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L ultima preda
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L ultima preda

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About this ebook

La storia di Sean, figlio di Shasa Courtney e Tara Malcomess e pronipote dell’indimenticabile protagonista de Il destino del leone, sullo sfondo di un Sudafrica dilaniato da guerre fratricide.
Uno dei più bei romanzi di Wilbur Smith, in una nuova traduzione.


Dopo aver combattuto con gli Scout di Ballantyne durante la guerra civile in Rhodesia, Sean Courtney è diventato un cacciatore professionista. Non è il primo safari che organizza per Riccardo Monterro, ma questa volta l’ostinato milionario è accompagnato dalla bellissima fi glia, Claudia, che ha accettato di seguirlo nella sua ultima spedizione, alla ricerca di un leggendario elefante maschio: il vecchio Tukutela. Ma l’astuzia dell’animale e l’ossessione di Monterro, che non è disposto a rinunciare a catturarlo, li porta a sconfinare nel vicino Mozambico, ancora insanguinato dalla guerra civile. Di colpo, quella che doveva essere un’avventurosa vacanza si trasforma in una disperata lotta per la sopravvivenza. E toccherà a Sean aiutarli a sfuggire al predatore più pericoloso di tutti: l’uomo.

LanguageItaliano
Release dateJan 28, 2021
ISBN9788830524248
L ultima preda
Author

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    L ultima preda - Wilbur Smith

    Era rimasta seduta senza muoversi per oltre due ore, e il bisogno di farlo era diventato quasi insostenibile. Ogni muscolo del suo corpo anelava alla liberazione. Aveva le natiche intorpidite e nonostante avesse ricevuto il consiglio di svuotare la vescica prima di entrare nel capanno da appostamento lei non lo aveva fatto, imbarazzata dalla compagnia maschile e ancora troppo intimidita dalla savana per allontanarsi da sola fino a un luogo isolato. Ora si rimproverava per quell’eccesso di pudore e di insicurezza.

    Guardava dalla feritoia della rozza struttura ricoperta d’erba, situata all’estremità di una stretta galleria scoperta che i portatori avevano scrupolosamente liberato dalla fitta vegetazione della savana, perché anche un solo stelo avrebbe potuto deviare un proiettile lanciato a tremila piedi al secondo. La galleria era lunga una sessantina di iarde, sufficienti per consentire un perfetto allineamento del mirino telescopico del fucile.

    Senza muovere la testa Claudia girò gli occhi verso il padre, seduto accanto a lei nel capanno. Aveva appoggiato la canna del fucile davanti a sé, nell’incavo di un ramo, e teneva la mano destra sul calcio: gli sarebbe bastato avvicinarlo alla guancia di pochi pollici per essere pronto a mirare e fare fuoco.

    Nonostante il disagio fisico, il pensiero di vederlo usare quell’arma lucida e sinistra la irritava. Del resto quell’uomo le suscitava sempre emozioni contrastanti, nulla di ciò che diceva o faceva poteva lasciarla indifferente. Esercitava un dominio completo sulla sua vita e lei lo odiava e lo amava per questo. Cercava continuamente di liberarsi, e lui ogni volta la riportava indietro senza sforzo. Sapeva che il motivo principale per cui non era ancora sposata a ventisei anni, nonostante la sua bellezza, i suoi successi e le innumerevoli proposte ricevute, almeno due delle quali da parte di uomini di cui in quel momento credeva di essere innamorata, era l’uomo accanto a lei. Non aveva mai trovato nessuno che reggesse il confronto con il padre.

    Il colonnello Riccardo Monterro era un soldato, un ingegnere, uno studioso, un buongustaio, un uomo d’affari multimilionario, un atleta, un bon vivant, un dongiovanni, uno sportivo – ogni descrizione gli calzava a pennello eppure nessuna era sufficiente, per come lo conosceva lei. Quelle definizioni non coglievano la forza e la gentilezza che glielo facevano amare, né la crudeltà e la spietatezza che glielo facevano odiare. Non spiegavano quello che aveva fatto a sua madre per ridurla a un’alcolizzata distrutta e abbandonata. Claudia sapeva che sarebbe stato capace di distruggere anche lei, se glielo avesse permesso. Lui era il toro e lei il matador. Era un uomo pericoloso, e proprio da lì derivava gran parte del suo fascino.

    Una volta qualcuno le aveva detto: «Certe donne si innamorano sempre di autentici bastardi». Sul momento aveva deriso quell’idea, ma ripensandoci più tardi era arrivata a rivalutarla, almeno in parte. Dio sapeva se suo padre non era uno di quei bastardi. Un gran bastardo chiassoso, con il fascino, lo sguardo magnetico e il sorriso smagliante delle origini latine, capace di cantare come Caruso e di mangiare tutta la pasta che gli metteva nel piatto. Era nato a Milano ma in realtà era quasi del tutto americano, perché i nonni di Claudia erano emigrati a Seattle dall’Italia di Mussolini quando Riccardo era molto piccolo.

    Claudia aveva ereditato da lui l’aspetto fisico, gli occhi, i denti e la pelle olivastra e luminosa, ma cercava di respingere tutti i valori che in lui la disturbavano e di prendere sempre la strada opposta alla sua. Aveva scelto di studiare Legge per ribellarsi alle sue tendenze criminali e dato che lui era repubblicano aveva deciso di essere democratica, molto prima di cominciare a capire qualcosa di politica. Dato che per il padre la ricchezza e i beni materiali erano tanto importanti, lei aveva rinunciato al posto da duecentomila dollari l’anno che le era stato offerto quando si era laureata, quinta del suo corso, e aveva scelto di lavorare all’agenzia per i diritti civili per quarantamila dollari l’anno. Papà aveva comandato un battaglione di genieri in Vietnam e usava ancora l’espressione musi gialli, quindi l’impegno di Claudia con le popolazioni inuit dell’Alaska era ancora più soddisfacente per la disapprovazione che riceveva da lui. Riccardo chiamava musi gialli anche gli eschimesi. Eppure Claudia aveva accettato di seguirlo in Africa e l’orrenda verità era che lui ci era venuto per uccidere degli animali e che lei era sua complice.

    A casa consacrava tutto il tempo libero all’impegno pro bono per la Alaskan Nature and Wildlife Conservation Society. L’organizzazione dedicava quasi tutte le proprie risorse a combattere contro le compagnie petrolifere e i danni ecologici che causavano. L’azienda del padre, la Anchorage Tool and Engineering, era una delle principali fornitrici di materiali per le compagnie di trivellazione e gestione degli oleodotti. Le sue scelte di vita erano ben calcolate.

    Eppure eccola lì, in un paese straniero, ad aspettare docilmente che lui assassinasse qualche meraviglioso animale selvatico. Era disgustata dalla propria doppiezza. Quelle spedizioni venivano chiamate safari. Non avrebbe mai nemmeno considerato l’idea di diventare complice di un delitto così efferato, e infatti in passato aveva sempre rifiutato con sdegno le proposte del padre di accompagnarlo, ma pochi giorni prima di ricevere quell’invito aveva scoperto un segreto che l’aveva convinta ad accettare. Quella avrebbe potuto essere l’ultima occasione, in assoluto, in cui sarebbe stata sola con lui. L’idea la sconvolgeva ancora più della losca impresa in cui si erano imbarcati.

    Mio Dio, pensò, che cosa farò senza di lui? Che ne sarà del mio mondo?

    Quel pensiero le fece voltare la testa per guardare sopra la spalla. Era il primo movimento che faceva in due ore. Dietro di lei, fra le strette pareti di paglia del capanno, era seduto un altro uomo. Era un cacciatore professionista: suo padre aveva partecipato a una dozzina di altri safari con lui, ma Claudia l’aveva conosciuto solo quattro giorni prima, quando erano sbarcati dal volo di linea della South African Airways ad Harare, la capitale dello Zimbabwe. L’uomo li aveva caricati sul suo bimotore Beechcraft Baron e li aveva portati in quella vasta e remota riserva di caccia vicino al confine col Mozambico, che gestiva con l’autorizzazione del governo.

    Si chiamava Sean Courtney. Lo conosceva soltanto da quattro giorni ma lo odiava come se lo conoscesse da sempre.

    Non c’era da stupirsi che pensare al padre l’avesse istintivamente portata a guardare verso di lui. Courtney era un altro uomo pericoloso. Duro, spietato e così diabolicamente attraente che il suo istinto era subito entrato in allarme.

    Gli occhi verde chiaro in quel viso abbronzato le lanciarono uno sguardo severo, accigliandosi per l’irritazione del suo movimento ed evidenziando le zampe di gallina negli angoli. Sean le sfiorò il fianco con l’indice per richiamarla all’immobilità. Fu un contatto leggero, ma anche da un solo dito lei percepì la sconcertante potenza maschile del suo corpo. Aveva già notato le sue mani, sforzandosi di non ammirarne la forma aggraziata. Sono le mani di un artista, di un chirurgo o di un assassino, aveva pensato, ma in quel momento la perentorietà di quel tocco la fece infuriare. Era quasi come una violenza sessuale. Tornò a guardare fuori dalla feritoia, fumante di rabbia. Come osava toccarla! Sentiva un punto bruciante sul fianco, come se l’avesse marchiata.

    Quel pomeriggio, prima di lasciare l’accampamento, Sean aveva insistito perché tutti si lavassero con uno speciale sapone portato da lui, privo di fragranze. Aveva raccomandato a Claudia di non usare profumi e quando era tornata dalla doccia aveva trovato sulla branda degli indumenti lavati e stirati, portati da un inserviente: un paio di pantaloni e una camicia kaki.

    «Quei gattoni possono fiutarla a due miglia, sottovento» le aveva detto Sean. Dopo due ore nella calura della valle dello Zambesi però riusciva a sentire il vago aroma che emanava da lui, così vicino da poterlo quasi toccare, un sudore maschio che la spingeva in modo quasi irresistibile ad agitarsi sulla sedia di tela. La faceva sentire irrequieta, ma si obbligò a restare immobile. Si trovò a fare dei respiri profondi per cogliere il sentore intermittente di lui, ma appena se ne rese conto si bloccò indignata.

    A pochi pollici dai suoi occhi una foglia verde che pendeva da un ramo sopra di loro si staccò e cadde lentamente ruotando intorno al picciolo, come un segnavento. Quasi subito Claudia percepì un cambiamento nella brezza della sera.

    Sean aveva orientato la feritoia in favore del vento principale e la corrente d’aria che li aveva investiti portò un odore nuovo, quello della carcassa di bufalo usata come esca. Era una femmina anziana, Sean l’aveva scelta in una mandria di duecento esemplari.

    L’aveva indicata a Riccardo: «Quella vecchietta sicuramente non è più fertile». Poi gli aveva ordinato: «La colpisca sotto la spalla, dritto al cuore».

    Era la prima volta in assoluto che Claudia assisteva all’uccisione deliberata di un animale. Il frastuono del pesante fucile l’aveva sconvolta, ma non quanto il fiotto di sangue vermiglio sotto la luce calda dell’Africa e il lugubre urlo di agonia della femmina colpita a morte. Era tornata verso il fuoristrada Toyota scoperto e si era seduta da sola al posto di guida, in preda a un attacco di nausea e sudori freddi, mentre Sean e i suoi battitori macellavano la carcassa.

    L’avevano appesa ai rami bassi di un fico selvatico con l’aiuto dell’argano montato sul fuoristrada, fra grandi discussioni sull’altezza che avrebbe permesso a un leone adulto di raggiungerla alzandosi sulle zampe posteriori e di saziare parzialmente la propria fame, senza che un branco di esemplari più piccoli potesse finirla tutta in modo da spostarsi alla ricerca di altre prede.

    Era successo quattro giorni prima, ma già mentre lavoravano i mosconi della carne, grossi insetti di colore verde metallico, erano arrivati in massa attirati dall’odore del sangue fresco. Ormai il calore e gli insetti avevano fatto il loro lavoro e Claudia storse il naso quando fu raggiunta dal fetore portato dal vento. Le sembrava di sentirlo come una patina viscida sulla lingua e in fondo alla gola. Guardò la carcassa fra i rami e immaginò di vedere la pelliccia scura agitarsi debolmente per il brulichio delle larve nella carne marcia.

    Sean l’aveva annusata, prima di entrare nel nascondiglio. «Meraviglioso. Proprio come un Camembert ben stagionato. Nessun gattone nel raggio di dieci miglia potrà resistere.» Mentre aspettavano il sole calò stancamente dal cielo e i colori della savana diventarono più intensi, non più slavati dalla luce violenta del mezzogiorno.

    La lieve frescura della brezza serale sembrò riscuotere gli uccelli selvatici dall’intontimento dell’afa. Dalla vegetazione sulle rive del ruscello un turaco verde lanciò un richiamo rauco, simile a quello di un pappagallo: «Kok! Kok! Kok!», e fra i rami sopra le loro teste due nettarinidi dal piumaggio lucente frullarono le ali, appendendosi a testa in giù per succhiare il nettare dai pennacchi delle infiorescenze. Claudia, estasiata, sollevò lentamente la testa per guardarli. Era così vicina da distinguere le lingue tubolari che si insinuavano nei fiori gialli, ma le creaturine la ignoravano completamente, come se facesse parte dell’albero.

    Stava ancora guardando gli uccelli quando si accorse che sul capanno era scesa una certa tensione. Suo padre si era irrigidito, contraendo leggermente la mano sul calcio del fucile. La sua eccitazione era quasi palpabile. Guardava fuori dalla feritoia, ma per quanto si sforzasse Claudia non riuscì a capire che cosa lo avesse colpito. Con la coda dell’occhio vide che Sean Courtney stava allungando una mano in mezzo a loro, con infinita lentezza, per bloccare il gomito del padre.

    Poi sentì il sussurro, più lieve della brezza. «Aspetti.»

    E così aspettarono, nell’immobilità più assoluta, e i minuti lentamente divennero dieci e poi venti.

    «A sinistra» sibilò Sean all’improvviso, tanto che Claudia sobbalzò, anche se quel mormorio era stato quasi impercettibile. Girò lo sguardo ma non vide nulla, soltanto erba, cespugli e ombre. Continuò a guardare, senza battere le palpebre, finché gli occhi non cominciarono a bruciare e a riempirsi di lacrime. Dovette chiuderli più volte e poi guardare di nuovo, e finalmente vide un movimento, come di nebbia o di fumo, un accenno di bruno nell’erba alta bruciata dal sole.

    Di colpo, un animale irruppe nel terreno scoperto preparato sotto la carcassa maleodorante appesa ai rami del fico.

    Claudia soffocò un’esclamazione istintiva e poi il respiro le si bloccò in gola. Era l’animale più splendido che avesse mai visto, un felino enorme, molto più grande di quanto si aspettasse, agile, lustro e dorato. La bestia voltò la testa e la guardò dritto negli occhi. Claudia vide la pelliccia morbida sulla gola e le lunghe vibrisse bianche che scintillavano al sole. Le orecchie arrotondate e dalla punta nera erano dritte, in ascolto. Gli occhi erano gialli, implacabili e lucenti come pietre di luna, e le pupille erano ridotte a punte di freccia nere che scrutavano la lunga galleria scavata fino al capanno di appostamento.

    Claudia non riusciva ancora a respirare. Era paralizzata dall’eccitazione e dall’orrore sotto lo sguardo implacabile del felino. Riuscì a emettere un lieve sospiro spezzato soltanto quando l’animale girò la testa verso la carcassa.

    Stava per gridare: Non uccidetelo, vi prego. Non uccidetelo, ma poi vide con sollievo che il padre non aveva mosso un muscolo e che la mano di Sean era ancora ferma sul suo gomito per trattenerlo.

    Solo allora si rese conto che si trattava di una femmina: non aveva criniera, era una leonessa. Aveva ascoltato abbastanza conversazioni intorno al fuoco da campo per sapere che i cacciatori cercavano soltanto leoni maschi adulti e che chi uccideva una femmina rischiava severe punizioni e multe salate, addirittura la prigione. Si rilassò appena e decise di godersi appieno il momento e la bellezza sconvolgente dell’animale. La meraviglia era appena cominciata perché la leonessa, dopo essersi guardata intorno ancora una volta per assicurarsi che non ci fosse pericolo, aprì la bocca e lanciò un richiamo basso, come un miagolio.

    Quasi immediatamente i cuccioli si fecero avanti zampettando nella radura. Erano tre, morbidi come peluche, il mantello ancora maculato. Inciampavano sulle zampe troppo grosse per i loro corpicini e dopo qualche esitazione, vedendo che la madre non li fermava, si lanciarono in una lotta senza quartiere, rotolandosi uno sull’altro con flebili ruggiti di finta ferocia.

    La leonessa li ignorò e si sollevò sulle zampe posteriori per raggiungere la carcassa appesa ai rami. Infilò la testa nella pancia sventrata della bufala e cominciò a mangiare. I capezzoli neri allineati sul ventre sporgevano vistosamente e la pelliccia intorno era impregnata della saliva dei piccoli. Non li aveva ancora svezzati, così i cuccioli non si interessarono al suo pasto e continuarono a giocare.

    Poi nella radura arrivò una seconda leonessa, seguita da due cuccioli un po’ più grandi. Questa aveva la pelliccia più scura, quasi blu lungo la spina dorsale, e segnata da vecchie cicatrici, eredità di una vita di caccia, segni di zoccoli, corna e artigli. Un orecchio era mezzo strappato e le costole spuntavano sottopelle. Era anziana. I due cuccioli che la seguivano probabilmente sarebbero stati gli ultimi. Nel giro di un anno, quando i figli se ne sarebbero andati e sarebbe stata troppo debole per seguire il branco, le iene l’avrebbero presa, ma per il momento riusciva ancora a sopravvivere confidando nell’esperienza e nell’astuzia.

    Aveva lasciato che la leonessa più giovane si avvicinasse per prima alla preda perché aveva visto altri due leoni uccisi in quel modo, sotto una carcassa sospesa fra gli alberi, e non si fidava. Non cominciò a mangiare ma si mise a percorrere la radura, irrequieta, agitando la coda e fermandosi ogni tanto a fissare il sentiero scoperto e incassato che portava alla parete erbosa del capanno di appostamento.

    I suoi due cuccioli guardavano la carcassa, seduti a terra, ruggendo per la fame e la frustrazione perché la carne era chiaramente fuori dalla loro portata. Alla fine il più audace dei due prese la rincorsa e provò a saltare. Si aggrappò con gli artigli anteriori e dondolò con le zampe posteriori nel vuoto cercando di rubare in fretta qualche boccone, ma la leonessa più giovane gli si rivoltò contro furiosa, ringhiando e colpendolo finché non cadde di schiena, si rimise in piedi e si allontanò.

    La leonessa più anziana non cercò di difendere la prole. Era la legge del branco: i cacciatori adulti, i membri più preziosi del gruppo, dovevano mangiare per primi. Alla loro forza era affidata la sopravvivenza del branco. I giovani potevano mangiare soltanto dopo che gli adulti si erano saziati. Nei tempi di magra, quando le prede erano scarse o il terreno troppo esposto rendeva difficile la caccia, i giovani potevano anche morire di fame e le femmine adulte non entravano in calore finché il cibo non tornava a essere più abbondante. In questo modo il branco poteva sopravvivere.

    Il cucciolo punito strisciò di nuovo vicino al fratello sotto la carcassa e cominciò a contendergli ferocemente i brandelli di carne che la leonessa strappava dal ventre dell’animale e lasciava cadere inavvertitamente a terra.

    A un certo punto la leonessa ricadde sulle quattro zampe, chiaramente infastidita, e Claudia vide con orrore che aveva la testa ricoperta di larve bianche, strisciate fuori dalla carne che aveva mangiato. La leonessa scosse la testa schizzando larve come chicchi di riso. Si colpì freneticamente le orecchie con le zampe per togliere i vermi che cercavano di strisciarle nelle orecchie. Poi allungò il collo e starnutì violentemente, soffiando larve bianche dalle narici.

    I suoi cuccioli lo presero come un invito a giocare o a nutrirsi. Due si lanciarono verso la sua testa, cercando di appendersi alle orecchie, mentre il terzo le strisciò sotto e si attaccò a un capezzolo come una grossa sanguisuga marrone. La leonessa li ignorò e si alzò nuovamente sulle zampe posteriori per continuare a mangiare. Il cucciolo attaccato al capezzolo riuscì a resistere solo pochi secondi e poi ricadde fra le zampe della madre, che calpestò la sua dignità nello sforzo di raggiungere la preda. Strisciò via sbalordito, impolverato e sconfitto.

    Claudia non riuscì a trattenere una risatina, che cercò di soffocare con due mani. Immediatamente Sean le diede un colpo secco fra le costole.

    Solo la leonessa anziana reagì alla sua risata. Il resto del branco era troppo occupato, ma lei si accucciò e appiattì le orecchie sul cranio, fissando il sentiero che portava al capanno. Sotto quello sguardo Claudia perse ogni voglia di ridere e trattenne il respiro.

    Non può vedermi, si disse senza convinzione. Non può vedermi, giusto? Ma quegli occhi implacabili restarono fissi nei suoi per lunghi secondi.

    Poi di colpo la vecchia leonessa si alzò e strisciò via fra i folti cespugli che circondavano l’albero dell’esca. Si muoveva come un serpente, scivolando sinuosa. Claudia tirò lentamente il fiato per il sollievo.

    Mentre il resto del branco giocava, si rotolava e mangiava sul terreno scoperto, il sole scese dietro le cime degli alberi e il breve crepuscolo africano calò su di loro.

    «Se con loro c’è un maschio, arriverà adesso» mormorò Sean. La notte era il tempo dei felini, il buio li rendeva audaci e fieri. La luce calava a vista d’occhio.

    Claudia sentì qualcosa oltre la parete del capanno, un movimento furtivo nell’erba alta, ma non girò nemmeno gli occhi. Poi sentì un suono inconfondibile: il passo di una creatura pesante, agile e silenziosa ma molto vicina. Le si accapponò la pelle e mille aghi di paura le trafissero la nuca. Voltò la testa in fretta.

    La spalla sinistra era premuta contro la parete di paglia del capanno, e all’altezza dei suoi occhi c’era una fessura di un pollice. Da lì vide il movimento. Per un attimo non riconobbe l’immagine ma poi capì che si trattava di una morbida pelliccia fulva che riempiva tutta la fessura, a pochi pollici da lei, sull’altro lato della parete. Sotto il suo sguardo inorridito la pelliccia fulva la superò e vide qualcos’altro, una belva che respirava e fiutava l’aria.

    Istintivamente, senza staccare gli occhi dalla fessura, allungò la mano libera all’indietro. La sua mano fu bloccata in una morsa fresca e salda. Il contatto che solo pochi minuti prima l’aveva tanto infastidita ora le dava più conforto di quanto avrebbe mai potuto credere. Non si stupì nemmeno di aver cercato la mano di Sean invece che quella di suo padre.

    Continuò a guardare nella fessura e all’improvviso nel varco comparve un altro occhio, grande e rotondo, lucente come agata gialla; un occhio terribile e disumano, immobile, piantato nel suo con una pupilla nera al centro, a un palmo di distanza dal suo viso.

    Avrebbe voluto urlare ma aveva la gola serrata. Avrebbe voluto balzare in piedi, ma le gambe non rispondevano. La vescica gonfia le pesava sul basso ventre come una pietra e prima di poterla controllare sentì sfuggire qualche goccia calda. Questo la fece tornare in sé, l’umiliazione fu più forte del terrore: strinse le cosce e le natiche e si aggrappò alla mano di Sean, senza staccare lo sguardo da quel terribile occhio giallo.

    La leonessa fiutò di nuovo, rumorosamente, e Claudia sobbalzò in silenzio ma si trattenne. Non griderò, si disse.

    La leonessa annusò ancora la parete coperta d’erba, le narici captarono l’odore dell’uomo e fece un grugnito esplosivo che sembrò scuotere il fragile nascondiglio. Claudia trattenne l’urlo in gola con tutte le sue forze. Poi l’occhio giallo si spostò dalla fessura e sentì le grosse zampe che si muovevano intorno al capanno.

    Claudia girò la testa per seguire il rumore e si trovò a guardare Sean dritto in faccia. Sorrideva. Fu questo che la sconvolse di più, dopo quel momento terribile: quel sorriso strafottente e la derisione negli occhi verdi. Rideva di lei. La rabbia soffocò il terrore.

    Che maiale, pensò. Maledetto maiale arrogante. Sapeva di avere il viso esangue e gli occhi spalancati, oscurati dal terrore. Si odiò, e odiò lui perché la vedeva in quello stato.

    Avrebbe voluto strappare la mano dalla sua presa ma sentiva che il grosso felino era ancora là fuori, molto vicino, e che si aggirava intorno a loro. Nonostante l’odio che provava sapeva che senza il suo sostegno non sarebbe stata in grado di controllarsi. Così continuò a tenergli la mano ma voltò la testa, seguendo i movimenti furtivi della leonessa, perché Sean non vedesse la sua espressione.

    La leonessa passò davanti alla feritoia. Da lì Claudia vide il rapido spostamento del corpo dorato e si rese conto che la leonessa più giovane, messa in guardia dal grugnito di avvertimento, era sparita nel sottobosco insieme ai cuccioli. L’area di caccia sotto l’albero con l’esca era ormai deserta.

    La luce stava calando rapidamente. In pochi minuti sarebbe sceso il buio e il pensiero di quella belva selvaggia nell’oscurità era quasi insopportabile. Sean allungò una mano sopra la spalla di Claudia e le premette qualcosa di piccolo e duro contro la bocca. Per un momento lei fece resistenza, ma poi schiuse le labbra e lo lasciò fare. Era un chewing-gum.

    Restò sbalordita. Deve essere impazzito. Un chewing-gum in questo momento?

    Quando cominciò a masticarlo, però, si rese conto che aveva la bocca prosciugata, irritata e secca, come se avesse mangiato un caco acerbo. Il sapore di menta richiamò la saliva, ma era così arrabbiata con lui che non provò alcuna gratitudine. Sean aveva capito che aveva la bocca secca per il terrore e non poteva perdonarglielo.

    La leonessa ringhiò nella penombra dietro il capanno e Claudia pensò con desiderio al fuoristrada Toyota parcheggiato un miglio più indietro, sullo sterrato. Quasi come se le avesse letto nel pensiero suo padre chiese piano: «Quando ha detto ai suoi uomini di portare il fuoristrada?».

    «Quando non ci sarà più luce per sparare» rispose Sean a bassa voce. «Ancora quindici o venti minuti.»

    La leonessa sentì le loro voci e fece un altro ringhio minaccioso.

    «Che faccia tosta» commentò Sean allegramente. «Piuttosto suscettibile, la ragazza.»

    «Zitto!» sibilò Claudia. «Ci troverà.»

    «Oh, sa bene che siamo qui, ormai» rispose Sean, poi alzò la voce e gridò: «Vattene, stupida vecchiaccia, tornatene dai tuoi cuccioli».

    Claudia strappò la mano dalla sua presa. «Maledetto! Ci farà uccidere tutti.»

    Ma la voce umana aveva spaventato il felino e per diversi minuti oltre la parete di paglia regnò il silenzio. Sean prese la tozza e sgraziata carabina .577 Nitro Express che aveva appoggiato alla parete accanto a sé e se la mise in grembo. Aprì la culatta e fece scivolare i grossi proiettili d’ottone fuori dalla canna, per sostituirli con altri due presi dalla cartuccera fissata vicino al bavero sinistro della giacca. Il cambio dei proiettili era un suo piccolo rituale superstizioso: lo faceva sempre all’inizio di un’azione di caccia.

    «Adesso mi ascolti, capo» disse a Riccardo. «Se uccidiamo quella vecchia puttana senza un buon motivo il governo mi ritirerà la licenza, e viene considerato un buon motivo soltanto se ha già staccato un braccio a qualcuno, mi capisce?»

    «Capisco» rispose Riccardo con un cenno del capo.

    «Bene, allora non spari finché non glielo dico io, oppure sarò io a sparare a lei, per Dio.»

    Si scambiarono un sorriso nella luce fioca del crepuscolo e Claudia si rese conto, sbalordita, che si stavano divertendo. Quei due pazzi scriteriati si stavano davvero godendo il momento.

    «Quando Job arriverà col fuoristrada sarà buio pesto e non potrà avvicinarsi troppo al capanno. Dovremo raggiungerlo nel letto del fiume. Lei andrà per primo, capo, e Claudia starà nel mezzo. Rimanete vicini e qualunque cosa succeda non mettetevi a correre! Per l’amor di Dio, che nessuno si metta a correre.»

    Poi sentirono di nuovo i passi felpati della leonessa che girava intorno al capanno. L’animale ruggì ancora una volta e quasi immediatamente le rispose un ruggito sull’altro lato. Era arrivata anche la leonessa più giovane.

    «C’è tutta la banda» commentò Sean. Il suono delle loro voci e i ruggiti della vecchia leonessa avevano attirato il resto del branco e i cacciatori erano diventati prede. Erano intrappolati nel capanno di appostamento. Il buio era quasi completo. Il tramonto si era ridotto a un bagliore rossastro sull’orizzonte occidentale.

    «Dov’è il fuoristrada?» bisbigliò Claudia.

    Sean rispose: «Sta arrivando». Poi il tono della sua voce cambiò. «Tutti giù!» ordinò seccamente. «A terra!» Lei non aveva sentito nulla, ma si lasciò cadere dalla sedia di tela e si accovacciò a terra.

    La leonessa si era di nuovo avvicinata alla parete anteriore del capanno, quasi senza rumore, e in quel momento si slanciò in avanti ruggendo furiosamente e distruggendo la fragile struttura con gli artigli. Claudia si rese conto con orrore che si stava buttando su di lei.

    «Tenete giù la testa» gridò Sean concitato e imbracciò il fucile non appena la barriera crollò.

    Quando sparò, la deflagrazione invase lo spazio ristretto con un frastuono assordante e una fiammata vivida come una lampadina.

    «Ha ucciso la belva.» Per quanto detestasse quello sport sanguinoso Claudia provò un colpevole sollievo, purtroppo di breve durata. Lo sparo aveva semplicemente spaventato il felino, allontanandolo per un momento. Sentì la leonessa correre a nascondersi fra i cespugli, ruggendo furiosa.

    «L’ha mancata» lo accusò senza fiato, l’odore della polvere da sparo nelle narici.

    «Non volevo colpirla.» Sean aprì la carabina e la ricaricò con altri due proiettili presi dalla cartuccera sulla giacca. «Era solo uno sparo di avvertimento.»

    «Il fuoristrada sta arrivando.» La voce di Riccardo era calma e tranquilla. Claudia era ancora rintronata dallo sparo, ma riuscì a distinguere il rombo del motore diesel in lontananza.

    «Job ha sentito il colpo.» Sean si alzò in piedi. «È venuto prima. Bene, prepariamoci a uscire.»

    Claudia si alzò in fretta e guardò oltre la bassa parete di paglia del capanno, verso la foresta buia e spaventosa che la circondava. Ricordò che c’era un sentiero di collegamento con il letto del fiume in secca, ne avevano percorso un tratto per arrivare in quella zona. Per raggiungere la salvezza del fuoristrada avrebbero dovuto percorrere quasi un quarto di miglio nell’oscurità. La sola idea la fece tremare.

    Fra gli alberi, a meno di cinquanta iarde da loro, la leonessa ruggì di nuovo.

    «Ragazza chiassosa» ridacchiò Sean, prendendo il gomito di Claudia per guidarla verso l’uscita. Stavolta lei non si ritrasse, anzi si trovò ad aggrapparsi al suo braccio.

    «Afferri la cintura del capo.» Le prese la mano con dolcezza e la guidò alla schiena del padre, verso la cintura.

    «La tenga stretta» le disse. «E si ricordi, qualsiasi cosa succeda non si metta a correre. Se li tirerebbe addosso in un attimo. Non sanno resistere al gioco del gatto col topo.»

    Sean accese la torcia e la girò in tondo. Era una grossa Maglite, ma anche quel raggio potente sembrava debole e pallido nell’immensità della foresta. La luce fece brillare degli occhi, molti occhi lucenti e minacciosi come stelle fra i cespugli. Era impossibile distinguere quelli dei cuccioli da quelli delle leonesse adulte.

    «Andiamo!» disse Sean a bassa voce e Riccardo si avviò sul sentiero stretto e dissestato, trascinandosi dietro Claudia.

    Procedevano con lentezza, piegati su se stessi. Riccardo copriva il percorso fino al fuoristrada con il fucile più leggero e Sean presidiava la retroguardia con la pesante carabina e la torcia.

    Ogni volta che il raggio li incontrava nel buio, gli occhi dei felini sembravano sempre più vicini, finché dietro il riflesso Claudia cominciò a distinguere anche i corpi degli animali. Alla luce della torcia sembravano chiari come falene, agili e instancabili. Entrambe le leonesse giravano loro intorno, sempre più vicine, si muovevano rapide fra i cespugli e li fissavano, ma giravano la testa quando il raggio della torcia le colpiva negli occhi.

    Il sentiero era ripido, sconnesso e terribilmente lungo. Claudia incespicava dietro il padre, ogni passo un’agonia di impazienza. Non guardava dove andava, fissava soltanto le sagome pallide che li circondavano.

    «Ecco la nostra piantagrane!» li avvertì Sean a bassa voce. La vecchia leonessa prese coraggio e balzò fuori dal buio, sbuffando come una locomotiva, con le fauci spalancate da cui uscivano ruggiti assordanti. La lunga coda sbatteva sui fianchi come una frusta. Si fermarono in un gruppo compatto e Sean agitò la torcia e il fucile contro la belva inferocita.

    «Vattene!» le gridò. «Via! Sciò!» La leonessa avanzò, le orecchie appiattite sul cranio, le lunghe zanne gialle scoperte e la lingua rosea arrotolata fra le fauci spalancate.

    «Yah! Bestiaccia!» ululò Sean. «Ti faccio saltare la testa!»

    La belva bloccò la carica all’ultimo momento possibile, puntandosi sulle zampe anteriori a dieci piedi da loro e sollevando una nuvola di polvere che brillò alla luce della torcia.

    «Va’ via!» le ordinò Sean in tono secco. Lei alzò le orecchie, si voltò e trotterellò obbediente nella foresta.

    «Ha fatto il gioco del coniglio» ridacchiò Sean. «Voleva solo metterci alla prova.»

    «Come faceva a saperlo?» La voce di Claudia suonò stridula e gracchiante alle sue stesse orecchie.

    «La coda. Finché continua ad agitarla non fa sul serio. Quando la tiene ferma bisogna stare in guardia.»

    «Ecco il fuoristrada» disse Riccardo. Videro i fari attraverso gli alberi mentre il Toyota sobbalzava sul letto del fiume sotto di loro.

    «Grazie a Dio» sussurrò Claudia.

    «Non è ancora finita» la avvertì Sean mentre scendevano sul sentiero. «Dobbiamo ancora vedercela con l’altra ragazza.»

    Claudia aveva dimenticato la leonessa più giovane e cominciò a guardarsi intorno inquieta, senza staccarsi dalla cintura del padre.

    Finalmente raggiunsero la sponda del fiume in secca, illuminata dai fari del fuoristrada parcheggiato a sole trenta iarde da loro, con il motore acceso. Al di là delle luci Claudia scorse le teste degli uomini sul sedile anteriore. Erano vicini, talmente vicini che non riuscì a trattenersi. Lasciò la cintura del padre e si mise a correre a lunghe falcate sulla sabbia fine e bianca del letto del fiume.

    Sentì il grido di Sean dietro di sé: «Maledetta idiota!».

    E, subito dopo, il terrificante ruggito della leonessa che la caricava. Senza fermarsi Claudia lanciò un’occhiata di sbieco e vide che l’enorme felino, sbucato dall’erba alta sulla riva del fiume, l’aveva quasi raggiunta. Sotto i fari della Toyota era una macchia immensa e chiara, velocissima, e il suo ruggito le stritolò le viscere mentre trascinava i piedi nella sabbia cedevole e bianca.

    Claudia vide che la coda della leonessa era eretta e rigida come una sbarra d’acciaio e anche se ottenebrata dal terrore ricordò le parole di Sean con gelida chiarezza: Questa volta non si fermerà, mi ucciderà.

    Per un attimo cruciale Sean non si era reso conto che la ragazza si era messa a correre. Stava controllando la retroguardia, procedendo a ritroso con cautela sul ripido sentiero che scendeva al fiume, con la torcia nella mano sinistra e la carabina nella destra. La teneva impugnata, con le canne inclinate sulla spalla e il pollice pronto sulla sicura, e osservava la vecchia leonessa che strisciava verso di loro tenendosi sulla sponda del fiume. Da quando l’aveva bloccata la prima volta era sicuro che fingesse soltanto di volerli attaccare. Dietro di lei c’erano due cuccioli, seduti fra l’erba a guardare lo spettacolo con gli occhi spalancati e affascinati, ma erano troppo timidi per farsi avanti. Aveva perso di vista la leonessa più giovane: era certo che rappresentasse il pericolo più grave, ma l’erba sulle sponde era troppo alta.

    Aveva sentito Claudia sbattergli contro un fianco ma pensava che fosse inciampata, non che si fosse voltata per correre. Stava ancora cercando di individuare la leonessa più giovane, spostando il raggio della torcia fra la vegetazione, quando sentì lo scalpiccio di Claudia sulla sabbia zuccherosa del fiume. Si voltò di scatto e la vide stagliarsi sul letto del fiume, isolata.

    «Maledetta idiota!» gridò infuriato. Fin dal suo arrivo, quattro giorni prima, quella ragazza era stata una continua fonte di irritazione e conflitto, e adesso aveva sfacciatamente trasgredito il suo ordine. Capì in un istante, ancora prima che la leonessa si lanciasse su di lei, che l’avrebbe persa. Un cliente ucciso o mutilato era la peggior disgrazia che potesse capitare a una guida di caccia. Avrebbe significato la fine della sua carriera, vent’anni di lavoro e sacrifici.

    «Maledetta idiota!» sfogò tutta la sua frustrazione sulla figura che correva. Superò Riccardo, ancora impietrito dallo shock sul sentiero sotto di lui, e in quel momento la leonessa sbucò dal suo nascondiglio fra l’erba.

    Il letto del fiume era illuminato a giorno dai fari del fuoristrada, quindi Sean lasciò cadere la torcia e imbracciò il fucile con due mani, ma non poté sparare. L’angolazione era sbagliata, la ragazza si trovava fra lui e la leonessa. Claudia correva goffamente sulla sabbia morbida, la testa voltata dall’altra parte per guardare l’animale che la inseguiva e le braccia che oscillavano fuori tempo rispetto alle gambe.

    «Giù!» Le gridò Sean. «A terra!» Ma lei continuò a correre, coprendogli il bersaglio, e la leonessa balzò su di lei, schizzando sabbia dalle zampe con gli artigli già sfoderati. A ogni balzo lanciava un ruggito potente e la coda era eretta e rigida.

    I fari proiettavano sulla sabbia bianca le ombre grottesche della ragazza e del felino che si avvicinavano sempre di più. Sean vide che la leonessa si preparava all’ultimo balzo e restò a guardare impotente sopra la canna doppia del fucile. Impossibile separarle, impossibile fare fuoco senza colpire la ragazza.

    All’ultimo momento Claudia inciampò, le gambe indebolite dal terrore cedettero e con un gemito disperato cadde a faccia in giù sulla sabbia.

    Subito Sean mirò al morbido petto della leonessa. Con quel fucile poteva colpire due monete da un penny lanciate simultaneamente nell’aria a trenta passi di distanza, a sinistra e a destra, prima che cadessero a terra. Con quel fucile aveva ucciso centinaia di leopardi, leoni, rinoceronti, bufali, elefanti – e uomini, moltissimi uomini ai tempi della guerra civile in Rhodesia. Non sbagliava mai un colpo. Ora il bersaglio era libero, poteva spedire con assoluta certezza un proiettile a fungo da 750 grani nel petto della leonessa e farlo uscire alla base della coda. Sarebbe stata la fine del felino, del safari e probabilmente della sua licenza. Come minimo avrebbe significato mesi di indagini e processi. Una leonessa morta avrebbe scatenato su di lui l’ira del governo e del Dipartimento delle risorse forestali.

    La leonessa era quasi addosso alla ragazza, le separavano poche decine di piedi di sabbia bianca e Sean abbassò il fucile. Era un rischio tremendo, ma lui adorava il rischio. Stava giocando con la vita di Claudia, ma lei lo aveva provocato e se lo meritava.

    Sparò sulla sabbia, due passi davanti alle fauci spalancate della leonessa. Il grosso proiettile si piantò nel terreno, alzando un’esplosione di sabbia, uno spruzzo di granelli bianchi che per un attimo avvolse completamente l’animale. La sabbia si infilò nella bocca spalancata e nei polmoni ruggenti, le tappò le narici e le offuscò gli occhi, accecandola e disorientandola. La belva si bloccò di colpo.

    Sean corse avanti, pronto a sparare il secondo colpo, ma non fu necessario. La leonessa si era ritirata in fretta, sbattendo le zampe sugli occhi pieni di sabbia, incespicando e rotolando per ricadere poi fra l’erba dove continuò ad agitarsi alla cieca. I ruggiti di dolore e il rumore della sua corsa scomposta si fecero sempre più lontani.

    Sean raggiunse Claudia, le cinse la vita e la tirò in piedi con uno strattone. Le gambe non la reggevano e dovette trascinarla fino al fuoristrada e caricarla sul sedile anteriore.

    Nello stesso momento Riccardo si arrampicò sul sedile posteriore e Sean saltò nel cassone scoperto tenendo il fucile con la mano libera, come una pistola, pronto a sparare di nuovo nel buio.

    «Vai!» gridò a Job e l’autista matabele mollò la frizione. Partirono a razzo sul letto del fiume, sobbalzando con violenza.

    Per quasi un minuto, finché non uscirono dal letto del fiume per guadagnare la pista meno dissestata, nessuno parlò. Poi Claudia disse con voce tremula e strozzata: «Se non faccio pipì adesso esplodo».

    «Possiamo sempre puntarla contro quella gattaccia come un estintore» commentò Sean in tono gelido e dal sedile posteriore Riccardo si mise a ridere di gusto. Anche se sapeva che suo padre stava scaricando la tensione nervosa, Claudia se la prese a morte. Peggiorava la terribile umiliazione che aveva subito.

    Ci volle un’ora per tornare all’accampamento e quando arrivarono Moses, l’inserviente di Claudia, aveva pronta una doccia bollente. La doccia consisteva in un barile per carburante da venti galloni appeso ai rami di un albero, un paravento di paglia a cielo aperto e una gettata di cemento a terra.

    Claudia si lasciò inondare dall’acqua rovente fino a farsi arrossare la pelle. Sentì l’umiliazione e la nausea dell’adrenalina scivolare via e poi l’ondata di benessere che si presenta sempre dopo aver corso un pericolo mortale.

    Mentre si insaponava con cura, creando una schiuma densa, si mise in ascolto di Sean. Era a cinquanta iarde di distanza, nella palestra di fortuna che aveva allestito sul retro della propria tenda, ma i sibili che emetteva mentre sollevava i bilancieri le arrivavano chiaramente. Non aveva mai saltato una seduta nei quattro giorni che aveva trascorso all’accampamento, a prescindere da quanto fosse stata lunga e sfiancate la giornata di caccia.

    Fece un sorriso sprezzante pensando a quell’arroganza tipicamente maschile. «Rambo!» Eppure si era sorpresa più di una volta a sbirciare di nascosto le sue braccia muscolose, la pancia piatta e perfino le natiche, sode e rotonde come uova di struzzo nei pantaloni corti color kaki.

    Quando tornò dalla doccia, con una camicia da notte di seta e un asciugamano avvolto intorno alla testa come un turbante, Moses la precedette con una lampada. Le aveva preparato gli abiti per la cena: pantaloni lunghi kaki, una maglietta di Gucci, stivali in pelle di struzzo: esattamente quello che avrebbe scelto lei stessa. Moses le lavava i vestiti ogni giorno e li stirava in modo impeccabile. I pantaloni crepitarono leggermente mentre li infilava, aumentando la sensazione di benessere.

    Si prese il tempo di asciugarsi e spazzolarsi i capelli con cura. Aggiunse un tocco esperto di trucco e rossetto e quando si guardò nel piccolo specchio si sentì ancora meglio.

    «Adesso tocca a me fare la vanitosa?» Sorrise fra sé e raggiunse gli uomini già radunati intorno al fuoco. Al suo ingresso smisero di parlare per osservarla e ne fu gratificata. Sean si alzò dalla sedia di tela per accoglierla, con quella sciocca affettazione inglese che non mancava mai di sconcertarla.

    Si sforzò di parlare in tono brusco. «Si sieda! Non c’è bisogno che continui a saltare su e giù.»

    Sean sorrise amabilmente. Non lasciarle capire quanto riesce a infastidirti, disse a se stesso. Le scostò la sedia da campo mentre si sedeva e stendeva le gambe davanti al fuoco.

    «Porta un drink alla signora» ordinò Sean al cameriere. «Sai già cosa le piace.»

    Il cameriere le portò il bicchiere di cristallo su un vassoio d’argento. Il drink era perfetto: una spruzzata di whisky Chivas, appena sufficiente per colorare l’acqua minerale Perrier, e molto ghiaccio. L’uomo indossava un candido kanzu lungo fino a metà polpaccio, una fascia rossa sulla spalla per indicare che era il capo dei camerieri e un fez rosso. I suoi due sottoposti, anch’essi con indosso tuniche bianche e fez rossi, aspettavano discretamente in disparte. Claudia era un po’ a disagio: c’erano venti servitori per tre ospiti, sapeva molto di decadenza, colonialismo e sfruttamento. Era il 1987, santo cielo, e l’impero britannico era tramontato da tempo – il whisky però era delizioso.

    «Immagino che si aspetti un ringraziamento per avermi salvato la vita» disse sorseggiandolo.

    «Niente affatto, dolcezza.» Sean aveva scoperto quasi subito che Claudia odiava quell’appellativo. «Non mi aspetterei mai che si scusasse per la sua assoluta idiozia. A essere del tutto sincero, ero più preoccupato dall’idea di dover uccidere la leonessa. Quella sì che sarebbe stata una vera tragedia.»

    Iniziarono una schermaglia leggera, intelligente, e Claudia si accorse che si stava divertendo. Ogni volta che riusciva a superare le sue difese provava un moto di soddisfazione ancora più piacevole di una buona giornata in tribunale. Le dispiacque quando il capo dei camerieri annunciò in tono sepolcrale: «Il cuoco dice che cena è servita, mambo» e Sean li accompagnò nella tenda dedicata ai pasti, illuminata da un grande candelabro Meissen di porcellana. Le posate erano d’argento massiccio – Claudia aveva controllato la punzonatura senza farsi notare – e sulla tovaglia di pizzo di Madeira brillavano calici di cristallo Waterford. Dietro ogni sedia da campo stava in piedi un cameriere impeccabile, pronto a servire i commensali.

    «Che cosa le andrebbe di ascoltare stasera, capo?» chiese Sean.

    «Un po’ di Wolfgang Amadeus» propose Riccardo e Sean premette il tasto play sul registratore per poi raggiungere il proprio posto, mentre le limpide note del concerto per pianoforte numero diciassette si diffondevano alla luce delle candele.

    Fu servita una zuppa di piselli e orzo perlato con midollo di bufalo, insaporita con un peperoncino molto piccante che Sean chiamava Peli Peli Ho Ho.

    Claudia aveva ereditato il gusto del padre per peperoncino, aglio e vino rosso ma nemmeno lei riuscì ad affrontare la seconda portata, trippa di bufalo con una salsa bianca. Agli uomini piaceva la trippa verde, un eufemismo per indicare la pulizia sommaria delle viscere degli animali.

    «È solo erba masticata» aveva commentato il padre e Claudia era stata presa da un’ondata di nausea, ma poi le era arrivato alle narici l’aroma del piatto che il cuoco aveva preparato apposta per lei: un pasticcio di carne dalla crosta croccante, ripieno di stufato di antilope. Quando lei gli aveva proposto di aggiungere qualche spicchio d’aglio l’uomo inizialmente aveva scosso il candido copricapo.

    «Ricetta dice niente aglio, signora.»

    «La mia ricetta dice molto aglio, dice forte e chiaro dieci spicchi, okay?» E il cuoco aveva sfoderato un sorriso di resa. Claudia aveva conquistato quasi subito il personale dell’accampamento con i suoi modi rilassati e il fascino spontaneo.

    Il vino era un Cabernet sudafricano, ricco e robusto come il suo adorato Chianti, e Claudia dedicò a quello e al pasticcio di carne tutta la sua attenzione. Le fatiche della giornata, il sole e l’aria aperta le avevano stimolato l’appetito. Come il padre, poteva mangiare e bere a volontà senza mai appesantire il girovita. L’unico aspetto deludente della serata fu la conversazione. Come tutte le altre sere gli uomini parlarono di fucili, di caccia e di uccisioni di animali selvatici. I dettagli sulle armi le suonavano come un gergo incomprensibile.

    Il padre diceva cose come: «La carabina .300 Weatherby può spedire un proiettile da 180 grani a tremiladuecento piedi al secondo, con un’energia iniziale di oltre quattromila piedi per libbra e un favoloso shock idrostatico», e Sean rispondeva: «Voi yankee siete ossessionati dalla velocità. Roy Weatherby ha abbattuto più prede in Africa di quanti spaghetti lei abbia mangiato nella sua vita, capo. Per me molto meglio un’alta densità sezionale, proiettili di costruzione Nosler e una velocità moderata…».

    Nessuna persona sana di mente poteva andare avanti per ore con quella roba, si diceva Claudia, eppure ogni sera quando lei andava a dormire quei due restavano davanti al fuoco e continuavano i loro discorsi fra cognac e sigari.

    Quando parlavano di animali, però, Claudia si interessava e qualche volta interveniva, principalmente per esprimere disapprovazione. Discutevano soprattutto di prede leggendarie, maschi anziani che Sean aveva battezzato con dei soprannomi, cosa che la irritava quanto l’appellativo capo con cui si rivolgeva al padre, quasi come se fosse un padrino della mafia. Uno degli animali veniva chiamato Federico il Grande, o semplicemente Fred. Era il leone che volevano abbattere, quello per cui avevano esposto la carcassa di bufala.

    «In questa stagione l’ho visto due volte, un cliente è riuscito addirittura a sparargli, ma tremava così forte che l’ha mancato di tantissimo.»

    Riccardo si protese in avanti. «Mi racconti meglio.»

    «Papà, te l’ha già raccontato ieri sera» gli ricordò Claudia con dolcezza. «E anche la sera prima e quella prima ancora…»

    «Le brave bambine non devono interrompere i grandi» ridacchiò Riccardo. «Non te l’ho insegnato? Sean, mi parli ancora di Fred.»

    Sean si lanciò in un panegirico. «Probabilmente supera gli undici piedi, e non soltanto in lunghezza. Ha la testa come un ippopotamo e una criniera che sembra un covone di fieno nero e quando cammina si agita come le fronde di un albero al vento. Astuto? Subdolo? Fred ne sa una più del diavolo, per quanto ne so io gli hanno sparato almeno tre volte. Tre stagioni fa era stato ferito da un cacciatore spagnolo nella riserva di Ian Piercy, ma si è ripreso. Non è diventato così grosso per pura fortuna.»

    «Come lo prenderemo?» chiese Riccardo.

    «Siete due persone disgustose» intervenne Claudia, anticipando Sean. «Dopo aver visto quelle creature meravigliose, quegli splendidi cuccioli. Come potete desiderare di ucciderli?»

    «Oggi non ho visto nessun cucciolo ferito» disse Riccardo, con un cenno di assenso al cameriere che gli offriva un’altra porzione di trippa. «Anzi, mi pare che abbiamo corso un bel rischio per assicurare la loro sopravvivenza.»

    «Stai dedicando quarantacinque giorni della tua vita al solo scopo di uccidere leoni ed elefanti!» ribatté Claudia. «Quindi non fare il virtuoso con me, Riccardo Monterro.»

    «Rimango sempre affascinato dalla confusione dei processi mentali dei fanatici progressisti» commentò Sean e Claudia si voltò verso di lui, pregustando la battaglia.

    «Non c’è nessuna confusione nei miei pensieri. Voi siete qui per uccidere degli animali.»

    «Proprio come fanno gli allevatori» rispose Sean. «Per mantenere le mandrie sane e prospere e per assicurarsi che abbiano abbastanza spazio di sopravvivenza.»

    «Lei non è un allevatore.»

    «Sì che lo sono. L’unica differenza è che io li uccido in campo aperto, non in un mattatoio, ma come per ogni allevatore la mia prima preoccupazione è la sopravvivenza del bestiame in età fertile.»

    «Questi non sono animali domestici» protestò Claudia. «Sono meravigliose bestie selvatiche.»

    «Meravigliose? Selvatiche? E questo che cosa diavolo c’entra? Come qualsiasi altro aspetto del mondo moderno, la fauna selvatica africana deve pagare un prezzo per sopravvivere. Il capo, qui, paga decine di migliaia di dollari per cacciare un leone e un elefante. Ha attribuito a questi animali un valore infinitamente superiore a quello di capre e mucche, in modo che il nuovo governo indipendente dello Zimbabwe sia disponibile a concedere milioni di acri di terreno dove questi animali possano sopravvivere. Io gestisco una di queste riserve e sono quindi incentivato a proteggerla dai ladri e dai bracconieri, e ad assicurarmi di avere molte prede da offrire ai miei clienti. No, dolcezza mia, oggi i safari legali sono l’arma più potente che abbiamo a disposizione per difendere la fauna africana.»

    «E quindi vuole salvare gli animali sparando loro addosso con i suoi fucili di precisione?» chiese Claudia indignata.

    «Fucili di precisione?» Sean ridacchiò. «Un’altra espressione da fanatica progressista senza sale in zucca. Preferirebbe dei fucili imprecisi? Non sarebbe come pretendere che i macellai usassero solo coltelli smussati per sgozzare il bestiame? Lei è una donna intelligente, usi il cervello invece del cuore. Il singolo esemplare non è importante. La sua aspettativa di vita è di pochi anni. Nel caso del leone che stiamo inseguendo, probabilmente arriva al massimo a dodici. Quello che non ha prezzo è la conservazione della specie nel suo complesso. Non l’esemplare, ma la popolazione. Il nostro leone è un vecchio maschio alla fine della sua vita attiva, durante la quale ha protetto le proprie femmine e i propri cuccioli e ha già propagato i propri geni. Morirebbe di morte naturale fra uno o due anni. È molto meglio che la sua morte produca decine di migliaia di dollari che verranno spesi per garantire ai suoi cuccioli un luogo sicuro in cui vivere piuttosto che lasciar invadere questo territorio da uno sciame di uomini neri con i loro greggi di pecore macilente.»

    «Mio Dio, ma come parla?» Claudia scosse la testa con tristezza. «Sciame di uomini neri, sono parole da razzista e da estremista. È la loro terra, perché non dovrebbero essere liberi di vivere come meglio credono?»

    Sean si mise a ridere. «E questa è la logica del liberalismo ottuso. Prenda una decisione, sta dalla parte delle meravigliose bestie selvagge o dei meravigliosi neri selvaggi? Non può averli entrambi: quando competono per lo spazio vitale gli animali selvatici perdono sempre, a meno che noi cacciatori non paghiamo per la loro sopravvivenza.»

    Doveva ammettere che era un valido avversario, e fu sollevata quando il padre intervenne dandole il tempo di raccogliere le idee.

    «Non c’è dubbio sulle preferenze della mia cara figliola. Dopotutto, Sean, sta parlando con una dirigente della commissione per la restituzione dei territori tradizionali alla popolazione inuit.»

    Lei fece un dolce sorriso. «Non chiamarli inuit, papà, la gente penserà che ti stai rammollendo. E nemmeno eschimesi: di solito li chiami musi gialli, no?»

    Riccardo si ravviò i folti capelli argentei sulle tempie. «Vuole che le spieghi come mia figlia e la sua commissione pensano di determinare quanta parte dell’Alaska appartiene agli inuit?»

    «Glielo dirà comunque.» Claudia si sporse per accarezzare la mano del padre. «È uno dei suoi monologhi preferiti. È molto divertente, vedrà.»

    Riccardo proseguì come se nulla fosse. «Scendono lungo Fourth Street, la strada dei bar di Anchorage, e acchiappano un paio di eschimesi che si reggono ancora in piedi. Li caricano su un aereo che sorvola la penisola e gli dicono: Adesso diteci dove viveva il vostro popolo. Mostrateci i terreni di caccia. E quel lago laggiù? Ci avranno pescato almeno una volta?.» Riccardo modulava la voce come un attore consumato. «Certo! dice l’eschimese dal sedile posteriore, guardando dal finestrino con gli occhi che navigano nel Jack Daniels. Il mio caro nonnino pescava proprio là.»

    Poi imitò la voce di Claudia. «E quelle montagne laggiù, quelle che noi bianchi cattivi vi abbiamo rubato e chiamiamo Brooks Range, il tuo nonnino cacciava anche lì?» Tornò a parlare come un eschimese. «Certo, certo. Nonno ha fatto fuori un sacco di orsi laggiù. Ricordo che la mia nonnina me lo diceva sempre.»

    «Continua, papà. Stasera hai un pubblico meraviglioso. Il signor Courtney si sta divertendo un mondo.»

    «La sa una cosa?» chiese Riccardo. «Non è mai successo che un eschimese rifiutasse un lago o una montagna offerta da Claudia. Incredibile vero? La mia bambina può vantare un punteggio pieno.»

    «Siete comunque fortunati, capo» rispose Sean. «A voi hanno lasciato qualcosa: qui si sono presi tutto.»

    * * *

    Claudia si svegliò al suono di un acciottolio di stoviglie fuori dalla tenda. Moses tossicchiò discretamente. Nessuno le aveva mai portato la colazione a letto. Era un lusso che la faceva sentire meravigliosamente decadente. Nella tenda era ancora buio pesto e l’aria era gelida. Quando Moses aprì il telo anteriore lo sentì crepitare per la brina. Non si era aspettata che in Africa potesse fare così freddo.

    Si sedette sulla branda con una trapunta sulle spalle, tenendo fra le mani la tazza di tè. Moses cominciò ad affaccendarsi nella tenda. Versò una brocca di acqua bollente nel catino e preparò un asciugamano candido. Riempì il bicchiere per lavarsi i denti con acqua bollita e le preparò il dentifricio sullo spazzolino. Poi portò un braciere di carboni ardenti al centro della tenda.

    «Troppo freddo oggi, signora.»

    «E troppo presto, maledizione» aggiunse Claudia mezza addormentata.

    «Ha sentito i ruggiti stanotte, signora?»

    «Non ho sentito un bel niente.» Sbadigliò. Anche se ci fosse stata una banda che suonava America, the Beautiful fuori dalla sua tenda, non si sarebbe svegliata.

    Moses finì di preparare i vestiti per la giornata e li posò sull’altra branda. Le aveva anche lucidato gli stivali.

    «Se vuole qualcosa mi chiami, signora» le disse uscendo a ritroso, poi richiuse la tenda.

    Claudia si alzò di scatto e si avvicinò al braciere, tremando. Tenne le mutandine sospese sui carboni ardenti per riscaldarle prima di infilarsele.

    Quando uscì dalla tenda nel cielo brillavano ancora le stelle. Si fermò ad ammirarle, ancora affascinata dalle costellazioni dell’emisfero australe. Riconobbe con soddisfazione la Croce del Sud, poi si avvicinò agli uomini accanto al falò e allungò le mani per scaldarle.

    Il padre le sorrise. «È come quando eri piccola. Ricordi quanto dovevo penare la mattina per farti alzare dal letto e andare a scuola?» Un cameriere le portò un’altra tazza di tè.

    Sean lanciò un fischio e Claudia sentì che Job avviava il motore del fuoristrada Toyota e lo portava all’ingresso della staccionata che delimitava l’accampamento. Si infilarono i vestiti pesanti: maglioni e giacche a vento, cappelli e sciarpe di lana.

    Raggiunsero il fuoristrada e trovarono i fucili nella rastrelliera e i due matabele, Job e Shadrach, in piedi nel cassone ai due lati della piccola guida ndorobo. Quest’ultimo era un ometto che non arrivava alla spalla di Claudia, ma aveva un adorabile sorriso rugoso e uno sguardo lucente e birichino. Claudia provava simpatia per tutti i neri del campo, ma Matatu era già il suo preferito. Le ricordava uno dei sette nani di Biancaneve. I tre erano infagottati in pesanti giacconi militari e passamontagna e risposero al saluto di Claudia con candidi sorrisi che risaltarono nel buio. Erano tutti caduti preda del suo fascino.

    Sean si mise al volante e Claudia si sedette fra lui e il padre, sul sedile anteriore. Si accoccolò dietro il parabrezza e si strinse a Riccardo per scaldarsi. Nei pochi giorni trascorsi da quando si era unita al safari si era affezionata a quel momento iniziale della giornata.

    Procedettero lentamente sullo sterrato tortuoso e sconnesso, mentre la notte lasciava spazio alla luce dell’alba. A un certo punto Sean spense i fari.

    Claudia sbirciò la foresta e le radure erbose che Sean chiamava

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