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Capercurian
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Capercurian

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About this ebook

Esiste una Porta tra bene e male. Il suo destino non è tracciato. I suoi passi sono liberi”. 

Al centro di ogni rotta spaziale, il pianeta Kaneve è l’unico luogo nell’universo dove sia rimasta vita. La regina Rasia accoglie i popoli alieni in fuga dalla minaccia dei Nembi, bilanciandosi tra lotte intestine e intolleranza razziale. Nel momento più buio emerge la leggenda dell’Archemir, il senza destino, colui in grado di suscitare l’immenso potere della Luce Imperitura. E quando un giovane uomo di nome Erly sopravvive alle terribili prigioni di Theria, e sbaraglia l’attacco di un Nembo, l’Ordine Capercurian dei Guerrieri di Luce, ormai decimato e decadente, va subito alla sua ricerca. Romanzo di fantascienza
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 8, 2021
ISBN9791220313872
Capercurian

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    Capercurian - Barbara Signorini

    lettura!

    PRIMA PARTE

    Che il tuo viaggio sia lieto

    Ricolmi di luce l’anima

    E renda leggero ogni tuo passo.

    (Saluto Capercurian)

    Gli assiomi della Luce

    Archivi online di Kaneve

    ►Trattato Capercurian

    L’universo è intriso di Luce.

    Dai densi materiali inerti, alle regioni incorporee, la Luce dimora silente nelle infinite espressioni della vita. Si posa, come rugiada, sui territori della realtà, custode discreta delle leggi che li guidano.

    In alcune creature condensa, stilla e scorre, asservita alla loro volontà.

    Per questo motivo, la Luce governa l’equilibrio di tutte le cose.

    1. FUGA DALL’INCUBO

    Lo sgocciolio dell’acqua scandiva il tempo come un vecchio e malandato orologio: scivolava lungo le pareti di roccia e ticchettava sul pavimento della cella, rievocando il suono della pioggia quando si posa, leggera e aritmica, sulle foglie di una foresta.

    Rami, luce che filtrava tra le fronde, erba muschiosa. Un piccolo ciottolo di fiume, nero e luccicante, tra le sue mani. Una risata e passi che risalivano il sentiero, passi pesanti. I passi di suo padre che lo raggiungeva e lo sollevava tra le braccia: Il mio piccolo esploratore! Il mio Erly!. Braccia calde, forti, a proteggerlo. Cullarlo.

    I passi si allontanavano, adesso. Si disperdevano nel vuoto dello spazio. Si spegnevano dentro il freddo metallo di un’astronave.

    Metallo spezzato. Sbriciolato.

    Un colpo.

    La porta della cella rovinò al suolo.

    Aprì gli occhi di soprassalto, nel mezzo di quel sogno.

    Una strana luminescenza invadeva l’ambiente. Il bagliore proveniva da una forma immobile al centro della stanza: il suo carceriere theriano. La luce pulsava con ferocia dentro quel corpo inerte, come se non avesse ancora finito di consumarne le ombre.

    Chiuse gli occhi per qualche secondo, cercando di sottrarsi a un tale orrore.

    I theriani erano frutto di un esperimento genetico: creati per sopravvivere alle dure condizioni di terrafondazione nelle colonie planetarie; erano stati abbandonati a sé stessi e condannati a una vita da reietti, quando il progetto era stato dichiarato immorale.

    Ne era nata una genia di sbandati, pronti a servire qualsiasi causa che facesse guadagnare sufficiente denaro e potere. Si erano specializzati nel commercio degli schiavi e nascondevano i loro Allevamenti in basi segrete, all’interno di anonimi planetoidi. Viaggiavano nello spazio, assaltando colonie e astronavi, alla ricerca di nuove prede.

    In tal modo era stato catturato.

    I suoi aguzzini si erano spesso vantati di avere fatto un ottimo affare: grazie a lui si stavano arricchendo senza muovere un dito.

    Sfilò le cinghie dai polsi e si portò una mano alla fronte con una smorfia di dolore, cercando di riordinare i pensieri. Non riusciva a ricordare con chiarezza, ma una cosa era certa: i Nembi erano scomparsi e con essi la famelica pressione alla base del cervello, che provava da quando l’avevano preso, capace di risucchiare pezzo a pezzo la sua anima.

    Scosse la testa per schiarirsela e qualche ricordo cominciò a riemergere. Un’ispezione straordinaria all’Allevamento… L’intera base era entrata nel panico e il suo guardiano si era precipitato nella cella per eliminare le prove dell’inganno. Lo sapevano già da tempo, comunque: una preda così resistente non avrebbe potuto passare inosservata.

    Erly si strinse la testa fra le mani, cos’era accaduto quando l’arma era stata puntata contro di lui? Era certo che il colpo fosse partito. Perché era ancora vivo? La sua mente si rifiutava di collaborare.

    Eppure era successo qualcosa. Qualcosa di così potente che aveva fermato e ucciso il theriano, e cancellato la presenza dei Nembi attorno all’asteroide.

    Un brivido di freddo lo fece trasalire. Si rese conto che stava perdendo tempo prezioso: doveva approfittare del momento e fuggire.

    Tese l’udito, un silenzio attonito aleggiava su tutto il campo-prigione. Il battente della porta, che nel cadere l’aveva svegliato, giaceva a terra, contorto come se fosse stato passato dentro a una fornace.

    Provò a muovere le gambe, ma un dolore lancinante, di avvertimento, saettò feroce dal piede destro, rimbalzando lungo la spina dorsale. Ricordò lo scontro subìto poco prima di perdere conoscenza: doveva essersi fratturato la caviglia.

    Appoggiandosi sugli avambracci, strisciò fino a quel corpo immoto e recuperò la lunga lancia che usava come arma. Era la prima volta, da quando era stato catturato, che scorgeva una possibilità di fuga. Con un grugnito fece leva e riuscì a rimettersi in piedi. Lasciò il mondo vorticare davanti ai suoi occhi per alcuni istanti e, mossi alcuni passi, con piglio ostinato, raggiunse la porta.

    Diede un’occhiata al corridoio, immerso in una penombra viscosa, e uscì con cautela, trattenendo il respiro. Quando i suoi occhi si rimisero a fuoco, notò alcune sagome scure abbandonate a terra come sacchi di sabbia. Ci passò accanto: si trattava di theriani.

    Erly non era l’unico prigioniero: altre creature si trovavano come lui trattenute contro la propria volontà; spesso, dopo giorni di torture spietate, sopportate nella più desolata solitudine, perdevano la ragione. Lui era riuscito a mantenersi lucido, ma c’erano stati momenti, come adesso, mentre si faceva largo tra quei corpi senza vita, in cui avrebbe davvero desiderato anche solo un istante di annebbiato, inconsapevole, sollievo.

    Si sentiva vulnerabile senza le cinghie ai polsi, senza le corde alle caviglie, senza gli ordini abbaiati a scandire la sua giornata. Per un folle istante desiderò rientrare nella sua cella, pur di non dover tollerare ancora il baratro di quell’improvvisa libertà. Ma il nucleo di speranza, che aveva sepolto dentro di sé, stava riemergendo.

    Si stupì nell’osservare quanto avesse sacrificato di se stesso per sopravvivere, e come fosse stato naturale ritornare integro, non appena ne era comparsa la possibilità.

    Nonostante tutto non provava odio per i theriani, in fondo anch'essi erano stati soggiogati da qualcosa di più grande di loro. Isolati e rifiutati dalla civiltà, avevano accettato l’ingerenza dei Nembi in cambio di protezione, offrendo gli Allevamenti come moneta di scambio. L’accordo stipulato, tuttavia, era un cappio destinato a soffocarli.

    Aprì la porta della prima cella che incrociò. La sapeva occupata da un’arghanti, una mite creatura acquatica che era stata catturata pochi giorni prima. La vasca dov’era immersa aveva assunto un colore violaceo, il volto di lei scolpito in una smorfia di agonia.

    Erly deglutì a vuoto, coprendosi il volto con entrambe le mani. Ora impazzisco, si disse. Ora impazzisco.

    Eppure sapeva che la sua mente non si sarebbe persa, non era mai accaduto, per quanto orribile fosse stata la realtà che lo circondava.

    Incapace anche solo di trovare una preghiera adatta che potesse accompagnare lo spirito di quella creatura, uscì incespicando in cerca di altri prigionieri.

    Non ci mise molto a ispezionare i vari locali: gli Allevamenti erano sempre di piccole dimensioni, per permettere ai loro padroni di fuggire all’improvviso, senza troppe perdite.

    Contrariamente agli altri prigionieri, Erly era stato trasferito più volte: aveva perso il conto ormai degli Allevamenti dov’era passato, i theriani facevano così per poterlo riutilizzare, prima che i Nembi potessero scoprirlo.

    I suoi passi eccheggiavano leggeri lungo gli stretti corridoi. Non un respiro, non un movimento sotto le rade luci al soffitto.

    Con un gemito esausto si appoggiò allo stipite dell’ultima cella e guardò dentro. Fu sorpreso di trovarvi qualcuno ancora in vita.

    Disteso per terra, legato da robuste corde in lega arghanti, giaceva un verras: una creatura umanoide della linea minerale. Il corpo possente vibrava in rapidi respiri, mentre con lunghi tentacoli si muoveva a spezzare le maglie che lo trattenevano. Nonostante la forza impiegata, non era ancora riuscito a liberarsi, e più si dimenava più i legacci si stringevano su di lui. Sembrava allo stremo delle forze: la pelle coriacea era straziata di ferite.

    Erly esitò nell’entrare: i verras erano un temuto popolo di guerrieri. Potenza allo stato puro, accompagnata da un’indole irrascibile e sangue venefico, che si rivelava mortale al contatto. Una miscela a dir poco esplosiva. Nessuno si avvicinava loro, se non per obbligo.

    Il respiro del prigioniero mutò, quando prese atto della sua presenza. Modellò un paio di occhi umani sul volto informe e li puntò su di lui. Le iridi erano di un azzurro profondo, simili a lapislazzuli colpiti dalla luce, e per un istante Erly credette di guardarsi allo specchio. Le pupille si mossero dall’alto verso il basso con fare indagatore, poi si fissarono sul suo viso, livide.

    Le droghe che i carcerieri usavano per enfatizzare gli effetti delle torture spesso provocavano crisi emotive. Se quel verras era stato drogato, non desiderava trovarsi nella traiettoria della sua ira. Ma, d’altra parte, non poteva certo abbandonarlo.

    Gli Allevamenti venivano monitorati regolarmente a ogni ciclo, i Nembi degli altri avamposti non avrebbero tardato a notare che qualcosa era andato storto. Erly non voleva certo restare lì ad aspettarli. E non dubitava che, almeno in questo, il verras sarebbe stato d’accordo con lui. Fu il motivo che lo spinse ad agire.

    Si avvicinò al corpo della creatura e scostò con piglio pratico i tentacoli che lo intralciavano. L’inverosimile pupilla seguì ogni suo movimento durante tutto il tempo che impiegò per liberarlo. Quando ebbe terminato, Erly scivolò disteso a terra con un ansito.

    Il pavimento scricchiolò sotto l’immane peso della creatura, che si metteva a sedere. Dal volto piatto apparve una bocca rudimentale, di forma umana. – Hai corso un grave rischio per aiutarmi, – disse in Sted, il linguaggio comune, – chiunque tu sia… Il veleno del mio sangue poteva ucciderti.

    Erly osservò le profonde ferite che il verras aveva subìto: dovevano essere recenti, perché non aveva avuto modo di autoguarirsi. Creature resistenti come lui erano prede molto ricercate dai theriani. – Non sembri troppo sorpreso di vedermi, – commentò puntellandosi su di un gomito.

    Il verras assentì con un gesto secco. – Ho avvertito la tua presenza. La mia specie percepisce la materia a livello sub-atomico, – spiegò, la voce che vibrava cavernosa, come se risuonasse attraverso una canna vuota. – Considerato le tue condizioni, non mi aspettavo riuscissi a raggiungermi. Siamo gli unici sopravvissuti in tutto l’Allevamento. I theriani si stavano affrettando a bonificare la prigione, in attesa di un’ispezione dei Nembi; hanno ucciso tutti. Credevo che toccasse a me, invece… c’è stata quella luce...

    Erly pensò che sostare in un campo di prigionia theriano per un verras fosse di per sé una forma di tortura, a causa del suo modo di percepire. Doveva avere sentito ogni cosa. Era tipico dei theriani scatenare sulle creature che catturavano i loro demoni peggiori. Si schiarì la gola. – Una luce?

    – Un’energia, – aggiunse questi, con una certa veemenza. – Una forma di calore, una radiazione, o che so io. Non avevo mai percepito una simile forza in vita mia, mi ha travolto! Tu non l’hai sentita?

    Erly impallidì leggermente. – Ho perso i sensi, – spiegò. – Non ricordo nulla.

    Il verras esibì per lui un’espressione incredula. – Che cosa sei, comunque? – domandò. – Non mi sembri un aramyl e nemmeno un kesren.

    – Sono un umano, la mia specie proviene da un’altra galassia.

    – Umano… Ho sentito parlare di voi, ma pensavo foste estinti.

    Non poteva dargli torto, con quei tentacoli che sapevano sbriciolare una roccia e una corazza di pelle in grado di sopportare le condizioni ambientali dello spazio profondo. Nonostante questo anche la proverbiale imbattibilità verras era stata messa in ginocchio dai Nembi, esattamente come tutti gli altri popoli. – Non ci vorrà molto perché ritornino, – gli fece notare.

    Lui seguì lo sguardo di Erly e vide il corpo del proprio carceriere, che giaceva aggrovigliato come un ragno contro la porta della cella. Ebbe un brivido violento. Si alzò ondeggiando e uscì rapido dalla stanza.

    Erly lo osservò meglio mentre gli passava accanto: più che possente, era gigante, sfiorava il soffitto; i movimenti esprimevano una forza compressa, ferina, pronta a scattare. Si chiese storditamente quanti theriani ci fossero voluti per catturare e trattenere in prigionia una simile creatura.

    Raggiunto il corridoio, lo vide esitare, e disse: – Sei davvero certo che non ci siano altri sopravvissuti, magari ai piani inferiori?

    Il verras si mosse verso di lui e in un istante gli fu davanti, fremente di collera. La sua voce schiaffeggiò l’aria. – Stammi lontano, piccoletto! Ringrazia la tua buona stella di essere sopravvissuto. Vattene, prima che decida di fare a pezzi anche te!

    Allungò i tentacoli e radunò i corpi dei theriani trascinandoli in un mucchio scomposto, quindi cominciò a infierirvi, senza alcuna pietà.

    Erly si appoggiò di spalle alla parete del corridoio, reprimendo un’ondata di nausea: la sete di vendetta, e forse le droghe ancora in circolo, dovevano avergli fatto perdere la testa.

    – Pensi che servirà a qualcosa? – esclamò di getto facendolo fermare. – Sono stati corrotti dai Nembi, consumati e usati come marionette. Erano già morti prima che tutto questo li uccidesse.

    Uno dei tentacoli gli circondò il torace, sollevandolo da terra come una piuma. – Credi, – ringhiò, – di potermi dire cosa fare, nullità? Credi di poterti mettere tra un verras e la sua preda?!

    Reprimendo un gemito, nel sentire le costole che si incrinavano, Erly replicò a denti stretti: – Avrai bisogno dei codici di accesso per raggiungere l’elevatore. Perché vuoi uscire da qui, prima o poi, giusto?

    La creatura si bloccò, ansante. – No. Non mi interessa. Voglio solo ridurre in polvere questo posto!

    – Non hai nessuno da cui tornare?

    Dopo un lungo silenzio, il verras negò.

    – Mi… dispiace. Davvero.

    Il corpo della creatura ebbe un tremolio. – Il mio compagno, colui che amavo più di me stesso, è stato ucciso mentre tentava di proteggermi. Portava in sé i nostri piccoli. Lui… Non ho più nulla. Non mi resta più nulla.

    Erly lo fissò, mentre i suoi piedi penzolavano ancora nel vuoto. – È terribile, – ansimò, – ma se ha dato la vita per te, non dovresti sprecare in questo modo il suo sacrificio. Non c’è alcun onore nel deturpare questi corpi.

    Il verras sospirò lentamente, tremando di rabbia: – Che accidenti ti importa! Cosa ne può sapere dell’onore un inutile essere come te!?

    La mano di Erly si posò su uno dei tentacoli che lo stavano trattenendo. – La vita, – esalò, scandendo bene le parole, – è preziosa. La tua vita… è preziosa.

    Sul volto del verras comparvero, a suo favore, due occhi sorpresi. Venne fatto scendere lentamente a terra. – Da quanto tempo sei loro prigioniero, piccoletto?

    Erly si sostenne al muro con una mano. – Un anno, più o meno, forse di più. Ho perso il conto. E tu?

    – Dieci giorni.

    Il silenzio che calò su entrambi fu assordante.

    – Forse… sono un po’ indigesto, – commentò pacato Erly.

    Il verras espirò un’imprecazione tra il sorpreso e divertito: – Tu devi essere quella creatura! Quella della sezione speciale. I theriani me l’avevano detto… per vantarsi. Pensavo mi avessero mentito. Ma se sei stato capace di sopravvivere a Theria… non posso più stupirmi di niente! Vattene adesso, – aggiunse, mentre un altro brivido gli scuoteva il corpo, – scappa finché puoi e lasciami in pace.

    – Andremo via insieme! – ribatté Erly. – L’intera sezione è blindata da codici di accesso. Non riuscirai a uscire da solo.

    – Non ho bisogno del tuo aiuto, posso sempre rimediare una via di fuga.

    Lui scosse la testa. – Questo vorrei proprio vederlo! La base è costruita in lega arghanti. La tua specie dovrebbe conoscerla bene. Percepite la materia con la mente, giusto? Sonda pure l’intera zona.

    – Tu… conosci i codici di accesso theriani?

    – L’ultimo carceriere era un tipo piuttosto loquace, li canticchiava in continuazione per non dimenticarli, aveva ideato una stupida filastrocca, e naturalmente non si curava di farsi sentire da me; anche con i codici, che avrei potuto fare?

    Un brusio proveniente da uno dei terminali li fece sobbalzare.

    – Stiamo perdendo tempo, – tagliò corto Erly, – cerchiamo di risalire in superficie. Andiamo!

    Il verras esitò. – Tu… non ascolti proprio.

    – No, – ammise Erly. – Adesso seguimi.

    Non fu difficile superare i livelli blindati. In effetti, il sistema di sorveglianza era basato per lo più sulla costante presenza dei Nembi, che avrebbero potuto mettere fine a qualsiasi disordine in un istante, se fosse stato necessario.

    La scena che si mostrò davanti ai loro occhi fu desolante. L’intera base era diventata un cimitero: corpi senza vita giacevano scomposti ovunque. Ciò che aveva colpito a morte i Nembi doveva avere ferito di riflesso anche i theriani.

    – Dobbiamo trovare lo scalo dei trasporti, – esclamò il verras, mentre gli lanciava una tuta spaziale.

    Erly sussultò nell’afferrarla tra le mani, riscuotendosi dal torpore che l’aveva colto. Si accorse di stare dormendo in piedi. Tentò rapido di vestirsi, intralciato dai dolori al piede destro, invidiando il suo compagno, che invece non aveva bisogno di protezioni.

    Sollevò una mano a indicare la torretta poco distante, visibile dalle vetrate. – Il centro di controllo, – disse con voce impastata, notando che il verras gli concedeva ora tutta la sua attenzione, – bisogna disattivare le griglie di mascheramento o non andremo da nessuna parte. Dimmi, hai mai pilotato una navetta?

    Soppesando le sue parole, l’altro rispose: – Sono un militare dell’esercito verrasiano, piloto trasporti spaziali da quando ero in fasce.

    Erly annuì con un sospiro: immaginava che la storia del pilotare in fasce non fosse affatto una metafora, ma non era il momento adatto per approfondire. – Lo scalo si trova a un chilometro a nord da qui e io non sono in grado di raggiungerlo. Dovrai andarci tu, mentre disattivo da qui la griglia.

    – Chi ti dice che ritornerò a prenderti, umano?

    – Nessuno, – rispose Erly fissandolo.

    La creatura nascose l’occhio nelle pieghe di un volto appena abbozzato. – Mi chiamo Gorgheon, – rispose in un tono vagamente solenne, – appartengo alla stirpe degli Arghérras, che un tempo dominavano il sistema multiplo della quinta galassia. Il mio amato si chiamava Egherat. Se… se non ce la facessi a fuggire, per favore, incidi i nostri due nomi sulla pietra.

    – Lo farò.

    – E come si chiama colui che mi ha liberato... restituendomi l’onore? – chiese il verras dopo alcuni istanti di silenzio.

    – Mi chiamo Erly, – rispose lui, – Erly Shin.

    Fu strano dire il suo nome: suonava come se appartenesse a qualcun’altro. Da troppo tempo non lo sentiva pronunciare. Terminò di indossare la tuta spaziale, ma una manica si impigliò sulla cerniera.

    Abbassò lo sguardo e solo in quel momento notò una piccola macchia di colore verde scuro sull’avambraccio destro.

    Era sangue verras.

    Gorgheon seguì il suo sguardo e parve rabbrividire.

    Erly gli volse le spalle prima che l’altro potesse anche solo pensare di dire qualcosa, e cominciò a incamminarsi verso il centro di controllo. Dopo qualche istante, avvertì alle sue spalle i passi pesanti del verras accelerare a perdifiato in direzione dello scalo.

    Le origini dei Nembi

    Archivi online di Kaneve

    ►Mitologia e storia ― Racconti per l’infanzia

    I Nembi furono i primi esseri creati dalla Dea dell’Alba, i più antichi e anche i più potenti.

    Vennero al mondo per suo volere. Li originò senza alcun difetto, tanto che nulla potesse essere aggiunto alla loro natura.

    Sospese tra veli di eternità, le loro esistenze scorrevano monotone, incapaci di sbagliare e quindi imparare, cambiare ed evolversi.

    La Dea si pentì della propria decisione, poiché si accorse che in tale perfezione si nascondeva un male terribile. Non avendo il cuore di distruggere ciò che aveva creato, decise di esiliare i Nembi in un’altra dimensione e li abbandonò, rinnegandoli per l’aridità delle loro vite.

    Si dedicò a dare forma all’universo quale lo conosciamo oggi, con le sue leggi imperfette e le sue fragili creature mortali. Lo amò tanto profondamente da perdersi in esso, riempiendo di sé ogni atomo, ogni stella, ogni respiro. Dimenticando il suo nome nel cuore dei viventi e lasciandovi la sua impronta… di Luce.

    Da tempo incalcolabile i Nembi cercano una strada per raggiungere la Nuova Creazione, e vendicarsi. Una gelosia accecante li spinge e li attrae, nell’inconfessato desiderio di sfiorare ancora una volta il cuore della loro Creatrice.

    2. LA VOCE

    Per un ambizioso e anziano politicante come lui, il loro primo incontro era stato sconvolgente. Se avesse potuto fuggire, senza perdere in dignità, lo avrebbe fatto all’istante.

    Quello stesso giorno ripeté più volte, e in modo compulsivo, le sue solite abluzioni, ma non ne ricavò alcun sollievo. Si sentiva macchiato in modo indelebile al centro più profondo del suo essere.

    Al principio, aveva ascoltato la Voce spinto da una curiosità morbosa: era un suono ipnotico, che evocava sensazioni contrastanti, così forti da sentirsene travolti.

    In seguito aveva sperato di dimenticarla… ma essa non l’aveva più lasciato e, come un’eco, aveva continuato a perseguitarlo con il suo insistente richiamo. Artigli che strappavano l’anima, dilaniandola un pezzo alla volta, fino a snaturare l’identità.

    Non era riuscito a resisterle. Era tornato da lei, sedotto e imprigionato.

    La Voce sapeva cose che nemmeno lui sospettava di se stesso e gliele mostrò. Gli fece anche altri doni: saperi che andavano oltre ogni immaginazione, memorie frutto di migliaia di viaggi interstellari. Ascoltarla era affascinante e terribile allo stesso tempo, come giocare con il fuoco. Una fiamma che lo stava avvolgendo tra le sue spire. E, lentamente, andava a consumarlo.

    Archemir

    Archivi online di Kaneve

    ►I Linguaggi Perduti ― Corrispondenze

    S.m. Archemir o Arc. Antico vocabolo derivato dai Linguaggi Perduti con significato attuale di sostegno, riparo, e anche ausiliatore. Nel suo significato originario l’Archemir custodisce la Luce Imperitura, l’arma leggendaria in grado di respingere ogni tenebra. Il mito ha radici profonde nella storia dei popoli di ogni galassia, relativamente all’epico conflitto tra Bene e Male.

    In alcune tradizioni lo ritroviamo come oggetto sacro e portatore di abbondanza; in altre è creduto un occulto linguaggio arcaico con un potere magico di creazione e distruzione; per altri popoli ancora l’Archemir è una creatura vivente che porta con sé la luce divina, il senza destino delle profezie di Lev’astia.

    In concreto, nessuno può dire con sicurezza che cosa sia un Archemir, sebbene interi popoli abbiano cercato di svelarne il mistero. La cerca è tutt’oggi attiva tra alcune minoranze religiose, che scorgono in tale figura una fugace speranza di vittoria contro i Nembi.

    3. IMIR

    Chiuse il libro con un tonfo secco. Le dita lunghe e sottili esitarono per un istante sulla copertina rigida, seguendone i rilievi con un lieve tremito.

    – Dunque, Mastro Sidha, avete poi deciso di partire.

    La voce incavata e calda apparteneva a una donna aramyl e il tono era quello di chi, abituato al comando, si vede suo malgrado costretto a cedere a una forza più grande. Quella silenziosa battaglia indusse l’umano a sollevare lo sguardo e ad ammirare l’esile figura seduta allo scrittoio davanti a lui.

    Figlia di una stirpe reale guerriera, che da millenni dominava il pianeta, Rasia i’Krian appariva, secondo i canoni umani, come una ragazzina appena uscita dall’adolescenza. Eppure su quelle spalle gravava il peso immane di un intero pianeta.

    La carica di Imir di Kaneve era passata a lei dopo la morte del padre ultracentenario, Shen i’Krian Quarto. Nessuno sarebbe stato pronto per affrontare un tale compito, men che meno ora, con la sfida di un nemico alle porte e nuove ondate di profughi che invadevano disperati un pianeta già affollato.

    Erano tipicamente aramyl l’arroganza di non volere ammettere quando un compito soverchiava le proprie forze, e la risolutezza nell’affrontare sfide impossibili. Rasia incarnava entrambi gli aspetti, sublimandoli nella sua abilità al comando.

    Quel giunco dai muscoli d’acciaio, con un corpo da donna acerba, che scompariva nelle vesti da cerimonia, stava compiendo ciò che il defunto padre non era riuscito a portare a termine.

    Si era circondata di persone capaci, aveva ascoltato pareri, studiato culture straniere, e dato udienza a popoli alieni dalla mentalità a dir poco eccentrica, poi aveva lasciato libero sfogo all’istinto, ed era stata capace di tratteggiare un’articolata lettura sociologica della nuova civiltà multietnica di Kaneve, cogliendone i bisogni.

    Fino a quel momento, la sua guida era stata ineccepibile.

    I suoi grandi occhi a pupilla verticale, scuri e acuti, fissavano ora la parete di pioggia che dalle finestre rivolte a nord calava furiosa sui giardini del palazzo. Una nebbia densa si era raccolta ai bordi delle montagne più lontane, come spuma marina, sollecitata dai forti venti invernali della Cordigliera. Su tutto, la luce sbiadita di Aremas, la stella verde che illuminava il pianeta, creava un dolce gioco di ombre, irradiando di toni freddi la stanza dove si trovavano.

    L’umano si soffermò sul viso della giovane: le sopracciglia sottili, la pelle color rame sul volto ovale, e i luccicanti capelli neri che declinavano lungo le spalle. Il suo respiro era lieve, regolare, ma leggermente più rapido di quello di un essere umano. La bocca era stretta in una pallida linea severa. – Vi vedo contrariata, – commentò infrangendo la barriera di silenzio che si era creata tra di loro.

    – Davvero? È un’ipotesi riduttiva, – replicò lei, con lo stesso tono cadenzato di poco prima. La bocca le si piegò in una smorfia, mentre si voltava a fissarlo, francamente, come era nel suo stile. – Voi siete stato il mio precettore da quando avevo cinque anni, Mastro Sidha. Ci sono stati momenti in cui vi ho odiato e altri in cui ho desiderato poteste sostituire mio padre. Mi state chiedendo il permesso di lasciarmi, ora che ho più bisogno di voi?

    Lui le restituì lo sguardo. – Sì, – rispose con semplicità.

    La giovane inspirò a forza, reggendosi ai bordi dello scrittoio. – Perché? – chiese in tono controllato.

    Sidha si mosse verso le finestre; disse ciò che sapeva l’avrebbe fatta infuriare, ma che sfortunatamente era anche la verità. In qualità di suo istitutore si era impegnato a non offrirle mai niente di meno. – Un Capercurian non ha bisogno di chiedere il permesso al suo Imir, dovreste saperlo, altezza.

    E, come previsto, lava incandescente prese a sciabordare dentro quei due specchi di scintillante onice.

    – Questo vostro… viaggio, – replicò a denti stretti, – questa vostra fuga, non ha niente a che fare con l’Ordine, né con l’Accademia. State cercando qualcosa che non esiste: una favola, una leggenda per bambini. La vostra fede non dovrebbe intralciare o compromettere i compiti che vi siete assunto.

    L’uomo socchiuse gli occhi, punto sul vivo. – Dunque, non posso avere segreti con voi. Da chi l’avete saputo?

    Le pupille di lei si dilatarono di poco, quanto bastava per evidenziare il suo notevole imbarazzo. L’uomo era alto, dal portamento fiero, nonostante l’età avanzata. Torreggiava su di lei, avvolto in una calma quasi innaturale. Non poté fare a meno di balbettare mentre gli rispondeva: – Il M…Mentore Atravas.

    Sidha annuì. – Capisco.

    Rasia si alzò in piedi e in un movimento rapido, come se fluttuasse attraverso la stanza invece di camminare, gli si fece accanto posandogli una mano sulla spalla.

    – Ero preoccupata per voi, – rivelò, mentre le braci nello sguardo si trasformavano in un altro tipo di calore: l’affetto di un’allieva per il proprio maestro. – Lo siamo tutti! Proprio ora che Kaneve ha bisogno di voi, che io ho bisogno di voi, andate a indagare su una ridicola fiaba per bambini.

    – L’Archemir non è una fiaba, fanciulla mia, – rispose l’uomo scuotendo la testa. – È forse l’unica difesa che ci rimane contro le forze che sono in movimento contro questo pianeta e i suoi popoli.

    L’Imir si scostò di poco. – E dovete trovarlo proprio voi? Per quale motivo? Non avete più fiducia nelle capacità dell’Ordine, nelle mie capacità? A tal punto è arrivata la vostra disperazione!

    Quest’ultima non era una domanda e non voleva esserlo.

    La giovane si diresse al centro della stanza e con un movimento aggraziato accese un ologramma che mostrava un immenso pianeta blu, dominato dagli oceani, le cui terre emerse sembravano punteggiare solo una piccola parte della superficie.

    – Su Kaneve vivono oltre mille specie senzienti, e molte di più orbitano attorno al pianeta, in attesa di un Visto per sbarcare. Si tratta di una convivenza forzata, perché niente unirebbe creature tanto diverse tra loro, se non il terrore dei Nembi. Dire che abbiamo problemi di sovraffolamento e ordine pubblico appare quasi ridicolo a questo punto. Quanto basta per destabilizzare il mio potere e la civiltà di questo pianeta. – La sua voce si fece imperiosa: – Quando governava mio nonno, gli aramyl erano l’unico popolo su cui vigeva la legge di Kaneve. Ora l’Imir deve trovare il modo di persuadere questi stranieri ad accettare delle regole che spesso e volentieri sono contrarie al loro stesso ordine morale, ma che sono necessarie per evitare la guerra civile. Siamo l’unico pianeta sopravvissuto all’assalto dei Nembi. E sono alle porte ormai. Abbiamo avvistato alcune delle loro sentinelle nella Fascia di Asteroidi. È chiaro che stanno cominciando ad accerchiarci. Come potete pensare di abbandonare tutto in un momento simile?

    Sidha sostenne il suo sguardo. – Mia cara Rasia, voi siete più preparata di quanto pensiate ad affrontare la situazione, e la solitudine, a questo punto, non farà altro che incrementare la lucidità delle vostre decisioni. Siete in grado di capire il vostro popolo, il suo cuore sfaccettato. Questo di per sé è già un carisma da sovrani.

    L’Imir tornò da lui, afferrandogli le mani in una stretta convulsa. – Ma ditemi almeno perché… Datemi qualcosa a cui aggrapparmi…

    Addolcendo lo sguardo, lui le sorrise. – Non è per i motivi che pensate: la cieca fede di un vecchio, né per disperazione, e nemmeno per avere il tempo… di riprendermi, come crede il mio amico Atravas. Non so se possiate capire… non avete avuto l’addestramento di un Capercurian.

    – Vi prego, cercherò di comprendere.

    L’umano si passò una mano sul volto. – Voi sapete che l’universo è immerso in una rete di Luce, – spiegò in tono paziente. – Quando una creatura nasce, quando muore, crea un’increspatura in essa. Come potete immaginare, estendendo il concetto a tutti i viventi, si tratta di un oceano piuttosto agitato. – Sorrise all’idea, mentre gli occhi seri dell’Imir rimanevano puntati su di lui. – In teoria, quindi, – riprese, – non ci si dovrebbe sorprendere per qualche ondata imprevista. Ma, con tutta la buona volontà di questo mondo, non si può ignorare l’avvento di un maremoto.

    Gli occhi di lei si accigliarono. – Un… maremoto?

    – Direi proprio di sì.

    – E voi l’avete avvertito?

    – In lontananza, come una bolla d’acqua in una pentola.

    – Pensavo aveste detto che era piuttosto forte.

    – E lo era, infinitamente.

    – Non capisco.

    – Vedete, Rasia, la variazione di Luce che una creatura emette quando, supponiamo, viene al mondo, è tradotta in un punto preciso… il nostro maremoto invece ha influenzato l’intera rete.

    – L’intera… rete?

    Sidha rise suo malgrado. – Non c’è che dire, le ha dato proprio uno scossone.

    – E voi credete che si tratti del leggendario Archemir?

    – Mi chiedo cos’altro potrebbe essere di così potente da influenzare il campo di Luce dell’universo con la sua presenza.

    – Un Nembo, per esempio, – replicò lei freddamente.

    – Se così fosse, che senso avrebbe attendere: potrebbero attaccarci subito.

    – Siete stato l’unico ad avvertirlo?

    – È stato troppo breve perché chiunque altro lo potesse prendere sul serio, l’hanno archiviato come un’interferenza.

    – E chi vi dice che il vostro Archemir sia davvero su Kaneve?

    – L’avete detto voi stessa: questo è l’ultimo pianeta rimasto. L’ultimo rifugio della vita, per come la conosciamo. Se non si trova già qui, arriverà presto.

    Il rumore della pioggia crebbe d’intensità insieme al vento. Alcuni rami sferzarono bruscamente i vetri della grande finestra, facendoli stridere.

    Rasia si appoggiò in avanti, le mani posate sulla pietra bianca del davanzale, lo sguardo perso tra le ombre della sera che si avvicinava. L’uomo stava alle sue spalle, non aspettando una sua benedizione, ma attendendo che lei accettasse l’idea di lasciarlo andare. Una nuova lezione che doveva apprendere.

    Dopo un lungo silenzio, mormorò: – Dunque, Mastro Sidha, vi affidate a un’intuizione.

    – Alla speranza… in verità.

    – Dove andrete?

    – All’eremitaggio di Dònar, nella Foresta di Nuvole: ho bisogno di risposte.

    La giovane aramyl lo fissò a occhi spalancati. Nessuno, a parte i pazzi o i santi, osava attraversare quella regione. Si augurò con tutto il cuore che il suo precettore facesse parte della seconda categoria.

    Il pianeta-città

    Archivi online di Kaneve

    ►Ricerche civiche.

    La Città si estende su tutte le terre emerse.

    Le antiche Province aramyl, che la formavano, sono ora suddivise in Quartieri che prendono il nome dalle razze aliene che li abitano.

    Virhasta è la Provincia dove vive la regina-guerriera di Kaneve e dove ha anche sede l’Accademia dei Capercurian. È considerata la culla della civiltà aramyl, tutt’ora abitata dall’aristocrazia del pianeta.

    Altre regioni storiche sono Avaste, a ovest, Ghetro e Raal, nelle terre meridionali.

    Le Città galleggianti e i Regni Acquatici di Péllin sono di nuova concezione, ideati per accogliere le specie anfibie e acquatiche provenienti dai pianeti distrutti dai Nembi. (…)

    Il personale degli Scali di Frontiera dirige l’accesso al pianeta secondo le linee guida elaborate dal Codice etico-biologico del Concordato delle Specie, che valutano l’adattabilità, la capacità sociale, il potenziale contributo tecnologico, la compatibilità biologica. (…)

    Per accedere al pianeta, ogni popolo deve mettere a disposizione le proprie conoscenze, al fine di favorire le opere di adattamento urbanistico e sociale sul pianeta, e naturalmente assoggettarsi alle leggi aramyl.

    4. LO SCALO ORBITALE

    Il suo primo pensiero fu quanto fosse difficile il semplice atto di respirare, tanto che avrebbe di gran lunga preferito restare nell’oscurità calda e accogliente dove si trovava prima. Ma la luce lo attirava a sé. Insistente e incurante dei suoi desideri.

    Avvertiva un senso di oppressione al torace, come se un peso immane vi premesse a tutta forza. Cercò di liberarsene, ma non riusciva a muovere le braccia: le sentiva distese ai fianchi, ma non poteva spostarle nemmeno di un millimetro. Provò a divincolarsi, nel tentativo di fare scivolare di lato quel macigno terribile, tuttavia anche il resto del corpo era sordo ai suoi comandi, immobile e pesante, in caduta libera verso un abisso infinito, senza fondo, giù, sempre più giù…

    Riprese di nuovo conoscenza senza sapere per quanto tempo avesse vagato nella sua mente. Provò a deglutire, però gli risultò difficile: qualcosa gli ostruiva la gola. Se almeno qualcuno l’avesse aiutato ad alzare la testa! In quella posizione (si rese conto di giacere supino), era quasi impossibile inalare aria a sufficienza. Per un istante fu preso dal panico, credette di stare per soffocare.

    Avvertì un fischio indistinto provenire da un punto vicino alla sua testa. Dopo un poco, il fischio si separò in frammenti. In ticchettii. Troppo veloci, valutò, per essere quelli di un orologio. Erano frenetici, irregolari, selvaggi. E da essi originò un calore, un fuoco insopportabile che gli dilaniò i polmoni. Alcune voci emersero all’improvviso, sembravano allarmate, in affanno.

    Qualcosa gli premette l’avambraccio e i ticchettii rallentarono gradualmente. Il fuoco si spense in una serie di braci che si sparpagliarono dentro il suo torace. La testa gli venne sollevata di qualche centimetro e quando fu riappoggiata una fredda luce bianca balenò per un istante da sotto le palpebre socchiuse.

    Era più calmo ora. Intravedeva alcune ombre muoversi attorno a lui. Lo stavano aiutando, comprese, a stare meglio. Non riusciva ancora a trovare il modo di emergere dallo stato di torpore in cui si trovava, ma non era più spaventato. Attendeva con pazienza che il proprio corpo fosse pronto a reagire ai comandi del cervello.

    Dopo quello che gli parve un tempo infinito, cominciò a sentirsi bene: le voci si erano fatte più chiare ora, i movimenti e i suoni intorno a lui più familiari.

    Qualcuno gli passava un panno fresco sul viso, una mano calda infilava un ago nella mano destra, qualcosa gli sfiorava il volto come in una carezza. Lo sbuffo di una porta che si apriva, scivolando lungo la parete. Il rumore di un oggetto che cadeva, in corridoio. Voci che chiacchieravano, una discussione.

    A un certo punto, senza alcun preavviso, si accorse di avere gli occhi aperti e di stare fissando il soffitto della stanza. Semi-abbagliato dalla luce della lampada sopra la sua testa, non si accorse che qualcuno gli stava parlando se non alla terza ripetizione della domanda.

    – Erly, riuscite a sentirmi?

    Muovere gli occhi e mettere a fuoco la donna che gli aveva appena rivolto la parola fu complicato, come se avesse dovuto reimparare a usare la vista.

    Per nulla scoraggiata dalla sua lentezza, lei replicò pazientemente: – Sono la dottoressa Ashkira. Vi trovate nell’ospedale dello Scalo orbitale di Kaneve. Siete stato molto male a causa di un contatto con il veleno verras, ma fortunatamente siamo riusciti a curarvi. Appena in tempo, direi. Provate a seguire il mio dito…

    La dottoressa Ashkira era una graziosa aramyl, dai corti capelli biondi e grandi occhi color nocciola a pupilla verticale. Come per tutti quelli della sua specie era praticamente impossibile indovinarne l’età, al suo sguardo umano sembrava giovanissima. Agiva con piglio pratico e professionale.

    Erly cercò di seguire diligente le sue istruzioni, ma per qualche motivo i movimenti delle sue mani e la voce gli misero una grande sonnolenza. Chiuse gli occhi, pur rimanendo vigile, cercando di vincere il torpore.

    – Avete bisogno di riposare, – mormorò la dottoressa.

    Dopo qualche istante, sentì che gli veniva accostata alla bocca una cannuccia, provò a tirare un sorso e scoprì che era acqua: deliziosa, fresca acqua. Liquido puro e trasparente. Fu un autentico sollievo, dopo le acri brodaglie theriane a cui era abituato.

    Riuscì ad aprire gli occhi e a biascicare un grazie.

    L’aramyl sollevò un sopracciglio, studiandolo in volto. Ciò che pensò in quel momento, lo tenne per sé. Terminò i controlli e gli disse che sarebbe tornata. Erly scivolò all’istante in un sonno senza sogni.

    Dieci ore più tardi, sedeva sul letto dell’ospedale, assaltando il suo primo vero pasto. Il fatto che fosse una gelatina grigia e insapore non faceva alcuna differenza. Era oro puro e lui l’assaporò dalla prima all’ultima cucchiaiata.

    Quando arrivò la dottoressa, aveva già preparato una lunga lista di domande da fare, ma lei lo placò subito, dicendo che doveva procedere con un’altra serie di controlli. Se ne andò rapida, lasciandolo in uno stato di completa frustrazione.

    Stava fissando tristemente l’oblò della sua stanza, dal quale si intravedeva la superficie color cobalto del pianeta Kaneve, quando una presenza poderosa fece capolino dalla porta.

    – Gorgheon! – La sua voce inciampò scordata. Sarebbe saltato giù dal lettino, se non fosse stato per una flebo che ancora gli bloccava il braccio. Scostò le lenzuola e si mise a sedere, socchiudendo gli occhi per un forte capogiro.

    Il verras si piegò per entrare e dovette rimanere inclinato, con il capo che cozzava contro il soffitto. Teneva i tentacoli raccolti educatamente dietro la schiena e si muoveva tra i macchinari medici con la diligente prudenza di un artificiere di fronte a una bomba da disinnescare.

    Modellò a suo beneficio un volto, con occhi e bocca rudimentali. – Sono felice di vedere che stai meglio.

    – Volevo chiedere tue notizie, ma la dottoressa non mi ha lasciato parlare, – replicò Erly, già con il fiato corto, in quella che era la frase più lunga pronunciata da quando aveva ripreso conoscenza.

    Gli occhi del verras saettarono all’insù in un’espressione molto umana: – Non dirmelo! Ho dovuto chiedere un permesso speciale per venirti a trovare. Sembra che il personale di questo posto non gradisca molto la mia presenza.

    Erly sorrise nel vederlo in piena forma. – Credo di doverti la vita, amico mio.

    Uno dei tentacoli scivolò cauto verso il suo polso destro e lo strinse, leggero come una piuma. – Non è nulla in confronto a quello che tu hai fatto per me. – Un tremolio nel suo corpo tradì l’emozione di quelle parole. – Adesso abbiamo un legame a vita. Siamo fratelli.

    Erly sollevò gli occhi su di lui, colmi di curiosità: – Come sei riuscito a farci fuggire?

    Gorgheon, non trovando altro su cui accomodarsi, si sedette per terra con un tonfo che fece sobbalzare diverse apparecchiature mediche.

    – Dopo che ci siamo divisi, – iniziò a raccontare, – ho raggiunto lo scalo dei trasporti. Sono riuscito a recuperare una navetta e ti ho raggiunto al centro di controllo; avevi disattivato le griglie della cupola atmosferica ma eri privo di sensi: il veleno ti era già entrato in circolo. Una volta nello spazio, ho captato la trasmissione di un cargo profughi diretto su Kaneve. Era su una frequenza disturbata, quasi illeggibile, ma sufficiente per permettermi di tracciare una rotta. Non avevo molto tempo e l’ho seguita.

    Erly annuì. – Un colpo di fortuna, – commentò.

    Gorgheon sorrise. – Non essendoci più i Nembi in orbita a ostacolare le trasmissioni, ho potuto orientarmi.

    – Devi avere pilotato come un pazzo...

    Il verras emise un profondo sospiro di soddisfazione. – Beh, il motore della navetta si è sciolto… alla fine.

    Erly rimase senza parole.

    – Stavi peggiorando a vista d’occhio, – proseguì. – Ho sfondato l’hangar dello Scalo orbitale, non avevo tempo per decelerare. Si sono un po’ arrabbiati, – aggiunse, – ma non ne avevano motivo. Era un rischio calcolato. Ti ho detto che sono un pilota molto esperto?

    – Sì, – rispose Erly con voce atona, – me lo avevi detto. – Immaginava l’effetto devastante di quell’irruzione verras nei precisi e ordinati comparti aramyl. – Cavoli, quanto avrei voluto vedere le loro facce! – sussurrò.

    Gorgheon espose una fila di denti simmetrici, in quello che voleva essere un sorriso compiaciuto: sembrava invece il ringhio di un mostro carnivoro prima della sua cena. Erly si augurò che la dottoressa non entrasse nella stanza proprio in quel momento.

    – Per quanto tempo… da quanto mi trovo qui? – chiese schiarendosi la voce.

    Lui ci rifletté un momento. – Circa venti giorni, se non sbaglio… in base al computo del pianeta.

    Erly abbassò lo sguardo, deglutire era ancora piuttosto difficile.

    – Cosa farai adesso, Gorgheon? – gli chiese.

    Gli occhi dell’amico scomparvero dal volto informe. Sembrava piuttosto imbarazzato. – Oh, non so. Il personale dello scalo ha detto che mi rilasceranno un Visto per il pianeta. Ho scoperto che non è affatto facile ottenerne uno. Gli accessi sono sorvegliati e le guardie non fanno complimenti a chi tenta di passare senza documenti. Pare ci sia forte richiesta di esseri della mia specie nella Flotta Spaziale dell’Imir, ci sto pensando.

    – Sono contento per te, – fece Erly, – così almeno ti riunirai alla tua gente.

    – Mi hanno detto che non ci sono altri verras su Kaneve, – replicò amaro Gorgheon. – Il cargo che stavo scortando, quando mi hanno catturato, non è mai arrivato a destinazione. Nessun sopravvissuto. Niente. Sembra proprio che io sia… l’ultimo della mia specie.

    Un silenzio desolante sottolineò quelle parole.

    Dopo qualche istante il verras si chinò su di lui: – Erly? Va tutto bene? Percepisco uno squilibrio nel tuo organismo. Devo chiamarti qualcuno?

    – No, – riuscì lui a rispondere con voce impastata. – È solo un… capogiro.

    Il verras borbottò un commento inudibile.

    Erly sentiva il cuore martellargli nelle tempie, si scostò il colletto del camice per respirare meglio.

    Nessun sopravvissuto. Niente!

    Le parole dell’amico continuavano a echeggiare nella sua testa. Il popolo dei verras aveva imperato su centinaia di pianeti. Un’intera razza cancellata dalla faccia dell’universo. Gorgheon era sfuggito alla prigionia theriana per… cosa? Per ritrovarsi solo, in mezzo a una comunità di alieni? Per morire in un luogo estraneo, combattendo per un mondo che non sarebbe mai stato suo o dei suoi eredi?

    – Mi dispiace, – riuscì a dire con un filo di voce.

    Uno dei tentacoli gli sfiorò il viso. – È stata dura, ma sto cercando di accettarlo, – replicò. Poi aggiunse con un tono d’ansia nella voce cavernosa: – Cerca di calmarti, Erly. Stai facendo andare in tilt tutti gli allarmi biometrici.

    Se ne rese conto solo in quel momento; a causa del crescente ronzio alle orecchie non ci aveva fatto caso: intorno a lui si stava scatenando un’autentica babele di segnali acustici e luminosi. Non passò un istante che

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