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La galleria dei ritratti
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La galleria dei ritratti

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Immaginiamo di essere in un museo. Varcato l'atrio, ecco aprirsi davanti a noi una lunga galleria con i muri bianchi e la volta a botte segnata da un grande lucernario. Il mare di luce che da lì discende illumina le pareti sulle quali sono appesi - allineati ad altezza regolare e valorizzati da cornici d'oro - una sessantina di quadri. Già al primo colpo d'occhio, ci si rende conto che questi quadri appartengono a un unico genere: quello dei ritratti. Attenzione, però, siamo dinnanzi a ritratti piuttosto speciali. Sono ritratti di artisti, storici dell'arte, mercanti, collezionisti e - per finire - i "nemici" giurati delle precedenti quattro categorie, ovvero i falsari. Se ci si posiziona davanti ad essi, questi non si limitano a guardarci e fissarci in assoluto silenzio come farebbe normalmente ogni ritratto che si rispetti. No, questi ritratti - quando si accorgono di essere osservati - cominciano autonomamente a parlare e a raccontare. E diventano degli autentici fiumi in piena.
LanguageItaliano
PublisherIlSole24Ore
Release dateDec 14, 2020
ISBN9788863457971
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    Book preview

    La galleria dei ritratti - Marco Carminati

    Introduzione

    Bisogna immaginare di essere in un museo. Varcato l’atrio, ecco aprirsi davanti a noi una lunga galleria con i muri bianchi e la volta a botte segnata da un grande lucernario. Il mare di luce che da lì discende illumina le pareti sulle quali sono appesi – allineati ad altezza regolare e valorizzati da cornici d’oro – una sessantina di quadri. Già al primo colpo d’occhio, ci si rende conto che questi quadri appartengono a un unico genere: quello dei ritratti.

    Attenzione, però, siamo dinnanzi a ritratti piuttosto speciali. Se ci si posiziona davanti a essi, questi non si limitano a guardarci e fissarci in assoluto silenzio come farebbe normalmente ogni ritratto che si rispetti. No, questi ritratti – quando si accorgono di essere osservati – cominciano autonomamente a parlare e a raccontare. E diventano degli autentici fiumi in piena.

    Giusto per orientarci, i narratori incorniciati sono divisi in cinque categorie, tutte relative al mondo dell’arte e molto autorevolmente rappresentate. Ci sono gli artisti, gli studiosi, i mercanti, i collezionisti e – per finire – i nemici giurati delle precedenti quattro categorie, ovvero i falsari.

    Sulla parete di sinistra sono appesi gli artisti e gli storici dell’arte; su quella di destra i collezionisti, i mercanti e qualche falsario.

    Entriamo e proviamo ad ascoltare che cos’hanno da raccontarci.

    Fuor di metafora, questo libro raccoglie una selezione di articoli redatti in un arco di quasi trent’anni per le pagine di arte dell’inserto Domenica del Sole 24 Ore e qui ora debitamente aggiornati. Sono articoli legati a recensioni di libri, a visioni di mostre, a interviste con i protagonisti del settore (studiosi, direttori di musei, editori eccetera). Oppure scaturiti da scoperte documentarie e da restauri.

    La Galleria dei ritratti si apre con Caravaggio e i retroscena dell’acquisto della Cena in Emmaus di Milano e prosegue con Guercino che ci rivela come stabilì i prezzi fissi per i suoi quadri, con Liotard che ci dà conto della sua vita avventurosa (e galante), mentre il più mite Lorenzo Lotto cerca da far quadrare il suo magro bilancio anche tenendo in ordine il suo registro dei conti. Michelangelo si concentra sulle singolari trattative per la vendita della sua ultima opera, la Pietà Rondanini (meglio Rondinini), mentre Picasso dimostra al mondo di essere stato un pessimo nonno (sono i nipoti a tracciarne un ritratto agghiacciante). Rubens fu un eccellente collezionista e Tiziano produttore seriale di capolavori (alcuni sopravvissuti per caso a gravi vicissitudini) ma non riuscì mai a nascondere il suo peggior difetto: la spasmodica avidità di denaro.

    Ed eccoci davanti agli studiosi. Il primo è Bernard Berenson che redige un catalogo, questa volta non di quadri ma di conquiste femminili. Seguono il severissimo Miklós Boskovits, un vero maestro di arte e di vita, e i coraggiosi Gian Alberto Dell’Acqua e Fernanda Wittgens, che salvarono i capolavori di Brera dai bombardamenti e ricostruirono la pinacoteca nel dopoguerra; e si giunge ad ascoltare la voce tonante di Federico Zeri che svela i trucchi del mestiere di conoscitore, infarcendo il racconto di esilaranti battute, barzellette, scherzi imprevisti e soprattutto improperi indirizzati a celebri colleghi meno dotati, che guardano le opere d’arte senza capirle perché hanno – dice – «gli occhi foderati di prosciutto».

    Nella successiva sezione, dedicata ai mercanti, le avventure e gli aneddoti sono assolutamente garantiti. Qui sentiamo narrare le vite e le imprese professionali di celeberrimi protagonisti del mestiere: sfilano, tra gli altri, i ritratti di Pietro Accorsi, di Ernst Beyeler, di Joseph Duveen e di Daniel Wildenstein, con i loro grandi successi e qualche amara delusione.

    Ma i mercanti non esisterebbero senza i collezionisti. Ed ecco che tocca a loro prendere la parola. Le grandi casate nobili secolari (i Borromeo, i Colonna, i Frescobaldi, i Devonshire) alternano le loro narrazioni con quelle di collezionisti più recenti ma non meno appassionati come Angelo Costa, Francesco Cerruti, Vittorio Fossati Bellani, Amedeo Lia, Alberto Saibene e Reinhold Würth.

    Se non ne siamo vittime designate (e cioè se non siamo artisti, storici, mercanti e collezionisti) a divertirci immensamente sono infine le ingegnose malefatte dei falsari. Nella Galleria dei ritratti, a fine percorso, si trova un tratto di muro destinato a loro. In particolare è stata data la parola a Eric Hebborn, grandissimo falsario di disegni antichi, a Icilio Federico Joni, produttore di fondi oro senesi che misero nel sacco anche Bernard Berenson; e a Luigi Parmeggiani, che forse fu il più abile di tutti loro, perché riuscì a vendere all’ignaro comune di Reggio Emilia (sua città natale) l’intero stock delle sue bufale, ovvero le sculture medievali da lui prodotte che furono prese per buone e si dedicò loro un intero museo: il Museo Parmeggiani. Quando venne svelato l’imbroglio la raccolta non solo non venne smantellata, ma al contrario, venne aperta al pubblico per essere un costante monito: nel mondo dell’arte bisogna stare attenti e non fidarsi troppo di tutto quello che… ci viene raccontato.

    Milano, 9 novembre 2020

    Artisti

    Tre mecenati per Caravaggio

    In occasione del riallestimento delle nuove sale di Brera dedicate al Manierismo e al Barocco sono emerse le prove che, nel 1939, la «Cena in Emmaus» di Caravaggio venne acquistata in incognito da tre grandi imprenditori lombardi: Paolo Gerli, e i fratelli Mario e Aldo Crespi

    La ristrutturazione della pinacoteca di Brera voluta dal direttore James Bradburne prosegue a gran giornate. Ora sono state aperte le sale che vanno dal Manierismo al Barocco, con nuovi colori alle pareti (verde sottobosco, rosso borgogna, grigio caldo eccetera), con una nuova sequenza di dipinti, con nuove didascalie. Protagonista di questa sezione è la Cena in Emmaus di Caravaggio che ora si staglia in tutta la sua toccante magnificenza sulla parete di fondo della sala XXVIII. Fino a poco tempo fa si trovava nella sala XXIX, sulla parete di spalle: una sistemazione piuttosto infelice perché capitava che alcuni visitatori distratti, non voltandosi, tiravano dritto senza notarla. Oggi è impossibile dribblare il capolavoro: Caravaggio ci si para superbamente dinnanzi sul fondo della sala.

    La nuova esposizione della Cena in Emmaus è stata occasione di ulteriori ricerche sul quadro, e queste ricerche hanno portato in luce tasselli sconosciuti della storia del dipinto. Proviamo a evidenziarli. Come è noto la versione di Brera della Cena in Emmaus venne realizzata da Caravaggio in circostanze drammatiche. Siamo nella seconda metà dell’anno 1606, il pittore è scappato dall’Urbe perché ha assassinato Ranuccio Tomassoni e si è nascosto nei feudi dei Colonna tra Paliano e Zagarolo. Per vivere deve lavorare e infatti dipinge alcuni quadri tra cui una Cena in Emmaus che manda «a vendere a Roma». Il quadro «mandato a vendere» viene a un certo punto acquistato dai marchesi Patrizi e presso questa famiglia romana la tela di Caravaggio rimane per secoli, fino al 1939, quando viene rimessa sul mercato. Ettore Modigliani – il grande soprintendente di Brera che nel 1939 è già stato cacciato dalla direzione della pinacoteca perché ebreo – dal suo nascondiglio nelle Marche avverte per lettera il ministro Bottai dell’eccezionale opportunità per Brera: possedere finalmente un Caravaggio! Modigliani segnala al ministro non solo il quadro Patrizi ma anche come trovare i soldi per comperarlo. Su un conto aperto presso la Banca Commerciale Italiana si trovano depositate 9mila lire. Il presidente degli Amici di Brera, che è in quel momento il senatore Ettore Conti, può prelevare quei soldi e usarli per l’acquisto della tela. Il ministro Bottai esegue alla lettera le istruzioni di Modigliani in esilio. In pochi giorni, dal 5 al 9 giugno 1939, gli Amici di Brera comperano il quadro e lo donano alla pinacoteca, organizzando anche una mostra per presentarlo. Peccato che, alla vigila dell’esposizione, gli Amici vengano soppressi dal governo fascista e sostituiti da un sedicente «Centro d’azione per le Arti».

    Il generoso gesto e la clamorosa soppressione hanno fatto dimenticare che gli Amici di Brera non furono in realtà i soli a mettere mano al portafogli per assicurare alla pinacoteca il capolavoro di Caravaggio. La cifra che il marchese Patrizio Patrizi aveva chiesto per il quadro era di 500mila lire. Gli Amici di Brera, come s’è visto, misero a disposizione novemila lire. Ma chi sborsò le restanti 491mila lire? «Due generosi mecenati», si è sempre ripetuto, senza però mai specificare chi fossero esattamente questi misteriosi benefattori.

    Andando a spulciare i giornali italiani di quei mesi, la giovane studiosa Chiara Bonalumi si è imbattuta in un articolo di Guido Piovene, pubblicato sul Corriere della Sera il 20 giugno 1939, nel quale si citano i protagonisti dell’acquisto del quadro, che non furono due ma tre. Si trattava infatti dei fratelli Mario e Aldo Crespi (rispettivamente lo zio e il padre di Giulia Maria Crespi) e del conte Paolo Gerli. I tre mecenati di Caravaggio che affiancarono gli Amici di Brera nell’acquisto del dipinto erano personalità di spicco dell’imprenditoria lombarda del tempo. Tutti e tre condividevano l’impegno nell’industria tessile, la passione per il collezionismo e una notevole propensione al mecenatismo. A questo proposito, basti ricordare che il conte Gerli aveva acquistato nel 1935 gli Arazzi Trivulzio da destinare al Castello Sforzesco di Milano (cifra pagata: 300mila lire del tempo!), mentre i fratelli Mario e Aldo Crespi fornirono nel 1952 un cospicuo contribuito per l’acquisizione della Pietà Rondanini di Michelangelo, anch’essa approdata al Castello Sforzesco. Un fatto non secondario, per la felice conclusione dell’affare Caravaggio, fu che il conte Gerli era anche socio e consigliere degli Amici di Brera, e quindi era uno stretto collaboratore del presidente dell’associazione Ettore Conti. Quest’incrocio virtuoso di amicizie, condivisioni d’intenti e notevoli disponibilità economiche, sviluppatosi nell’ambito degli Amici di Brera, fu davvero decisivo per l’acquisizione del Caravaggio. Quando la Cena in Emmaus venne portata a Milano, si pensò subito a un’esposizione a Brera per celebrare l’evento. Il ministro Bottai approvò la bozza del programma che prevedeva la collocazione del quadro nella Galleria del Luini, l’apertura e l’illuminazione notturna della pinacoteca per quindici giorni consecutivi, una mostra di quadri caravaggeschi braidensi posti attorno al capolavoro e, infine, una bella conferenza dedicata a Caravaggio e al quadro appena arrivato. Ma questa solenne liturgia – che doveva onorare la generosità degli Amici di Brera – non venne celebrata. Alla fine del 1939 l’Associazione venne soppressa dal governo fascista. La mostra venne organizzata egualmente ma in tono minore, senza aperture speciali e senza luminarie. La rassegna aprì i battenti il 17 maggio 1940 e venne chiusa due settimane dopo per l’imminenza dello scoppio della guerra. Per la conferenza giunse da Roma un giovane astro del ministero dell’Educazione fascista: il dottor Giulio Carlo Argan. Argan tenne la conferenza su Caravaggio a fine maggio e accettò una «piccola somma quale rimborso spese», vale a dire 500 lire, un cachet, in realtà, di tutto rispetto se si pensa che la stragrande maggioranza degli italiani di allora canticchiava speranzosa: «Se potessi avere mille lire al mese» (la canzone venne scritta proprio nel 1938).

    L’invenzione di Guercino? I prezzi fissi

    Le tariffe dei dipinti, i soggetti e i committenti nel «Libro dei conti» compilato dal pittore Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino tra il 1629 e il 1666

    Proviamo a immaginare di trovarci nell’Italia del Seicento e di dover fare una piccola indagine sulle tariffe dei pittori di maggior grido attivi in quel secolo tra Bologna e Roma. La prima cosa che si verrà a notare è che gli artisti non calcolavano i loro onorari sul tempo impiegato, né sulla fatica profusa né tantomeno sulle dimensioni dei quadri. Utilizzavano come unità di misura le «teste» o le «figure» inserite nei dipinti: più teste si mettevano, più si veniva pagati. Capire però quanto potesse costare al committente una singola testa non era cosa facile, perché attorno alla determinazione delle tariffe pro capite mancava ogni tipo di regola. Domenichino, ad esempio, evitava abilmente di proporre tariffe fisse; così, a seconda di chi aveva davanti, poteva permettersi di sparare cifre ampiamente fluttuanti, e in tal modo si regolò almeno fino al 1621, quando il suo onorario venne ad assestarsi sui 100 ducati per figura. Francesco Albani si spinse oltre: arrivò a chiedere al duca di Mantova Ferdinando Gonzaga – per il quale aveva realizzato gli affreschi della Villa della Favorita – un mirabolante stipendio fisso, ma il duca lo allontanò in malo modo definendolo un «impertinentissimo pretensore». Molto più soft era la tecnica di Guido Reni, che preferiva lasciare al cliente la formulazione dell’offerta, riservandosi però la prerogativa di negoziare all’ultimo momento un aumento dell’onorario o un regalo integrativo. I regali erano una consuetudine molto comune delle retribuzioni degli artisti, come dimostra il caso di Marcantonio Franceschini che molto spesso si faceva pagare i quadri a suon di biancheria intima, argenteria, mobilia e persino scatole di canditi e cioccolato.

    L’unico artista che andava vantandosi di applicare ai suoi quadri un prezzo fisso era Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino. Il pittore aveva avuto un’intelligente intuizione commerciale, perché il prezzo stabilito a priori facilitava gli accordi tra le parti, chiariva immediatamente le modalità di acquisto e permetteva di raggiungere più facilmente una clientela geograficamente lontana. In una lettera datata 8 giugno 1639 lo stesso Guercino fa cenno ai suoi onorari: «Per le figure intiere io sono riconosciuto per lo meno di cento ducatoni d’argento per ciascuna, per le mezze figure cinquanta».

    Il mito del prezzo fisso di Guercino è sopravvissuto nei secoli, e grazie alla disponibilità di un’edizione integrale del celebre Libro dei conti di Guercino a cura di Barbara Ghelfi (Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1997) è possibile verificare la reale consistenza di questa convinzione. Il Libro dei conti è un manoscritto conservato nella Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna e contiene l’elenco delle opere realizzate dalla bottega del Guercino dal 1629 al 1666, con la dettagliata specificazione dei soggetti dei dipinti, dei prezzi di vendita e dei nomi di committenti, acquirenti e intermediari. Allegati al libro si conservano anche una quarantina di fogli sciolti, nei quali i contabili della bottega elencarono liste di opere vendute, riscossioni di affitti e cedole di «frutti decorsi», ovvero di interessi maturati. Inutile sottolineare che questo arido registro è in realtà un documento di enorme importanza sia per la conoscenza delle opere del Guercino (elencate in un numero assai maggiore di quelle oggi conservate), sia per la comprensione delle dinamiche economiche con cui veniva gestita la sua ben avviata bottega. Il libro copre un arco cronologico di oltre 30 anni e venne compilato da tre improvvisati contabili: il pittore Paolo Antonio Barbieri, fratello del Guercino, che si occupò della compilazione dal 1629 fino al 1649, anno della sua improvvisa morte; lo stesso Guercino, che prese in mano i registri dal 1649 al 1665 redigendoli con scrittura sciatta e infarcendoli di molte imprecisioni; e infine il nipote di questi, Benedetto Gennari, che si accollò l’impegno delle registrazioni nell’ultimo anno di vita dello zio (1666).

    A una prima analisi, appare confermato che il pittore tenesse affisso in bottega un simbolico tariffario per i quadri: 25 ducatoni per una testa, 50 per una mezza figura, 100 per una figura intera. Naturalmente queste cifre andarono aumentando negli anni, e quando alla morte di Guido Reni nel 1642 Guercino conquistò il primato del mercato artistico bolognese, le sue tariffe si alzarono sensibilmente: 30 ducatoni per una testa, 60 per una mezza figura, fino al culmine dei 190 ducatoni richiesti nel 1660 per una semplice testa con busto.

    Osservando però le liste in dettaglio si constata che queste regole non erano sempre rispettate. Guercino faceva spesso sconti a committenti amici o a compaesani, permetteva agli enti ecclesiastici di pagarlo a rate, e applicava cifre forfettarie per le grandi pale d’altare, che di solito vendeva a 300-400 ducatoni cadauna. Tendeva invece a rincarare i prezzi dei quadri destinati alla committenza non emiliana, forse perché scaricava sul destinatario le spese di trasporto e di intermediazione; oppure non disdegnava quasi mai di arrotondare i compensi con mance o regali di varia natura.

    Le persone che si rivolgevano a lui appartenevano un po’ a tutti i gradi delle gerarchie civili ed ecclesiastiche: c’era la grande nobiltà emiliana e romana, c’erano i cardinali legati di Bologna e Ferrara (che lo faranno conoscere e apprezzare a Roma), c’erano gli ordini ecclesiastici, i capitoli delle cattedrali, le confraternite, e non mancavano neppure gli esponenti della media e piccola borghesia mercantile, probabilmente incoraggiati nel rivolgersi a lui dai suoi tranquillizzanti prezzi fissi. Inoltre, Guercino doveva trattare con numerosi intermediari e agenti conto terzi, i quali appartenevano solitamente a classi sociali più basse: fattori di conventi, guardarobieri di nobili, pittori e «intenditori d’arte» di seconda e terza categoria.

    A giudicare dai guadagni, il maestro emiliano venne amato e corteggiato per decenni, anche se proprio la lettura dei bilanci dimostra come, con l’avanzare degli anni, egli fosse sempre meno oggetto di richieste: negli anni d’oro della carriera, attorno al 1650, l’artista giunse a guadagnare anche quattromila scudi l’anno, ma solo dieci anni più tardi sarebbe arrivato a malapena a superare il tetto dei mille.

    L’ultima opera che il pittore vendette fu un «quadro con dentro la Trinità» (oggi nella chiesa di San Giuseppe a Pinerolo), pagato 250 ducatoni dal «Sig. Pietro Cattanio». Dopo quella annotazione il Libro dei conti si arresta. Rimane giusto lo spazio per l’ultimo appunto vergato

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