifica) scultura. Bianca e nera. Davanti a un modesto piazzale in calcestruzzo – in cui sono disegnate in sottorilievo delle rette che si incrociano in maniera confusa, piccoli canali come per raccogliere la pioggia – splendono i contorni di un bianco abbacinante di due grandissimi recinti squadrati, posti in leggera pendenza verso l’alto. I recinti sono separati da un percorso rettilineo centrale (vedi oltre il Manicotto) e perimetrati da una stradina pedonale, credo in cemento, che è una lunghissima e morbida gradinata. Ma, dentro i recinti, una immensa quantità di pietre nere in basalto attirano l’attenzione: sono solo tagliate a spacco, assolutamente grezze e assolutamente nere, ma sembrano… – io non credo di essere particolarmente impressionabile, nemmeno particolarmente fantasioso o visionario; eppure, finché non mi sono avvicinato, e molto, – quelle pietre… sembrano braccia tese verso l’alto, teste che ti guardano, una miriade di corpi lì, fermi ad aspettarti e a dirti noi c’eravamo, … noi siamo qui.

    Bełżec fu appositamente ubicato geograficamente nell’Europa Orientale, nel quadro dell’eliminazione di tutta la presenza ebraica della Galizia e delle aree adiacenti, al fine di arianizzarle, renderle Judenfrei, cioè ripulite dagli ebrei e anche da altri indesiderabili come slavi e zingari, per rendere questi territori pronti per essere annessi alla Germania. Oltre al totale genocidio ebraico, il Generalplan Ost prevedeva il genocidio, l’espulsione, o la riduzione in schiavitù per la maggior parte dei polacchi, dei cechi, degli zingari e degli altri popoli slavi che ancora vivevano nei territori dell’Est, che sarebbero stati colonizzati dal Terzo Reich a guerra vinta. Per quanto riguarda i polacchi, si prevedeva che nel 1952 sarebbero stati lasciati in vita solo 3-4 milioni di essi, il cui compito sarebbe stato quello di servire da manodopera schiava. Il Generalplan Ost prevedeva che 50 anni dopo la guerra ci sarebbe stato lo sterminio e/o l’espulsione di più di 50 milioni di slavi oltre gli Urali, probabilmente definiti come il prossimo confine tedesco. Questo piano faceva parte del famoso progetto Lebensraum (spazio vitale) nazista, per rendere possibile l’insediamento tedesco in questi territori che i nazisti consideravano già parte integrante della futura grande Germania.

    Le tre camere a gas di Bełżec iniziarono a operare ufficialmente il 17 marzo 1942, la data fissata per l’inizio dell’Aktion Reinhard. Le prime vittime furono gli ebrei deportati dai ghetti di Lublino e Leopoli. In queste prime operazioni di sterminio si verificarono numerosi inconvenienti tecnici: il meccanismo delle camere era ancora problematico e causava ritardi. Inoltre i corpi, sepolti in fosse e ricoperti solo di terra, si gonfiavano a seguito del processo di putrefazione, liberando fughe di gas nauseabondo. Questo inconveniente venne corretto successivamente con l’introduzione dei forni crematori.

    Presto ci si rese conto che le tre camere a gas previste inizialmente erano insufficienti per completare il lavoropianificato, in particolar modo con il numero crescente di convogli provenienti da Cracovia e Leopoli. Venne così costruito un nuovo complesso di sei camere a gas in cemento, ognuna di 4 x 8 metri, in grado di eliminare 1.000 vittime per volta: questo progetto venne duplicato negli altri due campi di sterminio di Sobibór e Treblinka.

    L’11 dicembre 1942 arrivò l’ultimo trasporto: la maggior parte degli ebrei dell’area servita da Bełżec erano stati quasi completamente sterminati. Per ordine di Himmler, per nascondere le prove del massacro avvenuto, a partire dal novembre 1942 tutti i corpi delle vittime vennero riesumati e cremati su grandi pire di legna alternate con binari. Le ossa rimaste dopo il processo di cremazione vennero triturate da una speciale macchina e disperse nell’area del campo. Terminate le cremazioni, nella primavera del 1943, il campo di Bełżec venne completamente distrutto e l’intera area venne camuffata piantando alberature selvatiche.

    Entrambi i comandanti del campo – come la maggior parte dei loro collaboratori – fin dal 1940 erano stati coinvolti nel programma di eutanasia T4, volto all’eliminazione di coloro che soffrivano di disturbi psichici e handicap fisici. Il primo era stato supervisore dei sei istituti di eutanasia presenti nel Reich, il secondo comandante dei servizi non medici. Quali partecipanti ai primi esperimenti di uccisione mediante gas di persone disabili, assunsero la qualifica di esperti in uccisioni di massa e pertanto scelti come comandanti del primo campo di sterminio del Governatorato Generale.

    I treni dei deportati che arrivavano erano formati da 40 a 60 vagoni, contenenti mediamente un centinaio di persone ciascuno. Sovente, però, in un vagone che poteva contenere al massimo 50-60 persone, se ne stipavano fino a 200. I trasporti erano eseguiti in condizioni indescrivibili per le vittime: senza mangiare o bere, privi di servizi igienici, molti dei deportati soffocavano per mancanza d’aria e morivano: tra i corpi pressati all’inverosimile i morti rimanevano in piedi.

    I treni stazionavano in un piccolo scalo ed entravano nel lager circa 15 vagoni alla volta, scaricando sulla banchina il loro contenuto: in quattro o cinque ore al massimo si trattava un intero treno. In seguito al raddoppio delle camere a gas, fu aggiunta una seconda rampa per consentire uno scarico di 40 vagoni contemporaneamente.

    Non vi erano all’arrivo selezioni per il lavoro, né baracche nel campo per la detenzione dei prigionieri, né immatricolazioni, salvo per quelli della manovalanza del lager e lo smaltimento dei cadaveri. Alle vittime veniva ordinato di fare tutto di corsa, in modo da non lasciar loro il tempo di pensare: dopo l’espropriazione dei beni, la svestizione e il taglio dei capelli femminili, in due turni, gli uomini e poi le donne con i bambini, passavano subito alle rozze installazioni di sterminio con il falso pretesto del bagno di pulizia. I deportati trovavano inizialmente tre piccole camere a gas in baracche di legno, camuffate da sala docce; in seguito furono ricostruite in cemento in numero di sei. Qui venivano chiusi dentro dopo essere stati stipati all’inverosimile, con le mani alzate per occupare meno spazio possibile, tenendo in alto neonati e i bambini più piccoli; così si aumentava la capienza e si riduceva lo spazio d’aria con conseguente diminuzione dei tempi di gassazione. Era tecnica consolidata anche accendere e spegnere la luce nelle camere, poco prima dell’immissione del gas; ciò innescava il panico che aumentava di molto la respirazione e quindi anche l’efficacia del gas: le vittime morivano in circa 30 minuti di atroci spasimi. Dopo l’uccisione veniva aperta la porta situata di fronte a quella d’ingresso e i corpi cadevano fuori; i dentisti del Sonderkommando estraevano gli eventuali denti d’oro dalla bocca delle vittime e controllavano minuziosamente che nessun oggetto di valore fosse nascosto sui corpi. Non vi erano forni crematori e i cadaveri venivano seppelliti in decine e decine di estese fosse comuni ( al di fuori del campo attuale).

    L’intero campo occupava un’area relativamente piccola, quasi quadrata di 275 metri di lato. Agli angoli vi erano le torrette di postazione dei controllori ucraini armati di fucili, mentre una torre al centro del campo, equipaggiata con una mitragliatrice pesante e proiettori per il controllo notturno, dominava l’intera lunghezza del Manicotto, ovvero il passaggio circondato di filo spinato che conduceva alle camere a gas.

    Nelle sezioni a nord-est, est e sud del campo erano collocate le fosse comuni che avevano una dimensione media di 20 m x 30 m x 6 m di profondità: ne

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