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La prossima pandemia.: Conoscere il passato, capire il presente, progettare il futuro.
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Ebook194 pages2 hours

La prossima pandemia.: Conoscere il passato, capire il presente, progettare il futuro.

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La domanda non è "se", ma "quando": l'arrivo di una prossima pandemia è una certezza. Come sarà, e quando dovremo affrontarla, è invece impossibile da prevedere. Eppure dobbiamo prepararci a farlo: subito. Senza cedere al panico, il peggior compagno possibile che si possa scegliere in simili occasioni.
Il passato ci insegna molto: ma quando l'umanità si confronta con un nuovo agente patogeno, virus o batterio che sia, tutto diventa imprevedibile.
La conoscenza che abbiamo sviluppato nel tempo si scontra, nel presente, con abitudini di vita e modelli economici che ingigantiscono il rischio di contatto tra specie animali che non dovrebbero incontrarsi mai.
Passato e conoscenza ci possono aiutare a progettare un futuro nel quale essere pronti ad affrontare l'inevitabile, prossima pandemia. Ma per farlo con successo dobbiamo accettare due verità difficili da digerire: anche noi siamo animali, e spesso ci comportiamo come i virus.
LanguageItaliano
PublisherIlSole24Ore
Release dateJul 14, 2020
ISBN9788863457384
La prossima pandemia.: Conoscere il passato, capire il presente, progettare il futuro.

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    La prossima pandemia. - Mattia Losi

    Prefazione

    «No volveremos a la normalidad porque la normalidad era el problema». Ovvero: non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema. Questa frase, comparsa a fine marzo sulla facciata di un palazzo di Santiago del Cile, ha fatto rapidamente il giro del mondo e fotografa in modo esemplare la situazione nella quale ci siamo improvvisamente trovati con l’epidemia di Covid-19 causata dal nuovo Coronavirus. Noto anche come Sars-CoV-2: che significa Severe acute respiratory syndrome – Corona Virus – 2. Il numero 2 è stato inserito per distinguerlo dal suo parente più prossimo, il Sars-CoV, responsabile dell’epidemia che ha spaventato il mondo tra il 2002 e il 2003.

    Il genere umano sta affrontando da oltre sei mesi un nemico invisibile e sconosciuto: partito per quanto sappiamo da un pipistrello annidato in una foresta cinese, ma che per le sue caratteristiche avrebbe potuto arrivare da Marte o dalla galassia di Andromeda. Perché di fatto, per tutti noi, è come se fosse un extraterrestre: non lo conosciamo, non ne sospettavamo l’esistenza, non sappiamo come combatterlo.

    Siamo stati colti alla sprovvista, colpiti alle spalle, aggrediti senza preavviso. Stiamo organizzando le difese, cercando farmaci che sappiano bloccarlo, studiando un vaccino che lo renda inoffensivo. Insomma, stiamo reagendo come abbiamo visto fare più volte nei film che hanno rappresentato l’eterna battaglia tra uomini e virus: una lotta tra rivali decisi a distruggersi reciprocamente.

    Proprio qui, nel concetto di lotta, è nascosta l’insidia maggiore: tendiamo ad attribuire al nostro attuale avversario caratteristiche che in qualche modo lo umanizzano. Lo descriviamo come un killer, che ha come unico obiettivo quello di sterminarci ed eliminarci dalla faccia della Terra. Arriviamo ad attribuirgli un’intelligenza maligna, grazie alla quale adotta strategie di infezione davanti alle quali siamo quasi del tutto impotenti. Pensiamo che si nasconda, che si celi in agguato per colpirci all’improvviso senza lasciarci una via di scampo.

    Questo atteggiamento è figlio di una convinzione radicata e profonda, dalla quale non riusciamo a staccarci: tutto ruota intorno all’uomo, tutto è dipendente dal genere umano, tutto deve piegarsi alle nostre regole, alle nostre esigenze e ai nostri desideri. Ed è per questo motivo che tendiamo a rimodellare con una forma umana ogni cosa con cui veniamo in contatto, sia un essere vivente o meno, e a incanalarne le azioni secondo i nostri parametri comportamentali. Chiunque abbia o abbia avuto un cane sa benissimo di cosa stiamo parlando. Ma potremmo estendere il ragionamento a qualsiasi specie animale che abbia atteggiamenti o comportamenti che in qualche modo riconosciamo come nostri.

    Una femmina di criceto che accudisce amorevolmente i cuccioli è una brava mamma, ma diventa spietata e suscita il nostro disgusto quando li divora. In realtà non lo fa perché è malvagia, come più o meno inconsciamente tendiamo a pensare, ma perché sa perfettamente e in modo innato quanti sono i piccoli che potrà nutrire e che potranno sopravvivere, lasciando quelli in soprannumero e più deboli a un destino fatto di morte per mancanza di alimentazione. In qualche modo, divorando i cuccioli in eccesso, risolve il problema prima che si manifesti: esattamente come è stata in qualche modo programmata a fare dalla natura.

    Eppure i nostri percorsi mentali ci portano a desiderare una conclusione diversa: un po’ di latte per tutti, dividendo equamente il cibo disponibile. Proprio come farebbe una brava mamma della porta accanto.

    Questa umanizzazione del mondo in cui viviamo si estende anche al di fuori dal regno animale. Un vulcano che erutta distruggendo un villaggio diventa assassino, così come assassina è una diga che crolla causando un’inondazione. Una montagna sui cui versanti muoiono gli alpinisti che tentano invano di scalarla diventa la montagna maledetta: e la descriviamo proprio come un essere maligno impegnato ad attirare gli uomini in una trappola dalla quale è impossibile scappare.

    La prova di quanto questo atteggiamento pesi sul modo di guardare al di fuori dal nostro ambito ristretto la troviamo nella classifica che, senza accorgercene, compiliamo mettendo in ordine di importanza tutto quello che viene dopo l’uomo: gli animali, innanzitutto, e in particolare i mammiferi che consideriamo molto più vicini a noi. Poi gli uccelli e per ultimi i rettili e gli insetti, che sono i più difficili da riconoscere come nostri simili.

    Il mondo vegetale è nettamente subordinato, al punto che per molti di noi è quasi istintivo non considerare un albero come un essere vivente. Staccare un ramo, o strappare distrattamente delle foglie mentre stiamo conversando, fa parte della normalità. Ci sono molti studi interessanti condotti sulla capacità delle piante di reagire agli stimoli esterni, in particolare al dolore, in modo molto più umano di quanto siamo portati a credere. Ma poco importa, restano in fondo alla nostra classifica.

    La ricaduta principale di questo nostra forma mentis è che, così facendo, possiamo distribuire equamente le colpe di qualsiasi cosa su altri soggetti ai quali applichiamo i nostri stessi parametri. Un’ondata di piena o una colata di lava che distruggono case e uccidono persone ci portano immediatamente a individuarle come colpevoli dell’accaduto: senza interrogarci, almeno di primo acchito, sul fatto che magari quelle case non avrebbero dovuto assolutamente essere costruite in quel posto.

    Si tratta di un meccanismo psicologico di autodifesa, o per meglio dire di scarico delle responsabilità, che accompagna quasi tutti noi a livello personale nella vita quotidiana: la colpa è sempre di qualcun altro. Ed è un meccanismo che abbiamo saputo replicare a livello di genere con estrema efficacia. La frase che abbiamo citato all’inizio di questa prefazione non fa altro che costringerci a spostare l’attenzione dall’obiettivo esterno (la colpa è di un altro) a quello interno (e se fosse colpa nostra?).

    Nel caso di un virus e di un’epidemia non si tratta di cercare colpe in senso stretto, perché in fondo anche questo rappresenterebbe un atteggiamento di umanizzazione di un avvenimento. Ma sarebbe altrettanto sbagliato pensare che i nostri comportamenti non abbiano svolto un ruolo importante nel facilitare il manifestarsi dell’epidemia in corso, e delle molte altre che hanno costellato questo inizio del terzo millennio.

    La Sars nel 2002-2003, l’influenza suina nel 2009, la Mers nel 2012, l’influenza aviaria nel 2015 sono stati solo alcuni dei campanelli d’allarme che abbiamo più o meno consapevolmente ignorato. Il mondo è alle prese con molte malattie emergenti classificate dall’Oms come a rischio epidemico, ossia in grado di espandersi su larga scala nel prossimo futuro e contro le quali esistono solo limitate forme di controllo. Solo per citarne alcune possiamo ricordare Ebola, Chikungunya, la febbre emorragica di Marburg, la febbre di Lassa.

    Poi ci sono quelle come la tubercolosi, l’Aids, la malaria e la febbre Dengue, che invece rientrano in programmi di controllo e di ricerca a livello mondiale: sono quelle che in qualche modo riusciamo a contrastare in modo abbastanza efficace, ma non a sconfiggerle in modo definitivo.

    Rispetto a tutte queste, e alle molte altre malattie causate da agenti patogeni conosciuti, il Sars-Cov-2 è stato l’alieno che non ti aspetti. L’entità sconosciuta capace di fare il salto di specie, anzi il doppio salto di specie. Perché dal pipistrello il virus è passato a un’ospite intermedio, forse il pangolino: un simpatico animaletto squamoso, che assomiglia vagamente a un incrocio tra un armadillo e un formichiere, e che va per la maggiore sulle tavole cinesi nonostante i divieti ufficiali.

    Da lì, con una seconda evoluzione, ha spiccato il volo verso l’uomo: che in condizioni normali (a proposito di normalità o di quella che consideriamo tale) non avrebbe mai dovuto incontrare.

    Questa è la realtà con cui dobbiamo prendere contatto: il nuovo Coronavirus non è un killer spietato partito a caccia dell’uomo. Non ha come obiettivo la distruzione del genere umano, anzi per essere sinceri non ha alcun obiettivo che ci contempli in quanto protagonisti. E non è venuto a cercarci: siamo noi che ci siamo trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, dove non avremmo dovuto essere. Non è stata la sfortuna a metterci sulla sua strada, ma un nostro comportamento al di fuori delle regole di convivenza.

    Ci piaccia o meno i virus non sono nemici pronti ad assalirci, ma coinquilini talvolta pericolosi dai quali tenerci a distanza. Quando non lo facciamo, e in questo davvero siamo noi i protagonisti, le conseguenze possono essere imprevedibili. E talvolta letali. Vale per i virus come per altri agenti patogeni: perché sarebbe ingeneroso, oltre che scientificamente sbagliato, circoscrivere ai soli virus la capacità di causare malattie infettive con manifestazioni più o meno gravi.

    Il dato di fatto con cui dobbiamo fare i conti è che l’accelerazione che stiamo imprimendo alla nostra moltiplicazione, e quindi all’occupazione di spazi vitali che fino a pochi decenni fa agivano come un cuscinetto tra noi e molte specie animali, aumenta a dismisura il rischio di trovarci nel posto sbagliato nel momento sbagliato. A incontrare un alieno, come il nuovo Coronavirus o come tanti altri patogeni ancora sconosciuti, che in condizioni normali avrebbe continuato a vivere tranquillamente all’interno del proprio bacino naturale.

    Questo non è e non vuole essere un libro scientifico, e non potrebbe esserlo perché il mio rapporto con la Medicina si è interrotto da più di trent’anni: il 28 luglio 1988. Venerdì 28 luglio. Quando ho diagnosticato a mia mamma un tumore al cervello che era sfuggito al grande luminare che l’aveva in cura. Quel maledetto e incurabile tumore che l’avrebbe portata via pochi mesi dopo, il 14 febbraio 1989: un modo doloroso per ricordare il giorno di San Valentino.

    Avevo giurato a me stesso che non sarei mai tornato indietro, che la mia seconda vita nel giornalismo non avrebbe mai incrociato un passato fatto di dolore e sconfitta. Per fare un’eccezione ci è voluta una pandemia.

    Il mio sforzo sarà quello di affrontare un tema molto complesso quasi come se fosse un racconto, lasciando a chi studia e conosce in profondità la materia il compito di indagare tutti gli aspetti tecnici. È il metodo che in questi mesi ho usato con gli amici, che mi hanno tempestato di domande per capire qualcosa in più, e soprattutto con mio figlio: il giudice più severo che un padre possa avere, perché i genitori di solito sbagliano a prescindere.

    Guarderemo solo in parte a quello che è successo, cercando di concentrarci soprattutto su quello che potrebbe accadere. O meglio ancora su quello che inevitabilmente accadrà: perché come diceva spesso il mio vecchio insegnante di Microbiologia non dobbiamo domandarci se arriverà una prossima pandemia, ma quando.

    Non solo virus

    Ebbene sì, siamo circondati. Non solo dal nuovo Coronavirus, e non solo dai virus in generale. Siamo circondati da parassiti, batteri e funghi. Le malattie infettive nascono così: dal contatto con gli agenti patogeni. Che possono essere trasmessi da persona a persona, dalla puntura di una zanzara o di un altro insetto, dal morso di un animale, da alimenti o da bevande contaminate. E all’interno di queste opzioni, a cascata, ne possiamo elencare altre fino a comporre una gamma quasi infinita. Vista così, la nostra esistenza sembrerebbe avere un solo destino: siamo spacciati.

    In effetti le cose stanno molto meglio di quanto possa sembrare a prima vista. Non tutti i virus, batteri, funghi e parassiti causano malattie. Con moltissimi di loro abbiamo instaurato nel tempo una forma di convivenza pacifica. Alcuni addirittura, basti pensare a quelli che compongono la flora batterica intestinale, svolgono un ruolo chiave nel mantenerci in salute. E tra quelli che provocano malattie solo una piccola parte sono in grado di causare danni davvero seri. Per lo più riusciamo a controllarne gli effetti: spesso ci pensa il nostro sistema immunitario, altre volte dobbiamo ricorrere a farmaci o vaccini.

    Per questo non dobbiamo sentirci circondati, se per circondati intendiamo costantemente aggrediti da una moltitudine di nemici. Ma soprattutto perché quando pensiamo al possibile contatto con gli agenti patogeni l’aspetto principale da considerare, e non dovrebbe essere difficile visto che tendiamo a porci come elemento centrale dell’universo, siamo noi. Sono i nostri comportamenti, spesso del tutto inconsapevoli, che ci mettono a contatto con il presunto nemico.

    Facciamo qualche esempio pratico per spiegare meglio di cosa stiamo parlando. Con l’epidemia di Covid-19 abbiamo più o meno capito l’importanza di lavarci le mani: è una buona regola che prima dell’emergenza in corso non era tra le più praticate, anche se le nostre mamme e le nostre nonne ci hanno insegnato a farlo prima di metterci a tavola. Ma soprattutto è una buona regola che tendiamo inconsciamente a dimenticare quando dall’ambito famigliare passiamo alla vita di relazione.

    Quanti di noi si lavano le mani prima di prendere un aperitivo in compagnia? Pochi, si direbbe, visto il florilegio di batteri che vengono regolarmente individuati, con le analisi di laboratorio, in una ciotola di patatine messa a disposizione di tutti. E la colpa è nostra: perché tutto quello che tocchiamo, con le mani sporche, trasmette qualcosa a nostra insaputa. Un qualcosa che magari causa il solo effetto di farci provare schifo, quando ci pensiamo bene. Non vorrei darvi un colpo al cuore, ma il mondo è pieno di gente che non si lava le mani dopo essere andata al bagno: e le tracce si trovano, inequivocabili, ovunque le abbiano posate.

    Facilitiamo la trasmissione delle malattie in moltissimi modi diversi: con rapporti sessuali occasionali non protetti, per esempio, oppure con la condivisione di oggetti personali. Non è mai una buona idea prestare lo spazzolino da denti a un’amica, oppure il rasoio da barba al proprio compagno di squadra.

    Così come è una pessima idea andare al lavoro quando si è malati o si ha la febbre: quello che viene percepito come un segno di resistenza e attaccamento al dovere è in realtà un comportamento a rischio. Su questo punto in particolare ho dovuto ammettere con mio figlio, e sono certo che sfrutterà la cosa a tempo debito, che la stessa regola vale anche per l’andare a scuola. Perché possiamo trasmettere la nostra malattia e non sappiamo quali sono le condizioni di salute delle persone con cui veniamo in contatto. La nostra banale influenza, su un soggetto a rischio magari perché immunodepresso, potrebbe avere effetti devastanti.

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