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Come è stata svenduta l'Italia
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Come è stata svenduta l'Italia

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«Davvero la politica aveva programmato che il nostro tessuto produttivo avrebbe dovuto contrarsi? Si poteva realmente pianificare l'impoverimento di un popolo? Perché avremmo dovuto accettare di entrare in una Confederazione di Stati, avviando una stagione di privatizzazione delle nostre aziende strategiche che ancora oggi è in atto?»

Queste le domande a cui l'economista Antonino Galloni risponde in un saggio che ripercorre e vuole far luce su episodi, situazioni e personaggi di una ancora buia vicenda del nostro Paese. Perché conoscere la Storia, dalla viva voce dei suoi protagonisti più informati, può aiutarci a comprendere ciò che sta davvero avvenendo alle nostre vite e soprattutto ciò che succederà domani a quelle dei nostri figli.
LanguageItaliano
Release dateJan 20, 2021
ISBN9788894548242
Come è stata svenduta l'Italia

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    Come è stata svenduta l'Italia - Antonino Galloni

    2020

    Indice

    Prefazione

    di Claudio Messora

    Premessa

    1 Il quinquennio che precede

    il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia

    2 Inizia e continua la

    finanziarizzazione del Paese

    3 Dalla seconda crociera del Britannia

    alla caduta di Craxi

    4 Gli anni Novanta:

    dalla flessibilizzazione alla precarizzazione

    5 Una prospettiva per il futuro

    Prefazione

    di Claudio Messora

    Non so se avete presente quei musicisti da strada che con le mani suonano i piatti, al gomito hanno legata una cordicella con la quale azionano una bacchetta che percuote un rullante (con un mini piattino sopra che va in controtempo), con la caviglia controllano un meccanismo che produce una percussione su una grancassa e, in qualche modo, riescono anche a sollevare il cappellino a tempo, mentre con la bocca soffiano in un fischietto. Se quest’immagine vi è familiare, adesso pensate che al posto dei piatti ci siano telecamere, sulle spalle zaini pieni di scomparti colmi di cavi, batterie, attrezzi, riduttori, adattatori, alla cintura batterie di microfoni cardioidi senza fili, sulle ginocchia registratori audio in bilico, sempre sull’orlo di sfracellarsi al suolo, e leve di cavalletti a testa mobile con le quali seguire quella finestra di mondo che a qualcuno, poi, sarebbe interessato vedere e sentire (forse).

    Ecco, quello ero io nel 2012. Facevo il video blogger, una tipologia di reporter all’avanguardia che, grazie alle nuove tecnologie, ai social media e a una buona dose di incoscienza, inaugurava la stagione della televisione fai-da-te. Nessun editore, nessun direttore responsabile, nessun filtro: solo il mondo da una parte, il pubblico dall’altra e tu in mezzo a fare da lente.

    Così un giorno mi scrissero dal Partito Umanista. Stavano organizzando un workshop sulla democrazia diretta e avevano invitato tra i relatori un certo Antonino Galloni, detto Nino. Mi dissero che loro, in quanto movimento culturale, condividevano gli stessi miei valori. Ovvero, il principio basilare secondo il quale prima viene l’uomo, e poi qualunque altro meccanismo l’uomo si sforzi di mettere a punto per tentare di governare se stesso, sia esso l’ultimo memorandum del gruppo di lavoro sull’Output Gap della Commissione Europea, il ciclo di Frenkel oppure i ragionamenti evidence-based sull’efficacia della distruzione della domanda interna attraverso l’imposizione fiscale o mediante i lockdown. Quello che non riuscì di fare a Mario Monti, cioè, si sarebbe rivelato in seguito un gioco da ragazzi per le commissioni tecnico-scientifiche di Giuseppe Conte. Il Grande Reset invocato a Davos, insomma. Parrebbe tutta un’altra storia, ma se la storia avesse anche un solo comandamento, esso prescriverebbe che tutto è correlato da una concatenazione di cause ed effetti che partono da lontano. E contro quel lontano stavamo tutti per andarci a sbattere il naso, in quella lontana primavera del 2012, mentre guidavo nel traffico cittadino di Milano, ignaro del fatto che stavo per accedere a una chiave sapienziale, un tassello del mosaico che contiene il grande dipinto con la storia mai raccontata del nostro Paese. "The Big Picture", direbbero altri popoli d’oltralpe.

    Quelli del Partito Umanista volevano insomma che io andassi a fare le riprese, non ricordo se con un rimborso spese simbolico oppure totalmente gratis, come si conviene a chiunque sia animato dal desiderio concreto e per nulla ambizioso di salvare il mondo. Una bazzecola!

    Ricordo ancora di essere entrato in quella sala, bardato come l’eccentrico Doc in Ritorno al Futuro (ma senza bicicletta) e di avere proceduto a passo spedito verso il palco, ignorando gli sguardi e qualche commento di ammirazione, per iniziare subito ad allestire il set delle riprese. All’epoca viaggiavo con almeno tre telecamere (oltre a tutto il resto), ma quella principale era un vero portento: una Sony da diecimila euro che non avrei mai potuto permettermi, se non fosse che mi era stata regalata da uno che a sua volta non avrebbe mai potuto permettersela, ma che dopo avere subito un ictus ed essere stato in bilico tra la vita e la morte, aveva capito che l’esistenza non aveva nessun senso, se non si poteva vivere collaborando alla costruzione di qualcosa di grande. E così aveva venduto ciò che rimaneva di una casa che era appartenuta a sua nonna, distrutta dal terremoto, e con quello che aveva ricavato aveva deciso di finanziare l’informazione

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