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Mai più parate: Parade's End II
Mai più parate: Parade's End II
Mai più parate: Parade's End II
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Mai più parate: Parade's End II

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About this ebook

Siamo nei mesi più bui della Prima Guerra Mondiale: Christopher Tietjens è di stanza in Francia, lontano dalle prime linee ma alle prese con la disorganizzazione delle truppe e con i drammi dei soldati al suo comando.
La mente di Christopher è però assorbita anche da un’altra guerra, quella con la crudele moglie Sylvia. Di lei ha notizie solo tramite le riviste patinate, finché la donna, nell’estremo tentativo di nuocere al marito, non si presenta all’accampamento, provocando una reazione a catena per la fragile posizione di Tietjens.
Se “Alcuni no…” poneva le basi dello sconvolgimento rappresentato dalla guerra per l’individuo e la collettività, il secondo volume della tetralogia ci mette davanti a un mondo e a una vita che non saranno più quelli di prima, e perciò non potranno esserci “mai più parate” di nessun tipo.
LanguageItaliano
Release dateJan 16, 2021
ISBN9791280243041
Mai più parate: Parade's End II
Author

Ford Madox Ford

Ford Madox Ford (1873-1939) was an English novelist, poet, and editor. Born in Wimbledon, Ford was the son of Pre-Raphaelite artist Catherine Madox Brown and music critic Francis Hueffer. In 1894, he eloped with his girlfriend Elsie Martindale and eventually settled in Winchelsea, where they lived near Henry James and H. G. Wells. Ford left his wife and two daughters in 1909 for writer Isobel Violet Hunt, with whom he launched The English Review, an influential magazine that published such writers as Thomas Hardy, Joseph Conrad, Ezra Pound, and D. H. Lawrence. As Ford Madox Hueffer, he established himself with such novels as The Inheritors (1901) and Romance (1903), cowritten with Joseph Conrad, and The Fifth Queen (1906-1907), a trilogy of historical novels. During the Great War, however, he began using the penname Ford Madox Ford to avoid anti-German sentiment. The Good Soldier (1915), considered by many to be Ford’s masterpiece, earned him a reputation as a leading novelist of his generation and continues to be named among the greatest novels of the twentieth century. Recognized as a pioneering modernist for his poem “Antwerp” (1915) and his tetralogy Parade’s End (1924-1928), Ford was a friend of James Joyce, Ernest Hemingway, Gertrude Stein, and Jean Rhys. Despite his reputation and influence as an artist and publisher who promoted the early work of some of the greatest English and American writers of his time, Ford has been largely overshadowed by his contemporaries, some of whom took to disparaging him as their own reputations took flight.

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    Book preview

    Mai più parate - Ford Madox Ford

    Parte prima

    I.

    Quando si entrava in quello spazio era sgangherato, rettangolare, caldo dopo lo stillicidio della notte d’inverno, e permeato da una polverina scura arancione e marrone che era luce. Aveva la forma di una casa disegnata da un bambino. Tre gruppi di membra brune macchiate d’ottone ricevevano fiochi fasci di luce che venivano da un secchio bucato, pieno di carbon coke incandescente, e ricoperto da una lamiera di ferro a formare un tunnel. Due uomini, come fossero gerarchicamente più piccoli, stavano rannicchiati in terra accanto al braciere; quattro, due per ogni uscita dalla baracca, stavano afflosciati su due tavolini, in atteggiamento di estrema indifferenza. Dalla grondaia sopra il parallelogramma nero che era il vano della porta cadevano intermittenti gocce di varia umidità, persistenti, con intervalli di suoni musicali come di vetro. I due uomini sui bracieri seduti sui talloni – erano stati minatori – avevano cominciato a parlare in una bassa cantilena dialettale, appena udibile. Andavano avanti ininterrottamente, monotoni, senza animarsi. Era come se uno raccontasse all’altro lunghe lunghe storie a cui il compagno dimostrava comprensione e compassione con grugniti animaleschi...

    Un immenso vassoio da tè, maestoso, la cui voce colmò tutto il cerchio nero dell’orizzonte, rotolò a terra. Numerosi pezzi di lamiera dissero «pac, pac, pac». Un minuto dopo il pavimento d’argilla della baracca cominciò a tremare, i timpani subirono una pressione dall’esterno, solidi fragori si rovesciarono sull’universo, echi spaventosi spinsero quegli uomini – a destra, a sinistra, o giù verso le tavole, e un crepitare come di fiamme nel vasto sottobosco divenne la condizione stabile della notte. Ricevendo luce dal braciere su cui era piegata la testa, le labbra di uno dei due uomini accoccolati in terra erano incredibilmente rosse e turgide e seguitavano a parlare e a parlare...

    I due uomini a terra erano minatori gallesi, uno di essi veniva dalla Vallata di Rhondda ed era scapolo; l’altro, di Pontardulais, aveva una moglie che gestiva una lavanderia, visto che lui aveva smesso di andare sotto terra appena prima della guerra. I due uomini seduti davanti al tavolino a destra della porta erano sergenti-maggiori; uno veniva dal Suffolk e aveva sedici anni di anzianità come sergente in un reggimento di fanteria. L’altro era un canadese di origini inglesi. I due ufficiali all’altro lato della baracca erano capitani: uno era un giovane ufficiale effettivo nato in Scozia ma educato a Oxford; l’altro, quasi di mezza età e corpulento, veniva dallo Yorkshire, e stava in un battaglione della milizia. Uno dei due che stavano in terra era al colmo della rabbia perché l’ufficiale più anziano gli aveva rifiutato una licenza per andare a casa a vedere per quale motivo sua moglie, che aveva venduto la loro lavanderia, non aveva ancora ricevuto il denaro dall’acquirente; l’altro pensava a una mucca. La sua ragazza, che lavorava in una fattoria di montagna sopra Caerphilly, gli aveva scritto di una strana mucca: era di razza dello Holstein, bianca e nera – davvero una strana mucca. Il sergente-maggiore inglese era preoccupato fin quasi alle lacrime per il forzato ritardo della partenza del loro contingente. Sarebbe venuta la mezzanotte prima che fosse stato possibile metterli in marcia. Non era giusto tenere degli uomini a non far nulla in quel modo. Agli uomini non piaceva star lì ad aspettare, senza far nulla. Li rendeva insoddisfatti. Agli uomini non piaceva. Non capiva perché il quartiermastro al deposito non teneva sempre pronto il rifornimento delle candele per le lanterne cieche. Gli uomini non avevano l’obbligo di star lì ad aspettare, senza far nulla. Fra poco bisognava dargli la cena. Al quartiermastro non sarebbe piaciuto. Avrebbe brontolato di sicuro. Dovendo distribuire il rancio. Avrebbe dovuto fare una requisizione. Avrebbe dovuto tirar fuori i conti, altro che. Duemilanovecentonovantaquattro cene a un penny e mezzo l’una. Ma non era giusto tenere gli uomini senza far nulla fino a mezzanotte, e senza cena. Li rendeva insoddisfatti e quelli andavano al fronte per la prima volta, poveri diavoli.

    Il sergente maggiore canadese era preoccupato per un taccuino in pelle di cinghiale. L’aveva comprato in città, al deposito dell’artiglieria. Si era immaginato di tirarlo fuori in parata, per leggere un rapporto o l’altro all’aiutante di campo. Sarebbe stato molto bello, in parata, vederlo così, alto e diritto. Ma non gli riusciva di ricordare se l’aveva messo nello zaino. Addosso non l’aveva. Si tastò la tasca di destra e quella di sinistra sul petto, e la tasca di destra e di sinistra sui fianchi, e tutte le tasche del soprabito che era appeso a un chiodo, dietro alla sua sedia. Non era per nulla sicuro che quello che gli faceva da attendente avesse messo il taccuino nello zaino con tutto il resto, per quanto dichiarasse di averlo fatto. Era molto seccante. Il portafogli che aveva ora, comprato a Ontario, era gonfio e spaccato. Non gli piaceva tirarlo fuori quando degli ufficiali imperiali gli chiedevano qualcosa da un rapporto o l’altro. Dava un’idea falsa delle truppe canadesi. Molto seccante. Faceva il banditore. Era d’accordo che a questo punto sarebbe stata l’una e mezzo prima che il reparto fosse pronto e sul treno, giù alla stazione. Ma era molto seccante non sapere con certezza se quel taccuino era stato messo nello zaino oppure no. Aveva immaginato di fare una bella impressione in parata, così alto e dritto, quando avrebbe tirato fuori quel taccuino perché l’assistente di campo voleva sapere una cifra da un rapporto o l’altro. Aveva saputo che i loro aiutanti di campo, ora che erano in Francia, sarebbero stati ufficiali imperiali. Era molto seccante.

    Un enorme fragore disse cose d’insopportabile intimità a ognuno di quegli uomini, e a tutti loro insieme come corpo. Dopo quel rigurgito mortale tutti gli altri rumori sembrarono un impetuoso silenzio, doloroso per le orecchie nelle quali il sangue pulsava udibilmente. Il giovane ufficiale si alzò in piedi con violenza e sbrogliò le complicazioni del suo cinturone appeso a un chiodo. Il più vecchio, di là dal tavolino, steso di sbieco, allungò una mano con un gesto all’ingiù. Era consapevole che il più giovane, che era l’ufficiale anziano, era fuori di testa. Il più giovane, insopportabilmente stanco, diceva parole secche, ingiuriose, inudibili al compagno. Il più anziano diceva anche lui parole secche, brevi, inudibili, e seguitava a fare contro la tavola gesti all’ingiù. Il vecchio sergente-maggiore inglese disse al suo subalterno che il capitano Mackenzie aveva di nuovo una delle sue crisi, ma le sue parole non si udivano e lo sapeva. Sentì sorgere, nel suo cuore materno che in quel momento si struggeva per la sorte di duemilanovecentonovantaquattro poppanti una necessità, quasi una fatica, di estendere la materna premura delle sue funzioni all’ufficiale. Disse al canadese che il capitano Mackenzie, che in quel momento era temporaneamente fuori di sé, era il miglior ufficiale dell’esercito di Sua Maestà. E si stava rendendo ridicolo. Il miglior ufficiale dell’esercito di Sua Maestà. Nessuno era meglio di lui. Premuroso, elegante, coraggioso come un eroe. E pieno di riguardo per i suoi uomini al fronte. Da non credersi... Sentiva vagamente che era faticoso fare da madre a un ufficiale. A un caporale, o a un giovane sergente, se cominciava a dare di testa si poteva bisbigliargli qualche consiglio tra i baffi. Ma a un ufficiale bisognava dire le cose alla larga. Era difficile. Grazie a Dio avevano nell’altro capitano un elemento fidato e sicuro. Vecchio e buono, come diceva il proverbio.

    Seguì un silenzio di morte.

    «Hanno perso il..., accidenti», il corriere di Rhondda fece sentire la sua voce all’improvviso. Vivaci illuminazioni guizzavano sulla facciata delle baracche visibili dalla porta.

    «Non c’è motivo», mugolava il suo compagno di Pontardulais nella cantilena nativa, «che quei riflettori maledetti, santoddio, ci illuminino tutti, perché... gli aerei ci vedano tutti. Voglio rivedere la mia dannata baracca laggiù a quel dannato di Mumbles, anche se non mi danno il permesso».

    «Smetti di imprecare, Zero Nove Morgan», disse il sergente-maggiore.

    «Forza, Morgan, hai capito?», seguitava a dire il compagno di Zero Nove Morgan, «dev’essere stata una strana vacca, comunque. Una Holstein bianca e nera...»

    Fu come se il capitano più giovane smettesse di ascoltare quel che dicevano. Posò le due mani sulla coperta che era stesa sulla tavola. Esclamò: «Chi diavolo sei per darmi ordini? Sono il tuo superiore. Chi diavolo... Oh, per Dio, chi diavolo... Nessuno dà ordini a me...» La voce gli si afflosciò debole nel petto. Si sentì le narici straordinariamente dilatate così che l’aria che entrava dentro era fredda. Sentiva che c’era un’intricata cospirazione contro di lui, e tutt’attorno a lui. Esclamò: «Voi e quel... ruffiano del generale...!» Aveva voglia di tagliare certe gole con un coltellaccio ben affilato da trincea che aveva con sé. Si sarebbe tolto un peso dal cuore. Un «Seduto!» dalla pesante figura che gli stava ammucchiata davanti gli paralizzò gli arti. Provava un odio incredibile. Se avesse potuto muovere la mano e afferrare quel coltellaccio...

    Zero Nove Morgan disse: «Il nome del... che s’è comprata quella maledetta lavanderia è Williams... Se avessi saputo che è Evans Williams di Castell Goch avrei disertato».

    «Ha preso in odio il vitello», disse quello di Rhondda. «E badate, prima di poter dire...»

    La conversazione degli ufficiali era una cosa che non ascoltavano neppure. Gli ufficiali parlavano di cose senza interesse. Che mai poteva esser preso a quella vacca per odiare il suo vitello? Lassù, in montagna, dietro Caerphilly? La mattina d’autunno tutto il versante della collina era coperto di ragnatele. Brillavano al sole come vetroresina. Bisognava sorvegliarla, la vacca.

    Il giovane capitano chino sulla tavola cominciò una lunga discussione sull’anzianità relativa. Discuteva con se stesso, e prendeva le due parti in un borbottio straordinariamente rapido.

    Lui era stato promosso dopo Gheluvelt. L’altro, meno di un anno più tardi. Era vero che l’altro comandava in permanenza quel deposito, e che lui era aggregato a quell’unità soltanto per l’approvvigionamento e la disciplina. Ma questo non includeva l’ordine di stare seduto. Che diavolo voleva dire, l’altro, lo voleva proprio sapere. Cominciò a parlare, sempre più svelto, a proposito d’un cerchio. Quando la sua circonferenza sarebbe stata compiuta per la disintegrazione dell’atomo, il mondo sarebbe giunto alla fine. Entro il millennio non ci sarebbe più stato da dare o ricevere ordini. Certo, avrebbe obbedito agli ordini fino ad allora.

    All’ufficiale anziano, gravato dal comando di un’unità di proporzioni irragionevoli, con un quartier generale raffazzonato di subalterni inutili che venivano continuamente cambiati, con tutti sottufficiali che non avevano voglia di far nulla, con soldati semplici quasi tutti coloniali che non avevano l’abitudine di adattarsi a far a meno di questo o quello e con un deposito da tirar avanti il quale, essendo di vecchio impianto, sentiva di appartenere esclusivamente a un’unità britannica regolare e non era mai disposto a tirar fuori qualcosa, bastavano già largamente le difficoltà da affrontare quotidianamente, e poi aveva delle faccende private molto penose. Era uscito da poco dall’ospedale; la baracca foderata di tela di sacco in cui viveva, presa in prestito dall’ufficiale medico del deposito attualmente in licenza in Inghilterra, era d’un calore soffocante con la stufa a paraffina sempre accesa, e insopportabilmente fredda e umida senza di essa; l’attendente che l’ufficiale medico aveva lasciato a custodire la baracca sembrava un mezzo idiota. Quelle incursioni aeree tedesche erano diventate, ormai, continue. La base era gremita di uomini, stavano stretti come sardine. Giù in città le strade erano così affollate che non c’era posto per muoversi. Le unità distaccate presso quella base avevano l’ordine di tenere gli uomini il più possibile al coperto. I reparti dovevano partire soltanto di notte. Ma come si faceva a far partire delle truppe di notte quando ogni dieci minuti si avevano due ore di oscuramento a causa di un’incursione aerea? Per ogni uomo ci volevano nove blocchetti di moduli e di cartellini che dovevano essere firmati da un ufficiale. Era giustissimo che quei poveri diavoli fossero ben documentati. Ma come si poteva fare? Aveva duemilanovecentonovantaquattro uomini da mandare fuori quella notte, e nove volte duemilanovecentonovantaquattro fa ventiseimilanovecentoquarantasei. Non volevano o non potevano concedergli una macchinetta punzonatrice solo per lui, ma come doveva fare l’armiere del deposito a punzonare cinquemilanovecentottantotto dischi d’identità oltre al suo solito lavoro?

    L’altro capitano sproloquiava davanti a lui. A Tietjens non piaceva quel discorrere del cerchio e del millennio. Ti allarmi, se hai un po’ di buon senso, ad ascoltare certe cose. Può essere l’inizio di uno squilibrio cronico e pericoloso... Ma lui non sapeva nulla di quel tizio. Forse, era troppo bruno; troppo bello, troppo appassionato, per essere un buon ufficiale effettivo nei confronti suoi. Ma doveva essere un buon ufficiale: aveva una fibbia con il Distinguished Service Order, la Military Cross, e anche qualche nastrino estero. E il generale l’aveva detto: e aveva aggiunto come informazione supplementare che era un latinista laureato... Chissà se il generale Campion sapeva che cosa voleva dire essere un latinista laureato? Forse no, ma s’era appuntato l’informazione come un capo tribù si fregia di un ornamento barbaro. Voleva dimostrare che lui, il generale Lord Edward Campion, era uomo di cultura. Non si poteva mai sapere dove sarebbe esplosa la vanità.

    Quell’individuo, dunque, era troppo bruno e troppo bello per essere un buon ufficiale: eppure era un buon ufficiale. Questo spiegava tutto. La repressione della passione fa diventare pazzi. Doveva essere stato sobrio, disciplinato, paziente, perfettamente controllato fin dal 1914 – contro uno sfondo di fuoco infernale, di zuffe, di sangue, di fango, di vecchi bidoni... E l’ufficiale anziano aveva, infatti, una visione del più giovane come nell’abbozzo di un ritratto a grandezza naturale – per qualche ragione con le gambe larghe, contro uno sfondo di tappezzeria scarlatta di fuoco e ancora più scarlatta di sangue... Sospirò un poco; era la vita di tutti quei milioni...

    Gli sembrava di vedere il suo reparto: duemilanovecentonovantaquattro uomini dei quali aveva assunto il comando da un paio di mesi – un bel po’ di tempo per come andava la vita – uomini sui quali lui e il sergente-maggiore Cowley avevano vegliato con moltissima tenerezza, soprintendendo alla loro moralità, al loro morale, ai loro piedi, alla loro digestione, alla loro impazienza, al loro desiderio di donne. Gli sembrava di vedere che si snodavano su una gran distesa di campagna, e la testa della colonna si buttava giù pian piano, come al giardino zoologico si vede un immenso serpente che piano piano si lascia scivolare giù nella sua cisterna... Sistemarsi quaggiù, lontano lontano, contro l’invalicabile barriera che avanzava dal profondo della terra alla vetta del cielo...

    Sconforto intenso; infinito disordine; infinite pazzie; infinite scelleratezze. Tutti quegli uomini abbandonati nelle mani degli intriganti più cinicamente imprudenti che brulicano nei lunghi corridoi per ordire complotti che straziavano il cuore del mondo. Tutti questi uomini giocattoli: tutti questi tormenti mere occasioni per frasi pittoresche da includere in discorsi di politicanti senza cuore e neppure intelligenza. Centinaia di migliaia di uomini sbatacchiati qua e là in quella squallida e gigantesca fanghiglia marrone del mezz’inverno... perdio, proprio come ghiande maliziosamente raccolte e lanciate oltre la spalla da gazze ladre... Ma uomini. Non soltanto popolazioni. Uomini di cui ci si preoccupava adesso. Ogni uomo un uomo con spina dorsale, ginocchia, pantaloni, bretelle, fucile, casa, passioni, fornicazioni, ubriacature, compagni, un’immagine dell’universo, calli, malanni ereditari, commercio d’ortolano, negozio di lattaio, edicola di giornali, marmocchi, moglie sgualdrina... Gli Uomini: la Bassa Forza! E i poveri... piccoli ufficiali. Dio li aiuti. Latinisti laureati...

    Quel particolarmente disgraziato... latinista sembrava contrario al rumore. Avrebbero dovuto tenere quel luogo silenzioso per lui...

    Perdio, aveva perfettamente ragione. Quel luogo doveva essere adibito a una preparazione silenziosa e metodica di carne da macello. Distaccamenti! Una Base è un luogo in cui si medita: forse ci si dovrebbe pregare: un luogo in cui i Tommy dovrebbero scrivere in pace le loro ultime lettere a casa e descrivere come i cannoni bubolano orribilmente.

    Ma ammassare un milione e mezzo di uomini dentro e attorno una piccola città era come mettere in una trappola da topi un gran pezzo di carne marcia. Gli aeroplani degli unni lo sentivano a cento miglia di distanza. Facevano più danno lì che bombardando un quartiere di Londra fino a ridurlo in polvere. E la contraerea lì era uno scherzo: uno scherzo folle. Sputavano fuori migliaia di scariche da ogni tipo di pezzo d’artiglieria come scolaretti che bombardino a sassate i topi di una fogna. È ovvio che gli uomini più addestrati stanno alla contraerea piazzata attorno alla metropoli. Ma questo non era uno scherzo per chi lo subiva.

    Una pesante depressione lo schiacciava, ancora più pesantemente. La sfiducia del ministero, sentita ormai dalla maggior parte dell’esercito, diventava un dolore fisico. Quegli immensi sacrifici, quell’oceano di sofferenze mentali, tutto subìto per secondare le personali vanità di uomini che, in quell’enormità di paesaggi e di forze, sembravano pigmei! Erano i tormenti di tutti quei milioni a mollo nel fango marrone a tormentarlo. Potevano morire, essere massacrati, a centinaia di migliaia, al macello. Ma che fossero massacrati senza slancio, senza fiducia, con la fronte aggrottata: senza parate...

    Non sapeva proprio nulla dell’ufficiale che gli stava davanti. Apparentemente si era fermato in attesa della risposta a una domanda. Quale domanda? Tietjens non ne aveva idea. Non era stato ad ascoltare. Un pesante silenzio cadde sulla baracca. Aspettavano. Il tizio disse, con intonazione di odio: «Beh, che c’entra? Questo voglio sapere!»

    Tietjens riprese a riflettere... C’erano tanti tipi di pazzia. Questa di che tipo era? Quel tizio non era ubriaco. Parlava come un ubriaco, ma non era ubriaco. Ordinandogli di sedersi, Tietjens aveva fatto solo un tentativo. C’erano dei pazzi il cui momentaneo subcosciente risponde a un ordine militare come se fosse magico. Tietjens si ricordò di aver gridato: «Alt... dietrofront» a un povero pazzo in un campo d’Inghilterra e quello, che era passato al galoppo davanti alla sua tenda, brandendo una baionetta nuda mentre i suoi inseguitori erano dietro a lui, a cinquanta metri di distanza, s’era fermato di botto, sugli attenti, battendo i tacchi come un ufficiale della guardia. Ci aveva provato con questo in mancanza d’un espediente migliore. A quanto pareva, aveva funzionato a intermittenza. Si arrischiò a dire: «Che c’entra che cosa?»

    L’uomo disse, quasi ironico: «Sembra che non sono degno di essere ascoltato da vostra altezza e potenza. Ho detto: Che ne è di quel sudicio imboscato dello zio? È il vostro schifoso miglior amico».

    Tietjens disse: «Il generale è vostro zio? Il generale Campion? Che cosa vi ha fatto?»

    Il generale gli aveva mandato quel tizio con un biglietto in cui pregava lui, Tietjens, di tener d’occhio un bravissimo ragazzo, ufficiale ammirevole, che faceva parte della sua unità. Il bigliettino era scritto a mano dallo stesso generale e conteneva l’informazione supplementare relativa alla prodezza scolastica del capitano Mackenzie... Tietjens aveva trovato strano che il generale si desse tanta pena per un qualsiasi ufficiale di fanteria che comandava una compagnia. Com’era possibile che quell’individuo fosse stato indotto a farsi notare da lui? Certo, Campion era di buon cuore, come qualsiasi altro uomo. Se un tizio, mezzo suonato, il cui stato di servizio dimostrava che era un ottimo uomo, fosse stato portato alla sua attenzione, Campion avrebbe fatto il possibile per lui. E Tietjens sapeva che il generale considerava lui, Tietjens, un individuo ponderato, pedante, capace di occuparsi di un suo protetto... Forse Campion s’immaginava che in quell’unità non avessero lavoro da fare: poteva diventare un effettivo reparto per alienati. Ma se Mackenzie era nipote di Campion la cosa si spiegava.

    Il pazzo esclamò: «Campion, mio zio! Macché, è vostro zio!»

    Tietjens disse: «Oh, no, non è mio zio». Il generale non era neppure suo parente, ma era stato il suo padrino e il più vecchio amico di suo padre.

    L’altro rispose: «Allora è proprio da ridere. Maledettamente sospetto... Perché s’interessa tanto a voi se non è il vostro dannato zio? Voi non siete il tipo del soldato... Un tascapane, ecco che cosa sembrate...» Si fermò, e poi proseguì molto in fretta: «Lassù al quartier generale dicono che vostra moglie tiene in pugno quello schifoso di generale. Non credevo che fosse vero. Non credevo che voi foste un tipo così. Ne ho sentite tante su di voi!»

    Tietjens scoppiò a ridere a quella pazzia. Poi, in quel buio scuro, uno spasimo intollerabile attraversò la sua pesante figura – lo spasimo intollerabile delle notizie di casa che giungevano a quegli uomini disperatamente occupati, il dolore provocato da catastrofi che accadevano al buio e a gran distanza. Non c’era nulla da fare per mitigarle!... La straordinaria bellezza della moglie dalla quale viveva separato – perché era straordinariamente bella! – poteva davvero aver provocato degli scandali se lei fosse penetrata nel comando, dal generale, come a una festa di famiglia! Finora, per grazia di Dio, scandali non ce n’erano stati. Sylvia Tietjens gli era stata atrocemente infedele, nel modo più doloroso. Non poteva esser certo che il figlio che adorava fosse suo... Non era un fatto insolito con donne straordinariamente belle – e crudeli! Ma lei era stata altezzosamente riservata.

    A ogni modo, tre mesi fa, s’erano separati... Oppure lui pensava che si fossero separati. L’ignoto quasi assoluto era calato sulla sua vita familiare. Ella gli apparve davanti così straordinariamente viva e chiara in quel buio scuro tanto da farlo rabbrividire: molto alta, molto bella, e perfino straordinariamente agile e linda. Purosangue! In una guaina di tessuto d’oro, tutta illuminata, con quella massa di capelli, anch’essi di tessuto d’oro, avvolti e riavvolti con due fasce sugli orecchi. I lineamenti erano molto netti e piuttosto esili; i denti bianchi e piccoli; i seni piccoli; le braccia magre, lunghe e sui fianchi, in posizione d’attenti... I suoi occhi, quando era stanco, avevano il vizio di riprodurre immagini sulla retina con estrema chiarezza, immagini talvolta di cose che egli pensava, talvolta di cose che gli stavano proprio nel fondo dei pensieri. Ebbene, stasera i suoi occhi erano molto stanchi! Lei guardava diritto davanti a sé, con un piccolo fremito ostile agli angoli delle labbra. Aveva appena trovato un modo di ferire terribilmente la silenziosa personalità di lui... La semichiarità diventò d’un azzurro luminoso, come un piccolo arco gotico, e gli uscì dalla visione, verso destra...

    Non sapeva nulla di dove fosse Sylvia. Aveva smesso di guardare i giornali illustrati. Aveva detto che sarebbe andata in un convento a Birkenhead – ma per due volte egli aveva visto fotografie sue. La prima la mostrava semplicemente con Lady Fiona Grant, figlia del Conte e della Contessa di Ulleswater – e un certo Lord Swindon, che si diceva futuro ministro della Finanza Internazionale – un nuovo Pari... Tutti e tre venivano dritti verso l’obiettivo nel cortile del castello di Lord Swindon... tutti e tre sorridenti!... La dicitura annunciava che la signora Tietjens aveva il marito al fronte.

    La fitta, però, era arrivata con la seconda fotografia – nella descrizione che ne forniva il giornale! Mostrava Sylvia ritta davanti a una panchina del parco. Sulla panchina, di profilo, tutto abbandonato nel fragore di una risata, un giovanotto col cilindro ben ficcato sul capo, che era gettato all’indietro mentre la mascella prognata puntava all’insù. La dicitura dichiarava che la signora Tietjens, il cui marito era in un ospedale del fronte, stava raccontando una bella storia al figlio ed erede di Lord Birgham! Un altro di quei pestilenziali, perversi giornali sovvenzionati da pari della finanza...

    Lo aveva colpito per un doloroso momento mentre guardava quella fotografia nella diroccata anticamera di una mensa dopo essere uscito dall’ospedale – che, a leggere quella dicitura, il giornale aveva voluto ferire Sylvia... Ma i giornali illustrati non feriscono le bellezze dell’alta società. Sono troppo preziose per i fotografi... Allora Sylvia doveva aver fornito l’informazione; desiderava provocare un commento per il contrasto tra i suoi ilari compagni e la dichiarazione che suo marito era in ospedale al fronte... Gli era venuto in mente che ella fosse sul sentiero di guerra. Ma se l’era fatto uscire dalla testa... Tuttavia, vivace miscuglio com’ella era di perfettamente retto, perfettamente temerario, perfettamente avventato, e generoso, perfino affettuoso – e di atrocemente crudele, niente poteva andarle più a genio del mostrare deciso disprezzo – no, non disprezzo! cinico odio – per suo marito, per la guerra, per l’opinione pubblica... perfino per gli interessi del loro bimbo!... Eppure, gli sovvenne, l’immagine di lei che aveva appena visto era stata l’immagine di Sylvia, sull’attenti, con la bocca lievemente vibrante, mentre leggeva le cifre segnate a fianco del lucido filamento di mercurio di un termometro... Il bambino aveva avuto, col morbillo, una grossa febbre che neppure allora gli piaceva ricordare. E – era stato nello Yorkshire, da sua sorella, e il medico locale non aveva voluto prendersi la responsabilità – ancora sentiva il calore di quel corpicino che era come una mummia; aveva coperto il capo e il viso con un panno di lana, perché non gli piaceva vederlo, e aveva immerso quel peso caldo, spaventoso e fragilissimo nella luccicante superficie di ghiaccio tritato nell’acqua... Lei era rimasta sull’attenti, e gli

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