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La stagione dell'angelo
La stagione dell'angelo
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Ebook148 pages2 hours

La stagione dell'angelo

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About this ebook

Un’anziana e solitaria signora che non ha più niente da chiedere alla vita. Una ragazza inquieta e in cerca di se stessa. Il caso, un foulard volato via da una finestra. Un condominio anonimo. Una grande città sempre in bilico tra indifferenza e solidarietà. Un legame improbabile che diventa un dono inatteso, uno scambio prezioso tra due donne alle prese con due differenti stagioni della vita.
E un angelo senza ali. Un angelo dei tempi nostri, di quelli che suonano al citofono e picchiano sui vetri.
Pur analizzando lucidamente il dramma della solitudine e dell’abbandono, Il nuovo romanzo di Rosalia Messina non rinuncia a trasmettere un messaggio di condivisione e di speranza. 
LanguageItaliano
Release dateJan 21, 2021
ISBN9791220249805
La stagione dell'angelo

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    La stagione dell'angelo - Rosalia Messina

    I libri rossi

    22

    I Rubini

    Storie di oggi

    ROSALIA MESSINA

    La stagione dell’angelo

    ChiPiùNeArt Edizioni S.r.l.s.

    W www.chipiuneartedizioni.eu

    E chipiuneartedizioni@chipiuneart.it

    ChiPiùNeArt Edizioni - I libri Rossi - 2020

    L.go Don Gino Ceschelli 11, Roma

    I Edizione cartacea Dicembre 2020

    I Edizione digitale Gennaio 2021

    UUID: 7e2e5c30-4f44-11eb-8404-0800200c9a66

    Grafica: Samanta Montacchiesi

    Immagine di copertina: All’ombra di Montmartre di Enrico Piccinini

    Chi non trova il paradiso quaggiù

    non lo troverà neanche in cielo.

    Gli angeli stanno nella casa accanto alla nostra

    ovunque noi siamo.

    Emily Dickinson

    Le citazioni dell’Antologia di Spoon River sono tratte dall’edizione Einaudi del 1970, a cura di Fernanda Pivano. I versi di Pablo Neruda sono tratti da Poesie di una vita, ed. digitale Guanda, 2018

    I

    È un’estate molto calda

    È un’estate molto calda. Devo tenere tutto il giorno il ventilatore acceso. E anche la notte, perché l’aria è ferma ferma, nemmeno un alito di vento. Dalle finestre che danno sul cortile interno tengo d’occhio le altre case del palazzo: dappertutto serrande abbassate e piante mezze morte. Ci siamo solo io e la vecchia del quinto piano. Grazia mi fa notare con un bel sorriso che vecchie ormai siamo tutte, ma non le rispondo, lo so da me che sono vecchia pure io. E mica è un insulto, vecchia. È una seccatura della vita che tocca a tutti quelli che non hanno la fortuna di morire da giovani, magari intorno ai cinquanta. Che bella età, quella, mi sentivo ancora così energica a cinquant’anni, forse anche cinquantacinque. Ma, anche se mia sorella è tanto cara e affettuosa e mi vuole bene, non sempre mi piace parlare con lei dei miei pensieri segreti. Me li tengo stretti nella testa e li penso quando sto da sola e anche, certe volte, quando sono in compagnia; e cioè quasi mai, praticamente vedo solo lei, Grazia. Mi piace scapparmene via con la testa, sono diventata così con l’età e le disgrazie, una persona solitaria e chiusa.

    Come ogni anno, uno dopo l’altro, sono partiti tutti. Fino al 13 agosto c’era anche la famiglia del secondo piano, quella con i due gemelli. Sentivo la madre – una che forse nemmeno arriva a trentacinque anni, lunga e secca e agitata – strillare tutto il giorno, Matteeeeeooooo, Pierpaaaaaaaolooooo; ora invece c’è un gran silenzio, una pace. Peccato per questo caldo afoso, non riesco quasi a mangiare e bevo tanta acqua. A Bologna è sempre così, d’estate.

    Evito di uscire da casa, tutti i giorni mia sorella passa nel pomeriggio a portarmi qualcosa di cucinato o di facile da preparare. Lo sa che non esco quando fa caldo, non ce la faccio. Lei, Grazia, non soffre il caldo e non soffre il freddo, è resistente come l’acciaio. Non si ferma mai per molto tempo, una mezz’oretta al massimo; ma d’altra parte sono così poco ospitale, così silenziosa, di solito.

    Faccio scappare tutti, da un po’ di tempo a questa parte mi viene in mente che dev’esserci sempre stato qualcosa in me che fa allontanare la gente. Da quale tempo, cosa dico? Il tempo è diventato strano, ma forse no, sono strana io che non riesco a stargli appresso, che giorno è, che mese è questo? Non ero mica così, una volta stavo con i piedi belli piantati a terra, sapevo tutto quello che si doveva sapere, l’anno e il mese e il giorno e le scadenze, chi l’avrebbe detto che sarei diventata una testa persa, una svagata? Come certe clienti ricche di quando ancora cucivo, quando ancora non avevo disimparato quasi tutto, come si cuce, come si prega, come si cucina, come si tira a lucido la casa… E ne avevo, di clienti nervose, con la sigaretta sempre in mano che poi neppure la fumavano, serviva per agitarla in aria mentre parlavano, chiedevano se mi dispiaceva che fumassero e mi dispiaceva sì, i tessuti prendevano odore di fumo, ma ero educata e garbata io, allora lo ero sul serio, e dicevo di no e poi mettevo la roba a prendere aria vicino alle finestre. Sì, questa è città di finestre, balconi pochi e piccoli. Io ho quello dal lato della cucina, dove una volta riuscivo a far crescere il basilico, la menta e la salvia, il prezzemolo no, non sa di niente e non lo uso. Adesso ci sono vasi vuoti e terra secca.

    Grazia ripone i cibi nel frigorifero e nella dispensa, è così ordinata, certe volte beve un bicchiere d’acqua, chiede come sto e se ne va. Ha sempre fretta; ha famiglia, lei, e deve occuparsene. Non è libera come me, che ho tutta la giornata vuota, senza impegni. Pure io, prima, avevo tante cose da fare e poco tempo per pensare. Era tutto diverso quando Gino ancora non se n’era andato e nostra figlia viveva qui, anche se a casa, la mia Erica, dai quindici anni in poi, è sempre stata poco. Usciva a tutte le ore e tornava al mattino, certe volte, quando gli altri, le persone normali, iniziano la loro giornata.

    Io lavoravo qui, in casa. Orli, cerniere, accorciavo e allargavo e stringevo abiti, mettevo toppe ai gomiti delle felpe dei ragazzini, qualche volta pure alle ginocchia delle tute. Veniva tutto il vicinato, mi facevo pagare il giusto ed ero puntuale, se dicevo un giorno e un’ora per la consegna, a quel giorno e quell’ora, cascasse il mondo, i clienti trovavano pronto il loro capo. Anche stirato e sistemato nella carta velina, come avevo imparato quando lavoravo dalla Gianna, in via Farini, prima di sposarmi, e allora facevo ben altro che orli e cerniere e riparazioni da nulla, lì all’atelier tagliavo e cucivo giacche e pantaloni, abiti da donna e gonne, pure le camicie sapevo fare. Anche nei primi anni di matrimonio, prima che nascesse Erica, continuai a lavorare fuori casa. Poi, per qualche tempo, feci solo la moglie e la mamma.

    «Beata te» diceva Grazia «goditi questo periodo, vedrai com’è complicato quando riprendi il lavoro.»

    Durò poco, quando la bambina compì un anno ricominciai. Solo con i miei lavoretti a casa, però. La Gianna insisteva per farmi tornare all’atelier, anche solo per mezza giornata, diceva. Mi ha pregato tanto, insisteva e insisteva. Mi faceva la corte, sdolcinata e con quella voce miagolosa, come un innamorato con una femmina che fa la scontrosa. Diceva tante cose, la Gianna: che poi la bambina sarebbe cresciuta e mi sarei annoiata, senza nulla da fare e con la casa vuota. E chissà che ne sapeva lei, con un amante sposato, tre gatti e una casa enorme, piena di mobili antichi e tende e tappeti, domestica con il grembiulino bianco e la crestina, lei che figli non ne aveva avuti e aveva lavorato sempre, cominciando a imparare il mestiere da una sarta rinomata e poi man mano era cresciuta in bravura, oltre che in età, e quando aveva aperto l’atelier aveva dato un grande dispiacere alla sua datrice di lavoro. Quasi tutte le clienti avevano tradito la vecchia sarta ed erano andate a farsi cucire gli abiti dalla Gianna; e dicono che dopo un po’ quell’altra, poveretta, non ricordo come si chiamasse, un nome pomposo come usano qui, tipo Adalgisa - ma non era Adalgisa però, Regina forse, non so, i nomi scappano dalla mia testa, come le persone dalla mia vita - era morta di dolore. Che esagerazione, mi sono sempre sembrate chiacchiere da pettegole con la lingua lunga e la testa vuota. Si muore di dolore per la clientela che si disperde? Ma che stupidata. Per il tradimento dell’allieva preferita? Bah, non mi sembra roba da perderci il senno. Non sono morta io, che non vedo Erica da non so più quanti anni, e ora pure Gino se n’è andato… E insomma, Gianna parlava della casa che si svuota quando i figli se ne vanno e io non l’ho ascoltata e non sono tornata all’atelier, non mi piaceva stare tanto tempo lì e poi correre a sbrigare le faccende e cucinare e andare a prendere la bimba a scuola, sono sempre stata un tipo tranquillo, che fa le cose mettendoci il tempo che ci vuole, senza arrunzare, come si dice giù, al paese mio, cioè senza fare le cose malamente, in fretta e senza cura. E poi che sciocchezze, pensavo, come sarebbe stato possibile che diventassi una sfaccendata, nella mia vita? Mai stata pigra, io, mai, mai prima di adesso. Altroché se avevo sempre da fare, anche quando Erica diventò grandetta e poi adulta. Dovevo continuare a badare a Gino, mettere qualcosa in tavola a pranzo e a cena, tenere in ordine queste tre stanze, fare il bucato, stirare. Mi bastavano gli orli e le altre riparazioni che facevo senza muovermi da casa, tutto il quartiere mi portava la roba da sistemare. E quanti complimenti, ma che brava, ma che svelta, ma come rifinisce bene la Betta. Mi hanno fregata i complimenti, nella vita, perché mi è sempre piaciuto essere approvata e mi sono sempre sfinita, ho sempre fatto più di quello che dovevo pur di sentirmi dire brava da tutti, parenti e clienti.

    Adesso sono libera, non aspetto più nulla, solo che arrivi Grazia, al pomeriggio, con il cibo che deve bastarmi fino al pranzo del giorno dopo. E lei si presenta sempre con il portamangiare pieno e i sacchetti con un paio di panini e due o tre frutti, un cespo di insalata, e io ormai non ho più paura di dire a me stessa che non me ne importa poi granché della sua persona; sono diventata cattiva, con il cuore freddo, e però non mi sento colpevole. M’interessano solo la mia cena, il mio pranzo del giorno dopo. Lei posa i contenitori pieni e ritira quelli vuoti, glieli faccio trovare già lavati e asciugati e richiusi, sempre nello stesso punto sul tavolo. E si porta via anche la spazzatura, i sacchetti belli ordinati dell’umido e dell’indifferenziato. Plastica, carta, lattine e vetro solo nei giorni giusti, lei sta ancora dietro a queste cose; ogni tanto però il Comune le cambia, io non ho più testa per ricordare roba complicata. Mi accompagna lei a prendere un po’ di soldi alla Posta, meno male che ho sempre risparmiato, messo da parte per i tempi duri, prendo una piccola pensione e insomma, in qualche modo me la cavo. Mia sorella si prende una cinquantina di euro al mese per farmi la spesa e non mi fa mancare nulla del poco che mi serve. Cibo, saponi e detersivi, perché io pulisco ancora la casa, non come un tempo che doveva brillare tutto, però non vivo nella zozzeria. Siamo state educate bene, io e mia sorella, come due ragazze ammodo, assennate, mamma diceva garbate, per lei era il più grande complimento che si potesse fare a una donna.

    Grazia ha tre figli e ha sempre lavorato come bidella in una scuola elementare, che ora si dice in un modo diverso ma noi continuiamo a dire bidella. Noi non

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