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I fuochi dell'ira
I fuochi dell'ira
I fuochi dell'ira
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I fuochi dell'ira

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About this ebook

Fratelli, alleati, nemici: le storie di Shasa Courtney e Manfred De la Rey tornano a intrecciarsi nell’appassionante seguito de Il potere della spada.
Dalla fantasia del maestro dell’avventura, uno straordinario capitolo della saga dei Courtney, in una nuova traduzione.


Shasa Courtney, erede dell’immensa ricchezza di famiglia, ha un unico sogno: riunificare il suo amato paese, dilaniato dall’apartheid. Solo per questo, contro tutti i propri principi, si lascia convincere dal fratellastro Manfred a unirsi all’ala destra del Partito Nazionale, sperando di poter moderare dall’interno le frange più estremiste. Non immagina che sua moglie Tara stia lavorando in segreto contro tutto ciò che lui sta cercando di realizzare, né che Manfred nasconda pericolosi segreti di cui sia la famiglia che il paese, ormai sull’orlo della guerra, devono assolutamente rimanere all’oscuro. In questa feroce lotta per il futuro del Sudafrica, i Courtney dovranno pagare un prezzo altissimo... ma non saranno gli unici.

LanguageItaliano
Release dateJan 28, 2021
ISBN9788830524224
I fuochi dell'ira
Author

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    I fuochi dell'ira - Wilbur Smith

    1

    Tara Courtney non si vestiva di bianco dal giorno del suo matrimonio, preferiva di gran lunga il verde perché era il colore che metteva maggiormente in risalto i suoi folti capelli castani.

    L’abito bianco che indossava in quel momento la faceva sentire di nuovo come una sposina, tremante e leggermente impaurita ma felice e pervasa da un senso di profonda dedizione. Un sottile nastro di merletto color avorio le cingeva i polsini e il colletto alto e si era spazzolata i capelli fino a farli scintillare di sfumature color rubino nella brillante luce del sole di Cape Town. L’eccitazione le aveva arrossato le gote e lei, pur avendo avuto quattro figli, conservava un vitino da vespa. La fascia di un nero funereo che le attraversava il petto appariva quindi ancora più incongrua: giovinezza e bellezza ornate con i simboli del lutto. A dispetto del suo tumulto interiore rimase immobile e silenziosa, con le mani conserte e la testa china.

    Era soltanto una delle quasi cinquanta donne, tutte vestite di bianco e tutte con la fusciacca nera e l’atteggiamento dolente, disposte a intervalli regolari lungo il marciapiede antistante l’ingresso della sede del Parlamento dell’Unione sudafricana.

    Erano prevalentemente giovani matrone appartenenti alla cerchia di Tara, ricche, privilegiate e annoiate dal proprio stile di vita ben poco impegnativo. Molte si erano unite alla protesta per l’eccitazione di sfidare l’autorità costituita e far infuriare i loro pari, alcune stavano cercando di riconquistare l’attenzione del marito che dopo i primi dieci anni circa di matrimonio era stanco dell’intimità domestica e interessato più agli affari o al golf e ad altre attività extraconiugali. Lo zoccolo duro del movimento era costituito soprattutto dalle donne più anziane ma includeva anche qualcuna delle più giovani come Tara e Molly Broadhurst, e loro erano mosse solo dal disgusto davanti all’ingiustizia. Tara aveva cercato di esprimere ciò che provava durante la conferenza stampa di quella mattina quando una reporter del Cape Argus le aveva chiesto: «Perché lo sta facendo, Mrs Courtney?» e lei aveva risposto: «Perché non mi piacciono i prepotenti né mi piacciono gli impostori». A quel punto le sembrò che la sua avversione fosse giustificata.

    «Ecco che arriva il grosso lupo cattivo» mormorò la donna alla sua destra, cinque passi più in là. «Preparatevi, ragazze!» Molly Broadhurst figurava fra le fondatrici del Black Sash, Fascia Nera, ed era una donna minuta e determinata poco più che trentenne che Tara ammirava enormemente e si sforzava di imitare.

    Una Chevrolet nera con targhe governative si era fermata sull’angolo di Parliament Square per lasciar scendere quattro uomini fra cui un fotografo della polizia che si mise subito al lavoro costeggiando rapidamente la fila di donne in abito bianco e fusciacca nera e fotografandole tutte con la sua Hasselblad. Lo seguivano altri due uomini armati di taccuino, in completo scuro dal taglio scadente abbinato alle tozze scarpe nere tipiche dei poliziotti, che con gesti bruschi e spicci passarono accanto alle donne allineate chiedendone e annotandone nome e indirizzo. Tara, che cominciava a diventare un’esperta, immaginò che fossero sergenti dello Special Branch ma, come quasi tutte le altre, conosceva di nome e di vista il quarto uomo.

    Portava un leggero completo estivo grigio, scarpe marroni con i lacci, cravatta marrone e fedora grigio. Di altezza media, con tratti piuttosto anonimi ma una bocca larga e dalla piega cordiale, sorrise con disivoltura mentre si sollevava il cappello per salutare Molly.

    «Buongiorno, Mrs Broadhurst. È in anticipo, il corteo non arriverà per almeno un’altra ora.»

    «Ha intenzione di arrestarci tutte di nuovo, ispettore?» chiese lei in tono acido.

    «Dio non voglia.» Lui inarcò un sopracciglio. «Questo è un paese libero, sa.»

    «Non l’avrei mai detto.»

    «È davvero una gran birichina, Mrs Broadhurst!» L’ispettore scosse il capo. «Sta cercando di provocarmi.» Parlava un inglese eccellente, con solo una vaga traccia di accento afrikaans.

    «No, ispettore. Stiamo protestando contro gli smaccati brogli di questo governo perverso, l’erosione dello stato di diritto e l’abrogazione dei basilari diritti umani della maggioranza dei nostri compatrioti sudafricani solo in base al colore della loro pelle.»

    «Credo che lei si stia ripetendo, Mrs Broadhurst, mi ha già detto tutto questo l’ultima volta che ci siamo visti.» L’ispettore ridacchiò. «Adesso mi chiederà esplicitamente di arrestarla di nuovo. Cerchiamo di non rovinare questa solenne occasione…»

    «L’apertura di questo Parlamento, dedito com’è all’ingiustizia e all’oppressione, è motivo di lagnanze, non di celebrazioni.»

    L’ispettore si toccò la tesa del cappello ma il suo atteggiamento scherzoso includeva un autentico rispetto e forse persino un pizzico di ammirazione.

    «Continui così, Mrs Broadhurst» mormorò. «Sono sicuro che ci rivedremo presto.» Poi riprese a camminare fino a trovarsi di fronte a Tara.

    «Buongiorno a lei, Mrs Courtney.» Si fermò e stavolta la sua ammirazione risultò palese. «Cosa pensa il suo illustre marito di questo suo comportamento proditorio?»

    «È proditorio opporsi agli eccessi del Partito nazionale e alla sua legislazione basata sulla razza e sul colore della pelle, ispettore?»

    Lo sguardo dell’uomo le scese per un attimo sul petto, ampio eppure dalle linee squisite sotto il pizzo bianco, poi tornò sul suo viso.

    «Lei è di gran lunga troppo carina per queste sciocchezze» affermò. «Le lasci alle vecchie canute e rinsecchite. Torni a casa a badare ai suoi bambini, è quello il suo posto.»

    «La sua arroganza maschilista è insopportabile, ispettore.» Tara avvampò di rabbia senza sapere che il rossore accentuava la bellezza che lui aveva appena elogiato.

    «Vorrei tanto che tutte le traditrici avessero il suo aspetto, questo renderebbe il mio lavoro molto più piacevole. Grazie, Mrs Courtney.» L’ispettore le rivolse un sorriso esasperante e passò oltre.

    «Non permettergli di innervosirti, mia cara» le sussurrò Molly sottovoce. «È un vero esperto in questo campo. La nostra è una protesta passiva. Ricorda il Mahatma Gandhi.»

    Con uno sforzo Tara dominò la rabbia e riacquistò un atteggiamento da penitente. Sul marciapiede dietro di lei cominciò a radunarsi una folla di spettatori. La fila di donne biancovestite divenne bersaglio di curiosità e divertimento, di una certa dose di ammirazione e di parecchia ostilità.

    «Dannate comuniste» le ringhiò un uomo di mezza età. «Volete consegnare il paese a un branco di selvaggi. Dovrebbero rinchiudervi tutte.» Era ben vestito e parlava come una persona istruita. Aveva persino appuntato sul bavero il piccolo distintivo di ottone a forma di elmetto che attestava il suo servizio nelle forze volontarie durante la guerra contro il fascismo. Il suo atteggiamento dimostrava che il Partito nazionale attualmente al governo godeva di un notevole tacito sostegno persino fra la comunità bianca anglofona.

    Tara si morsicò il labbro e si costrinse a rimanere in silenzio, a testa china, anche quando quelle parole suscitarono le acclamazioni ironiche di alcuni neri fra la ressa sempre più nutrita.

    Cominciava a fare caldo, la luce del sole sfoggiava un’opaca brillantezza mediterranea, e anche se sotto il gigantesco bastione dalla cima piatta del monte Table si stava formando una coltre di nubi che preannunciava l’arrivo del vento di sudest, la brezza non aveva ancora raggiunto la città sottostante. Ormai la calca era densa e rumorosa, e Tara venne spintonata con forza, secondo lei deliberatamente. Mantenne il sangue freddo e si concentrò sul palazzo dall’altra parte della strada.

    Progettato da Sir Herbert Baker, l’architetto imperiale per eccellenza, era massiccio e imponente, fatto di mattoni rossi e con un candido colonnato scintillante, ben lontano dai gusti moderni di Tara, che privilegiavano ampi spazi sgombri e linee pulite, mobili in vetro e leggero legno di pino scandinavo. Sembrava simboleggiare tutto ciò che di inflessibile e datato esisteva nel passato, tutto ciò che lei avrebbe voluto vedere demolito ed eliminato.

    Il crescente brusio di aspettativa della folla circostante la riscosse dalle sue riflessioni.

    «Eccoli» disse Molly e la calca si spinse in avanti oscillando e lanciando sonore acclamazioni.

    Si udì un forte trapestio di zoccoli sulla strada asfaltata e la scorta di poliziotti a cavallo risalì il viale trottando, i vessilli che svolazzavano allegramente sulla punta delle lance, uno stuolo di esperti cavallerizzi in sella ad animali il cui manto brillava come metallo brunito nella luce del sole.

    Dietro di loro avanzavano rumorosamente le carrozze aperte. Sulla prima viaggiavano il governatore generale e il primo ministro Daniel Malan, paladino degli afrikaner, con i suoi severi tratti quasi da rospo, un uomo la cui unica preoccupazione e intento dichiarati erano mantenere il proprio Volk in una posizione di supremazia in Africa per mille anni, a qualsiasi costo.

    Tara lo fissò con un odio palpabile perché incarnava tutto quello che lei trovava disgustoso nel governo che attualmente dominava la nazione e i popoli che lei tanto amava. Mentre la carrozza le passava davanti incrociò lo sguardo di Malan e tentò di comunicargli tutta la forza dei suoi sentimenti ma lui la osservò solo di sfuggita senza nemmeno un guizzo di riconoscimento, nemmeno un’ombra di irritazione negli occhi dall’aria pensierosa. L’aveva guardata senza vederla e la rabbia di Tara si venò di disperazione.

    Cosa bisogna fare per indurre queste persone ad ascoltare?, si chiese, ma ormai i dignitari erano scesi dalle carrozze ed erano fermi sull’attenti mentre venivano suonati gli inni nazionali. E anche se a quel punto lei non lo sapeva quella era l’ultima volta in cui si eseguiva The King all’apertura di una sessione del Parlamento sudafricano.

    La banda concluse con una fanfara di trombe e i ministri di gabinetto seguirono il governatore generale e il primo ministro oltre il massiccio portone d’ingresso precedendo i ministri in carica appartenenti all’opposizione. Quello era il momento che Tara aveva paventato, perché alcuni suoi familiari facevano parte del corteo. Subito dietro il leader dell’opposizione camminava suo padre, a braccetto con la sua matrigna. Erano la coppia più mirabile nella lunga processione, Blaine Malcomess alto e dignitoso come un leone patriarcale e Centaine de Thiry Courtney-Malcomess, che appariva snella e aggraziata con l’abito di seta gialla perfetto per l’occasione e il cappellino senza tesa e dall’aria sbarazzina la cui veletta le copriva un occhio; non dimostrava nemmeno un anno di più della stessa Tara, benché tutti sapessero che era stata chiamata Centaine perché era nata il primo giorno del XX secolo.

    Tara pensò di non essere stata notata perché nessuno di loro sapeva della sua intenzione di partecipare alla protesta ma in cima all’ampia scalinata il corteo venne fermato per un istante e, prima che varcassero la soglia, Centaine si voltò a guardare lentamente dietro di sé. Dal suo punto di osservazione poteva vedere al di sopra delle teste della scorta e degli altri dignitari che la seguivano e incrociò lo sguardo di Tara sul ciglio opposto della strada trattenendolo per un attimo. Anche se lei non cambiò espressione la forza della sua disapprovazione colpì Tara come uno schiaffo in pieno volto persino da quella distanza. Attribuiva un’enorme importanza all’onore, alla dignità e al buon nome della famiglia e aveva sollecitato ripetutamente Tara a non dare spettacolo. Farsi beffe di Centaine era pericoloso perché non era soltanto la sua matrigna ma anche sua suocera, e la decana della famiglia e della fortuna dei Courtney.

    A metà della scalinata, dietro di lei, Shasa Courtney notò l’intensità dello sguardo materno e voltandosi in fretta per seguirne la direzione vide Tara, sua moglie, nella fila di dimostranti con la fascia nera. Quando, quella mattina, lei lo aveva avvisato che non gli sarebbe stata accanto durante la cerimonia di apertura lui aveva a stento alzato gli occhi dalle pagine finanziarie del giornale.

    «Fai pure, mia cara, sarà un po’ noioso» aveva mormorato. «Ma mi piacerebbe avere un’altra tazza di caffè, non appena hai un attimo di tempo.»

    Quando la riconobbe accennò un sorriso e scosse il capo con simulata disperazione, come se lei fosse una bambina colta in flagrante durante una birichinata, poi si voltò di nuovo non appena il corteo riprese a muoversi.

    Era incredibilmente bello e la benda nera sull’occhio gli conferiva un’aria da elegante pirata che la maggior parte delle donne trovava molto intrigante. Loro due erano noti come la giovane coppia più avvenente dell’alta società di Cape Town ma era strano come nel volgere di pochi brevi anni le fiamme del loro amore si fossero trasformate in una pozza di cenere grigia.

    «Fai pure, mia cara» aveva replicato lui come faceva molto spesso, ultimamente.

    I ministri dell’opposizione in fondo al corteo scomparvero all’interno del palazzo del Parlamento, la scorta a cavallo e le carrozze vuote si allontanarono al trotto e la folla cominciò a disperdersi. La manifestazione era finita.

    «Vieni, Tara?» le chiese Molly, ma lei scosse il capo.

    «Devo incontrarmi con Shasa» replicò. «Ci vediamo venerdì pomeriggio.» Tara si sfilò da sopra la testa l’ampia fascia nera, la piegò e la infilò nella borsa mentre zigzagava fra la calca sempre più rada. Attraversò la strada.

    Non trovò affatto ironico mostrare il proprio lasciapassare parlamentare accanto all’ingresso visitatori ed entrare nell’istituzione contro cui aveva appena protestato così vigorosamente. Salito l’ampio scalone guardò verso la galleria riservata ai visitatori scoprendola gremita di mogli e ospiti importanti e, al di sopra delle loro teste, osservò la sottostante aula dalle pareti rivestite di boiserie e le file di parlamentari dall’abbigliamento sobrio seduti sulle panche rivestite di pelle verde, tutti coinvolti nell’impressionante rituale. Ma sapeva che i discorsi sarebbero stati banali, pieni di luoghi comuni e quasi penosamente noiosi, inoltre era in piedi sin dal primo mattino per la protesta in strada. Doveva andare urgentemente in bagno.

    Sorrise all’usciere e indietreggiò furtiva, poi si voltò e percorse speditamente il corridoio dagli ampi pannelli lignei. Dopo essere andata alla toilette si avviò verso l’ufficio del padre, che usava anche lei.

    Girando l’angolo rischiò di scontrarsi con un uomo che arrivava dalla direzione opposta. Si fermò giusto in tempo e vide che si trattava di un giovane alto e nero che portava la divisa da inserviente. Sarebbe passata oltre con un cenno del capo e un sorriso ma si rese conto che un inserviente non avrebbe dovuto trovarsi in quel settore dell’edificio mentre il Parlamento era in sessione perché l’ufficio del primo ministro e del leader dell’opposizione si trovavano in fondo al corridoio. Ma per quanto lui stringesse secchio e spazzolone nel suo atteggiamento non c’era nulla di umile né servile e Tara lo guardò in faccia.

    Fu percorsa da un formicolio elettrico, quando lo riconobbe. Erano passati diversi anni ma non avrebbe mai potuto dimenticare quel viso: i lineamenti da faraone egizio nobile e feroce, gli occhi scuri che brillavano di intelligenza. Era ancora uno degli uomini più belli che lei avesse mai visto e Tara ne rammentava la voce, profonda ed eccitante, tanto che il ricordo le causò un lieve tremito. Rammentava persino le sue parole: «C’è una generazione i cui denti sono come spade… per divorare i poveri della terra».

    Era stato quell’uomo a fornirle il primo bagliore di comprensione su cosa significasse nascere con la pelle scura in Sudafrica. La sincera dedizione di Tara alla causa risaliva a quell’incontro remoto. Quell’uomo aveva cambiato la sua vita con una manciata di parole.

    Si fermò bloccandogli la strada e tentò di trovare il modo di comunicargli ciò che provava ma aveva la gola serrata e scoprì di tremare per lo shock. Non appena lui capì di essere stato riconosciuto cambiò atteggiamento, come un leopardo che si metta in stato di allerta accorgendosi dei cacciatori. Lei intuì di essere in pericolo perché lui emanava un senso di crudeltà tipicamente africana ma non ebbe paura.

    «Sono un’amica» mormorò scostandosi per lasciarlo passare. «Ci battiamo per la stessa causa.»

    Per un attimo lui non si mosse e la fissò. Lei capì che non l’avrebbe più scordata, il suo esame parve ustionarle la pelle, poi l’uomo annuì.

    «La conosco» ammise e ancora una volta la sua voce profonda e melodiosa, colma del ritmo e della cadenza dell’Africa, la fece rabbrividire. «Ci rivedremo.»

    Poi si allontanò e senza mai voltarsi scomparve dietro l’angolo del corridoio. Lei rimase ferma a fissare il punto in cui era svanito, il cuore che le martellava nel petto, il fiato che le faceva bruciare la gola.

    «Moses Gama» sussurrò. «Messia e guerriero dell’Africa…» Si interruppe e scosse il capo. «Cosa ci fai qui, fra tutti i posti possibili?»

    Le varie possibilità la colmarono di curiosità ed eccitazione perché intuiva che la crociata era iniziata e desiderava ardentemente prendervi parte. Voleva fare qualcosa di più del restarsene ferma su un angolo di strada con una fascia nera drappeggiata sulla spalla. Sapeva che a Moses Gama sarebbe bastato fare un cenno e lei lo avrebbe seguito, insieme a dieci milioni di altre persone.

    «Ci rivedremo» aveva promesso, e Tara gli credeva.

    Con un gioioso senso di leggerezza proseguì lungo il passaggio. Mentre infilava nella serratura la sua chiave dell’ufficio paterno si ritrovò con gli occhi al livello della scritta sulla targa di ottone:

    COLONNELLO BLAINE MALCOMESS

    VICELEADER DELL’OPPOSIZIONE

    Scoprì con stupore che la porta non era chiusa a chiave, così la spalancò ed entrò.

    Centaine Courtney-Malcomess dava le spalle alla finestra dietro la scrivania per affrontarla. «Ti stavo aspettando, mia cara.» Il suo accento francese era un’affettazione che Tara trovava irritante, visto che la suocera era tornata in Francia soltanto una volta in trentacinque anni, e alzò il mento con aria di sfida.

    «Non scrollare il capo con me, chérie» aggiunse Centaine. «Quando ti comporti come una bambina devi aspettarti di venire trattata come tale.»

    «No, ti sbagli. Non mi aspetto affatto che tu mi tratti come una bambina, né ora né mai. Sono una donna sposata di trentacinque anni, madre di quattro figli e padrona della mia casa.»

    Centaine sospirò. «D’accordo» disse annuendo. «La preoccupazione mi ha reso sgarbata e ti chiedo scusa. Non rendiamo questa discussione ancora più difficile di quanto non sia già.»

    «Non sapevo che dovessimo discutere di qualcosa.»

    «Siediti, Tara» ordinò sua suocera. Lei obbedì istintivamente e subito dopo si arrabbiò con se stessa per averlo fatto. Vide Centaine prendere posto sulla sedia di suo padre dietro la scrivania e si irritò anche per quello: era la sedia di papà e quella donna non aveva alcun diritto di occuparla.

    «Mi hai appena detto che sei una moglie e la madre di quattro figli» aggiunse sommessamente. «Non credi di avere il dovere…»

    «I miei figli sono ben curati» replicò con rabbia Tara. «Non puoi accusarmi di trascurarli.»

    «E cosa mi dici di tuo marito e del tuo matrimonio?»

    «Qual è il problema con Shasa?» chiese Tara, sulla difensiva.

    «Dimmelo tu» la invitò Centaine.

    «Non sono affari tuoi.»

    «Oh, sì, invece» la contraddisse lei. «Ho dedicato tutta la mia vita a Shasa. Il mio piano prevede che diventi uno dei leader di questa nazione.» Si interruppe e una sognante opacità le velò gli occhi, che parvero diventare leggermente strabici. Tara aveva già notato quell’espressione ogni qual volta Centaine era assorta nelle sue riflessioni e provò l’impulso di interromperle con brutalità.

    «Questo è impossibile e lo sai.»

    Gli occhi di Centaine tornarono subito a fuoco e lei la guardò in cagnesco. «Niente è impossibile… non per me, non per noi.»

    «Oh, sì, invece» dichiarò Tara, gongolante. «Sai bene quanto me che i nazionalisti hanno ridisegnato i confini dei distretti elettorali per favorire il loro partito, hanno persino riempito il Senato di loro designati. Rimarranno al potere per sempre. Nessuno che non sia un nazionalista afrikaner come loro diventerà mai più leader di questo paese, almeno fino alla rivoluzione… al termine della quale il leader sarà un nero.» Si interruppe e pensò per un attimo a Moses Gama.

    «Sei un’ingenua» sbottò Centaine. «Non capisci queste cose. Il tuo parlare di rivoluzione è puerile e irresponsabile.»

    «Fai come vuoi, sotto sotto sai che è così, il tuo caro Shasa non realizzerà mai il tuo sogno. Persino lui comincia a percepire la futilità del rimanere all’opposizione in eterno. Sta perdendo interesse nell’impossibile. Non mi stupirei se decidesse di non candidarsi alle prossime elezioni, rinunciasse alle aspirazioni politiche che gli hai appioppato e se ne andasse a guadagnare un altro miliardo di sterline.»

    «No.» Centaine scosse il capo. «Non si arrenderà. È un combattente come me.»

    «Non diventerà mai nemmeno un ministro di Gabinetto, figuriamoci primo ministro» affermò Tara in tono piatto.

    «Se è questo che pensi non sei la moglie adatta per mio figlio» asserì l’altra.

    «L’hai detto tu» replicò sottovoce Tara. «L’hai detto tu, non io.»

    «Oh, cara, mi dispiace.» Centaine si allungò al di sopra della scrivania che però si rivelò troppo ampia per consentirle di toccare la mano di Tara. «Perdonami, ho perso la calma. Tutto questo è così importante per me, mi sta così a cuore, ma non intendevo certo suscitare la tua ostilità. Voglio solo aiutarti, sono molto preoccupata per te e Shasa. Voglio rendermi utile, Tara, perché non mi permetti di aiutarti?»

    «Non mi sembra che abbiamo bisogno d’aiuto» mentì soavemente lei. «Shasa e io siamo felici, abbiamo quattro figli adorabili…»

    Centaine fece un gesto impaziente. «Tara, fra noi due non c’è sempre stata una perfetta identità di vedute ma sono tua amica, davvero. Desidero il meglio per te, Shasa e i bambini. Perché non lasci che io ti aiuti?»

    «Come, mamma? Dandoci dei soldi? Ci hai già dato dieci o venti milioni di sterline… o forse sono trenta? A volte perdo il conto.»

    «Perché non mi permetti di condividere la mia esperienza con te? Perché non vuoi ascoltare i miei consigli?»

    «D’accordo, Centaine, li ascolterò. Non prometto di seguirli ma li ascolterò.»

    «Prima di tutto, mia cara, devi rinunciare a queste folli attività di sinistra. Mascherandoti e restandotene ferma sugli angoli delle strade disonori l’intera famiglia, metti in ridicolo te stessa e quindi noi. Inoltre è pericoloso. Il Suppression of Communism Act è stato approvato ed è diventato legge. Potrebbero dichiararti comunista ed emettere un ordine di interdizione a tuo carico. Considera solo questo, diventeresti una non-persona, privata di tutti i diritti umani e di qualsiasi dignità. Inoltre devi pensare alla carriera politica di Shasa, quello che fai si ripercuote su di lui.»

    «Avevo promesso di ascoltare» sottolineò con durezza Tara, «ma ora mi rimangio quella promessa. So cosa sto facendo.» Si alzò e raggiunse la porta, poi si fermò per guardare dietro di sé. «Non pensi mai, Centaine Courtney-Malcomess, che mia madre è morta di crepacuore e che è stata colpa del tuo spudorato adulterio con mio padre? Eppure riesci a restartene seduta lì con aria compiaciuta a darmi consigli su come vivere la mia vita in modo da non disonorare te e il tuo prezioso figlio.» Uscì e si chiuse silenziosamente alle spalle la massiccia porta di tek.

    Shasa si mise comodo sul primo dei banchi dell’opposizione con le mani in tasca e le gambe allungate in avanti incrociate all’altezza delle caviglie, poi ascoltò attentamente il ministro della Polizia delineare i progetti di legge che intendeva presentare al Parlamento durante la sessione in corso.

    Il ministro della Polizia era il membro più giovane del Gabinetto, più o meno coetaneo di Shasa, una circostanza davvero fuori dal comune. Gli afrikaner nutrivano un profondo rispetto per l’età avanzata e diffidavano dell’inesperienza e dell’impetuosità della gioventù. Gli altri membri del Gabinetto nazionalista dovevano avere, in media, almeno sessantacinque anni, rifletté Shasa, eppure ecco lì in piedi davanti a loro Manfred De la Rey, un mero giovanotto sotto la quarantina che illustrava il contenuto generale del Criminal Law Amendment Bill, la proposta di legge per la riforma del codice penale che intendeva presentare e poi condurre attraverso le varie fasi.

    «Sta chiedendo il diritto di dichiarare uno stato di emergenza che porrà la polizia al di sopra della legge, senza possibili appelli ai tribunali» grugnì Blaine Malcomess accanto a lui e Shasa annuì senza guardare il suocero mentre osservava l’uomo di fronte a lui.

    Manfred De la Rey stava parlando in afrikaans come di consueto. Ricorreva malvolentieri al suo inglese stentato e dal forte accento, lo faceva solo in segno di rispetto verso il bilinguismo del Parlamento. Risultava invece eloquente e persuasivo quando usava la sua lingua madre impiegando atteggiamenti e accorgimenti retorici con una tale abilità da farli sembrare del tutto naturali e più di una volta suscitò un ridacchiare di esasperata ammirazione sui banchi dell’opposizione e un coro di «Hoor, hoor! Ben detto!» fra il suo partito.

    «Quel tizio ha una bella faccia tosta.» Blaine scosse il capo. «Sta chiedendo il diritto di sospendere la regola della legge per creare uno stato di polizia in base al capriccio del partito al potere. Dovremo opporci lottando con le unghie e con i denti.»

    «Puoi dirlo forte!» concordò Shasa in tono mite mentre provava invidia e al contempo una misteriosa attrazione per l’altro uomo. Era strano come i loro destini sembrassero indissolubilmente legati.

    Aveva conosciuto Manfred De la Rey vent’anni prima e loro due, senza nessun motivo apparente, si erano subito avventati l’uno sull’altro come giovani galli da combattimento dando inizio a una zuffa sanguinosa. Fece una smorfia ripensando a com’era finita, la sconfitta che bruciava persino dopo tutto quel tempo. In seguito le loro strade si erano incrociate più e più volte.

    Nel 1936 avevano fatto entrambi parte della rappresentativa nazionale che aveva partecipato ai Giochi olimpici di Adolf Hitler a Berlino ma era stato De la Rey sul ring a conquistare l’unica medaglia d’oro vinta dal Sudafrica mentre Shasa era tornato a mani vuote. Si erano contesi con vigore e acrimonia lo stesso seggio durante le elezioni del 1948 che avevano visto salire al potere il Partito nazionale e ancora una volta era stato De la Rey a conquistare la carica parlamentare mentre Shasa aveva dovuto aspettare un’elezione suppletiva in una circoscrizione sicura del Partito unito per accaparrarsi un posto sui banchi dell’opposizione da cui affrontare nuovamente il rivale. Adesso Manfred era un ministro, un ruolo che Shasa bramava con tutto il cuore, e data la sua indubbia intelligenza e abilità oratoria abbinate a un crescente acume politico e a una solida base di potere all’interno del partito aveva di fronte un radioso futuro.

    Invidia, ammirazione e un furioso antagonismo, ecco cosa provava Shasa mentre ascoltava l’uomo di fronte a lui e lo studiava attentamente.

    De la Rey conservava un fisico da pugile, spalle ampie e collo possente, ma il suo girovita cominciava ad ampliarsi e la linea della mascella a farsi meno netta a causa del grasso. Non si stava tenendo in forma e i muscoli sodi stavano diventando flaccidi. Shasa, compiaciuto, abbassò lo sguardo sui propri fianchi magri e sul ventre piatto prima di tornare a osservare l’avversario.

    Aveva il naso storto e una scintillante cicatrice bianca che gli solcava un sopracciglio scuro, conseguenza delle lesioni riportate sul ring. Gli occhi, insolitamente chiari e simili a topazi gialli, erano implacabili come quelli di un gatto eppure illuminati dal fuoco del suo intelletto sopraffino. Come tutti i ministri del Gabinetto del Partito nazionale, eccezion fatta per il premier, De la Rey era un uomo molto istruito e intelligente, dotato di una profonda dedizione, fermamente convinto che il diritto divino legittimasse il suo partito e il suo Volk.

    Si credono davvero gli strumenti di Dio sulla terra, ecco cosa li rende così dannatamente pericolosi. Shasa fece un sorriso mesto mentre Manfred finiva di parlare e si sedeva salutato dal ruggito di approvazione del suo lato del Parlamento. I suoi compagni stavano sventolando i fogli con l’ordine del giorno e il primo ministro si allungò in avanti per dargli una pacca sulla spalla mentre una dozzina di biglietti di congratulazioni gli venivano passati dai banchi più indietro.

    Shasa approfittò di quel diversivo per congedarsi sottovoce dal suocero. «Non avrai bisogno di me per il resto della giornata ma in caso contrario sai dove trovarmi.» Si alzò, salutò lo speaker con un cenno del capo e si diresse verso l’uscita cercando di passare inosservato. Ma era alto sei piedi e un pollice e con la benda nera su un occhio, gli ondulati capelli scuri e la notevole avvenenza si guadagnò parecchie occhiate cogitabonde da parte delle donne più giovani nella galleria dei visitatori e l’esame ostile degli uomini seduti sui banchi del governo.

    Mentre lui passava De la Rey alzò gli occhi dal messaggio che stava leggendo e i due uomini si scambiarono un’occhiata attenta ma enigmatica, poi Shasa uscì dall’aula, si sfilò la giacca e se la gettò sulla spalla mentre rispondeva al saluto dell’usciere e guadagnava l’esterno, nella luce del sole.

    Non aveva un ufficio nel palazzo del Parlamento perché Centaine House, il quartier generale della Courtney Mining and Finance Company alto sette piani, distava solo due minuti a piedi, se si attraversava il parco. Mentre camminava spedito sotto le querce cambiò mentalmente cappello sostituendo al cilindro politico la bombetta da uomo d’affari. Teneva suddivisa la propria vita in compartimenti stagni e si era allenato a concentrarsi su ciascuno di essi a turno senza permettere mai all’energia di dissiparsi distribuendola in modo equilibrato tra le attività.

    Quando, attraversata la strada davanti alla cattedrale di St George, entrò nella porta girevole di Centaine House stava pensando a finanza e attività mineraria destreggiandosi con cifre e alternative, confrontando rapporti ufficiali con ciò che gli dettava l’istinto e godendosi il gioco del denaro tanto quanto aveva apprezzato i rituali e gli scontri in Parlamento.

    Le due ragazze carine dietro il bancone della reception nell’atrio con il pavimento e le colonne di marmo gli sorrisero radiosamente.

    «Buon pomeriggio, Mr Courtney» dissero in coro e lui le annichilì con il suo sorriso mentre si dirigeva verso gli ascensori. La sua reazione a loro era istintiva, gli piaceva avere intorno donne graziose, anche se non avrebbe mai toccato nessuna delle sue dipendenti. Sarebbe stato in un certo senso incestuoso e poco sportivo, visto che loro non avrebbero potuto dirgli di no, troppo simile allo sparare a un uccello fermo. Comunque le due giovani donne al bancone sospirarono e alzarono gli occhi al cielo quando le porte dell’ascensore si richiusero dietro di lui.

    Janet, la sua segretaria, aveva sentito l’ascensore e stava aspettando lì davanti quando le porte si aprirono. Lei era più il tipo di Shasa: matura e composta, azzimata ed efficiente. Per quanto la donna non facesse molti sforzi per celare la propria adorazione, le regole che lui si era imposto prevalevano anche in quel caso.

    «Cosa abbiamo, Janet?» chiese, e lei gli lesse gli appuntamenti del resto del pomeriggio mentre lo seguiva attraverso l’anticamera e nel suo ufficio.

    Shasa raggiunse il nastro della telescrivente nell’angolo e si fece scorrere fra le dita l’elenco dei prezzi di chiusura delle azioni. Le azioni della Anglo erano scese di due scellini, era quasi arrivato il momento di ricomprare.

    «Chiama Allen e rimanda l’appuntamento, non sono ancora pronto per lui» disse a Janet prima di puntare verso la scrivania. «Dammi quindici minuti, poi chiamami David Abrahams al telefono.»

    Mentre la segretaria usciva lui cominciò a occuparsi della pila di telex e messaggi urgenti che gli aveva lasciato sul sottomano della scrivania. Ci lavorò in fretta, senza lasciarsi distrarre dalla magnifica visuale sul monte Table di cui si godeva dalla finestra di fronte ed era pronto per David quando uno dei telefoni squillò.

    «Ciao, Davie, cosa succede a Jo’burg?» Era una domanda retorica, lui sapeva benissimo cosa stava succedendo e cosa avrebbe fatto al riguardo. I rapporti e le stime giornalieri erano inclusi nel fascio di documenti sulla sua scrivania ma ascoltò attentamente il riepilogo dell’amico.

    David, l’amministratore delegato, era suo amico sin dai tempi dell’università e aveva stabilito con lui un legame più intimo di chiunque altro a parte Centaine.

    Anche se la miniera di diamanti H’ani nei pressi di Windhoek, su al nord, continuava a rappresentare la fonte primaria della prosperità dell’azienda come faceva da trentadue anni, sin da quando Centaine l’aveva scoperta; sotto la direzione di Shasa la compagnia si era ampliata e diversificata fino a costringerlo a spostare il quartier generale esecutivo da Windhoek a Johannesburg. Questa città rappresentava il centro commerciale del paese, quindi il trasferimento era stato inevitabile, ma era anche una città tetra, senza cuore e poco attraente. Centaine Courtney-Malcomess rifiutava di lasciare il bellissimo Capo di Buona Speranza per vivere là, quindi il quartier generale finanziario e amministrativo della società rimaneva a Cape Town. Era uno sdoppiamento scomodo e costoso ma lei riusciva sempre a fare di testa sua. Inoltre per Shasa era comodo trovarsi così vicino al Parlamento e amava il Capo quanto la madre, quindi non cercava di farle cambiare idea.

    Parlò con David per dieci minuti prima di dire: «Be’, non possiamo decidere al telefono. Ti raggiungo».

    «Quando?»

    «Domani pomeriggio. Sean ha una partita di rugby alle dieci di domattina. Non posso perdermela, gliel’ho promesso.»

    David rimase in silenzio per un attimo mentre rifletteva sulla relativa importanza del trionfo sportivo di uno scolaretto in confronto al possibile investimento di poco più di dieci milioni di sterline per sviluppare le opzioni della compagnia sui giacimenti auriferi dello Stato Libero dell’Orange.

    «Fammi uno squillo prima di decollare» disse alla fine, rassegnato. «Ti vengo a prendere al campo di aviazione.»

    Shasa riagganciò e guardò l’orologio. Voleva tornare a Weltevreden in tempo per passare un’ora con i bambini prima che facessero il bagno e cenassero. Poteva terminare il lavoro dopo cena. Stava infilando i documenti sulla sua scrivania nella ventiquattrore di pelle di coccodrillo nera di Hermès quando Janet bussò alla porta ed entrò.

    «Mi scusi, signore, un messo del Parlamento ha appena consegnato questa a mano dicendo che è molto urgente.»

    Lui prese la busta spessa ed elegante. Era il tipo di cancelleria costosa riservata ai membri del Gabinetto e sul lembo era goffrato l’emblema dell’Unione sudafricana, lo scudo a quartieri sorretto da antilopi rampanti che sormontava un nastro con il motto Ex Unitate Vires, Forza attraverso l’Unità.

    «Grazie, Janet.» Ruppe il lembo con il pollice ed estrasse un foglio di carta con l’intestazione Ufficio del ministro della Polizia e un messaggio in afrikaans scritto a mano.

    Caro Mr Courtney,

    sapendo del suo interesse per la caccia un personaggio illustre mi ha chiesto di invitarla a una battuta di caccia agli springbok nel suo ranch, il prossimo weekend. La tenuta include una pista di atterraggio e le coordinate sono 28°32’ S 26°16’E.

    Le posso garantire divertimento e compagnia interessante. La prego di farmi sapere se riuscirà a partecipare.

    Cordialmente

    Manfred De la Rey

    Shasa sorrise ed emise un fischio sommesso mentre andava a controllare le coordinate sulla cartina su larga scala appesa alla parete. Il messaggio equivaleva a una convocazione e lui riusciva a indovinare l’identità dell’illustre personaggio. Vide che il ranch si trovava nello Stato Libero dell’Orange poco più a sud dei giacimenti auriferi di Welkom e avrebbe comportato solo una leggera deviazione durante il suo viaggio di ritorno da Johannesburg.

    Chissà cosa stanno tramando, stavolta, pensò con un formicolio eccitato. Era il genere di mistero che apprezzava profondamente e scribacchiò una risposta su un foglio della sua carta da lettere personale.

    Grazie per il gentile invito a cacciare con lei questo weekend. La prego di comunicare al nostro anfitrione che accetto e non vedo l’ora di venire.

    Mentre sigillava la busta borbottò: «In realtà dovreste inchiodarmi i piedi al terreno per tenermi lontano».

    Al volante della sua Jaguar SS Shasa varcò il massiccio cancello bianco di Weltevreden. Il frontone era stato disegnato e realizzato nel 1790 da Anton Anreith, l’architetto e scultore della Compagnia delle Indie Orientali olandese, e un’opera d’arte tanto squisita rappresentava un ingresso consono alla tenuta.

    Da quando Centaine gli aveva ceduto Weltevreden per trasferirsi con Blaine Malcomess sulle montagne del Constantia Berg lui vi aveva riversato lo stesso amore e la stessa cura profuse in precedenza dalla madre. Il nome significava appagato in olandese ed era così che Shasa si sentiva mentre rallentava fino a procedere a passo d’uomo per non far schizzare polvere sulle vigne che fiancheggiavano la strada.

    Il raccolto era in pieno svolgimento e i fazzoletti sulla testa delle donne al lavoro accanto ai filari di vigne alti fino alla spalla erano macchie di colori brillanti che gareggiavano con le foglie rosse e dorate. Loro si raddrizzarono per sorridere e salutare con la mano al passaggio di Shasa mentre gli uomini, chini sotto il peso delle ceste traboccanti di grappoli rossi, gli sorrisero.

    Il giovane Sean, su uno dei carri al centro del campo, faceva procedere lentamente i cavalli da tiro tenendo il passo con il raccolto. Il veicolo era carico di grappoli maturi che scintillavano come rubini laddove erano stati strofinati e liberati dalla polverosa pruina.

    Quando vide il padre gettò le redini al conducente del carro che lo aveva controllato con tatto, saltò giù e scese di corsa attraverso i filari per intercettare la Jaguar verde. Un undicenne alto per la sua età, aveva ereditato la pelle chiara e luminosa della madre e i tratti di Shasa; pur avendo membra robuste correva come un’antilope, con passo elastico e rapido. Shasa, guardandolo, temette che il cuore potesse scoppiargli per l’orgoglio.

    Sean spalancò la portiera dell’auto e si tuffò sul sedile, dove riacquistò di colpo tutta la sua dignità.

    «Buonasera, papà» disse, e Shasa gli cinse le spalle con un braccio e lo strinse a sé.

    «Ciao, campione. Com’è andata oggi?»

    Oltrepassarono le cantine e le scuderie e lui parcheggiò nel granaio ristrutturato in cui teneva la sua collezione di auto d’epoca, una dozzina. La Jaguar era un regalo di Centaine e lui la preferiva persino alla Rolls-Royce 1928 Phantom I con carrozzeria di Hooper accanto a cui la lasciò.

    Gli altri bambini lo avevano visto arrivare dalle finestre della nursery e sfrecciarono attraverso il prato per andargli incontro. Michael, il più giovane dei maschi, apriva la fila precedendo di cinque lunghezze abbondanti Garrick, il figlio di mezzo, che aveva meno di un anno più di lui. Michael era il sognatore della famiglia, un ragazzino strano che a nove anni poteva perdersi per ore nell’Isola del tesoro oppure passare un intero pomeriggio con la sua scatola di acquerelli, indifferente a qualsiasi altra cosa al mondo. Shasa lo abbracciò con lo stesso affetto riservato al primogenito. Poi arrivò Garrick, ansimante per l’asma, pallido e magrolino, con i capelli sparati sulla testa.

    «Buon pomeriggio, papà» balbettò. Era davvero un brutto anatroccolo, pensò Shasa, e da chi diavolo aveva preso l’asma e la balbuzie?

    «Ciao, Garrick.» Non lo chiamava mai figliolo o ragazzo mio o campione come faceva con gli altri due ma solo Garrick e si limitava a dargli pacche leggere sulla testa; non gli veniva mai in mente di abbracciarlo, a dieci anni il birbantello bagnava ancora il letto.

    Si girò con sollievo verso la figlia. «Vieni, angelo mio, vieni dal babbo!»

    Lei gli si lanciò fra le braccia e strillò di felicità quando lui la sollevò di scatto, poi gli cinse il collo con le braccia e gli riempì il viso di baci tiepidi.

    «Cosa vuole fare adesso il mio angelo?» chiese Shasa senza posarla.

    «Voglio cavalcave» affermò Isabella, che indossava già i calzoni da equitazione nuovi.

    «Allora cavalchevemo» ribatté lui. Ogni qual volta Tara lo accusava di incoraggiare la sua erre moscia Shasa protestava: «È solo una bambina».

    «È una piccola strega che sa rigirarti come vuole, e tu glielo lasci fare.»

    Lui se la sistemò sulle spalle e lei gli afferrò una manciata di capelli per stabilizzarsi mentre sobbalzava su e giù canticchiando: «Voglio bene al mio papino».

    «Venite» ordinò Shasa, «andiamo a cavalcave prima di cena.»

    Sean era troppo grande e cresciuto per tenere qualcuno per mano ma gli rimase gelosamente vicino al fianco destro mentre Michael, alla sua sinistra, si teneva aggrappato sfacciatamente alla mano paterna, con Garrick che li seguiva, cinque passi più indietro, e guardava il padre con aria adorante.

    «Oggi sono stato il primo della classe in aritmetica, babbo» mormorò ma Shasa non lo sentì, in mezzo a tutte le urla e le risate.

    Gli stallieri avevano già sellato i cavalli perché la cavalcata serale era un rituale per la famiglia. Nella selleria Shasa sostituì le scarpe da città con vecchi stivali da equitazione ben lucidati, issò Isabella sul dorso del suo piccolo e grassoccio pony Shetland e poi, una volta salito sul suo stallone, prese dalle mani dello stalliere le redini principali della figlia.

    «Compagnia, avanti! Passo, marcia, trotto!» Mentre impartiva l’ordine tipico della cavalleria mosse la mano a stantuffo sopra la testa, un gesto che strappava sempre strilli deliziati a Isabella, poi uscirono rumorosamente dal cortile delle scuderie.

    Effettuarono il consueto giro della tenuta fermandosi a parlare con qualsiasi giovane caposquadra nero incontrassero e scambiando saluti con i gruppi di lavoratori che tornavano faticosamente a casa dalle vigne. Sean discusse del raccolto con il padre come un adulto restando seduto ben ritto ed elegante sulla sella finché Isabella, sentendosi esclusa, non intervenne e Shasa si allungò subito verso di lei per ascoltare con deferenza ciò che doveva dirgli.

    Come sempre i ragazzi conclusero la cavalcata lanciandosi sfrenatamente al galoppo attraverso i campi da polo e su per la collina, fino alle scuderie. Sean, che cavalcava come un centauro, li distanziò di parecchio, Michael era di gran lunga troppo gentile per usare il frustino mentre Garrick sobbalzava goffamente sulla sella. Nonostante gli assillanti insegnamenti paterni aveva una postura orrenda, le punte dei piedi e dei gomiti rivolti verso l’esterno con bizzarre angolazioni.

    Sembra un sacco di patate, pensò Shasa irritato, mentre li seguiva con l’andatura lenta fissata dal corpulento pony Shetland di Isabella di cui teneva le redini. Era un giocatore di polo di livello internazionale e considerava un affronto personale la goffaggine di Garrick nel cavalcare.

    Tara era in cucina a controllare gli ultimi dettagli della cena quando loro entrarono. Alzò gli occhi e salutò il marito con disinvoltura.

    «Una buona giornata?» Indossava gli orrendi pantaloni di tessuto denim sbiadito che lui detestava, visto che gli piacevano le donne molto femminili.

    «Non male» rispose mentre cercava di levarsi di dosso Isabella, ancora avvinghiata al suo collo. Se la tolse dalle spalle e la consegnò alla tata.

    «Saremo in dodici, a cena.» Tara riportò l’attenzione sul cuoco malese fermo al suo fianco con aria obbediente.

    «Dodici?» chiese bruscamente Shasa.

    «Ho invitato i Broadhurst all’ultimo momento.»

    «Oddio» gemette lui.

    «Volevo un pizzico di conversazione stimolante a tavola, per cambiare un po’, non solo cavalli e caccia e affari.»

    «L’ultima volta in cui Molly è venuta qui a cena la vostra conversazione stimolante ha fatto finire la serata prima delle nove.» Lui guardò l’orologio. «Meglio che vada a vestirmi.»

    «Papino, mi dai da mangiare tu?» chiese Isabella dalla sala da pranzo dei bambini dietro la cucina.

    «Ormai sei grande, angelo mio» rispose Shasa. «Devi imparare a mangiare da sola.»

    «Sono capace di mangiare da sola, solo che preferisco quando mi dai da mangiare tu. Ti prego, papino, ti prego un trilione di volte.»

    «Un trilione?» chiese lui. «È stato offerto un trilione per il sottoscritto, qualcuno offre di più?» Ma raggiunse la figlia.

    «La vizi troppo» disse Tara, «sta diventando una bambina impossibile.»

    «Lo so» replicò Shasa, «non fai che ripetermelo.»

    Si fece la barba in fretta mentre il suo valletto nero gli preparava lo smoking nello spogliatoio e infilava i gemelli di platino e zaffiri nella camicia elegante. A dispetto delle vigorose proteste di Tara lui insisteva perché si cenasse in abito da sera.

    «È così pomposo, antiquato e snob.»

    «È civile» la contraddiceva Shasa.

    Una volta vestito attraversò l’ampio corridoio con il pavimento costellato di tappeti orientali e le pareti ornate da una serie di acquerelli di Thomas Baines e bussò alla porta di Tara per poi entrare dopo il suo invito.

    Lei si era trasferita in quella suite mentre era incinta di Isabella e poi vi era rimasta. L’anno precedente l’aveva ristrutturata togliendo i tendoni di velluto e i mobili in stile Giorgio II e Luigi XIV, i tappeti di seta di Qum e i magnifici dipinti a olio di De Jong e Naudé, strappando via la carta da parati in rilievo ed eliminando con la sabbiatrice la patina dorata dall’assito giallo fino a farlo sembrare semplice legno di pino.

    Adesso le pareti erano candide e nude a parte un unico enorme quadro di fronte al letto, un obbrobrio di forme geometriche dai colori primari alla Mirò ma opera di un ignoto studente d’arte dell’università di Cape Town e privo di qualsiasi valore. Secondo Shasa un quadro doveva rappresentare una gradevole decorazione e al contempo un valido investimento a lungo termine mentre quella mostruosità non era nessuna delle due cose.

    I pochi mobili scelti da Tara per il boudoir erano fatti di acciaio e vetro ed erano pieni di spigoli. Il letto poggiava quasi sull’assito nudo del pavimento.

    «È arredamento svedese» aveva spiegato lei.

    «Rimandalo in Svezia» le aveva consigliato lui.

    Prese posto su una delle sedie d’acciaio e si accese una sigaretta. Lei lo guardò accigliata dallo specchio.

    «Scusami.» Shasa si alzò per andare a buttare la sigaretta dalla finestra. «Dopo cena lavorerò fino a tardi» aggiunse voltandosi a guardarla, «e volevo avvisarti, prima di dimenticarmene, che domani pomeriggio andrò a Jo’burg in aereo e rimarrò via per qualche giorno, forse cinque o sei.»

    «Benissimo.» Lei serrò le labbra mentre si metteva il rossetto, un color malva chiaro e sfumato che lui detestava.

    «Un’altra cosa, Tara. La banca di Lord Littleton sta per sottoscrivere l’emissione di azioni per il nostro sfruttamento dei giacimenti auriferi nello Stato Libero dell’Orange. Lo considererei un favore personale se tu e Molly poteste evitare di sventolargli in faccia le vostre fasce nere e di allietarlo con allegri aneddoti sull’ingiustizia dei bianchi e la sanguinosa imminente rivoluzione dei neri.»

    «Non posso parlare per Molly, ma prometto di fare la brava.»

    «Perché non metti i diamanti, stasera?» chiese lui cambiando argomento. «Ti donano molto.»

    Lei non indossava la parure di diamanti gialli provenienti dalla miniera H’ani sin da quando era entrata nel movimento Black Sash, la facevano sentire come Maria Antonietta.

    «Non stasera» disse. «Sono un po’ troppo appariscenti per quella che è solo una cena in famiglia.» Si picchiettò il piumino della cipria sul naso e guardò il marito nello specchio. «Perché non scendi, caro? Il tuo prezioso Lord Littleton arriverà da un momento all’altro.»

    «Prima voglio dare la buonanotte a Bella.» Lui andò a mettersi accanto alla moglie.

    Si fissarono nello specchio, con aria seria.

    «Cosa ci è successo, Tara?» mormorò sottovoce.

    «Non capisco a cosa ti riferisci, caro» ribatté lei ma abbassò lo sguardo per sistemarsi con cura il corpetto dell’abito.

    «Ci vediamo giù» disse Shasa. «Non impiegarci troppo e non combinare guai con Littleton. È un uomo importante e gli piacciono le donne femminili.»

    Tara fissò la porta per un attimo dopo che lui l’ebbe chiusa, poi ripeté la domanda del marito. «Cosa ci è successo? Semplice, Shasa, io sono cresciuta e non sopporto più le insulse sciocchezze con cui riempi la tua vita.»

    Mentre scendeva al piano di sotto passò a controllare i figli. Salvò dal soffocamento Isabella che stava dormendo con l’orsetto di peluche sopra la faccia e poi andò nelle stanze dei maschietti. Soltanto Michael era ancora sveglio, stava leggendo.

    «Spegni la luce!» gli ordinò.

    «Oh, mamma, solo fino alla fine del capitolo.»

    «Spegni!»

    «Soltanto questa pagina.»

    «Spegni, ho detto!» E lo baciò affettuosamente.

    In cima alla scala trasse un bel respiro come un tuffatore sul trampolino e sorridendo radiosamente scese nel salotto azzurro dove i primi ospiti stavano già sorseggiando lo sherry.

    Scoprì che Lord Littleton era molto più gradevole del previsto: alto, con i capelli argentei e benevolo.

    «Le piace la caccia?» gli chiese alla prima occasione.

    «Ahimè, non sopporto la vista del sangue.»

    «Va a cavallo?»

    «Cavalli?» replicò lui sprezzante. «Dannati animali stupidi.»

    «Credo che noi due diventeremo ottimi amici» dichiarò lei.

    Lì a Weltevreden c’erano molte stanze che non le piacevano ma la sala da pranzo la odiava proprio, con tutte quelle teste di animali massacrati molto tempo prima da Shasa che la fissavano con occhi di vetro dalle pareti. Quella sera decise di correre il rischio e sull’altro lato di Littleton fece sedere Molly, che nel giro di pochi minuti cominciò a strappargli fragorose risate deliziate.

    Quando lasciarono gli uomini con il porto e i sigari Hauptmann trasferendosi nella sala per le signore lei prese da parte Tara, eccitatissima.

    «Ho aspettato per tutta la sera di poter rimanere sola con te» sussurrò. «Non indovinerai mai chi si trova a Cape Town in questo momento.»

    «Dimmelo.»

    «Il segretario dell’African National Congress, ecco chi. Moses Gama.»

    Tara la fissò, immobile e pallida.

    «Verrà a casa nostra per parlare a un gruppetto di noi e quando l’ho invitato ha chiesto espressamente che ci fossi anche tu. Non sapevo che lo conoscessi.»

    «L’ho incontrato soltanto una volta…» Poi si corresse: «Due volte».

    «Puoi venire?» insistette Molly. «Sarebbe meglio se Shasa non lo sapesse.»

    «Quando?»

    «Sabato sera alle otto.»

    «Shasa sarà fuori città e io a casa tua» replicò Tara. «Non me lo perderei per nulla al mondo.»

    Sean Courtney era un prode rappresentante della Western Province Preparatory School First XIV, nota anche come Wet Pups. Veloce e forte, realizzò quattro mete contro la squadra del Rondebosch e le trasformò tutte mentre il padre e i due fratelli minori erano fermi sulla linea laterale a incoraggiarlo a gran voce.

    Dopo il fischio finale Shasa si fermò giusto abbastanza a lungo per congratularsi con il figlio trattenendosi a fatica dall’abbracciare il ragazzo sudato e sorridente con i pantaloncini bianchi macchiati dall’erba e un ginocchio graffiato. Una simile dimostrazione d’affetto davanti ai compagni avrebbe colmato Sean di vergogna, così si limitarono a una stretta di mano.

    «Ottima partita, campione. Sono fiero di te» gli disse. «Mi spiace per il weekend ma mi farò perdonare.» E benché sinceramente dispiaciuto, si sentiva di ottimo umore mentre raggiungeva in auto il campo d’aviazione di Youngsfield. Dicky, il suo aviere, aveva tirato fuori dall’hangar l’aereo, già pronto sul piazzale.

    Scese dalla Jaguar e rimase fermo con le mani in tasca e la sigaretta infilata in un angolo della bocca a fissare rapito l’apparecchio lucente.

    Erano un cacciabombardiere Mosquito DH98 che aveva comprato a una delle svendite della RAF a Biggin Hill per poi farlo risistemare e revisionare da cima a fondo dagli esperti montatori della De Havilland. Aveva persino fatto reincollare le varie parti della struttura in legno con la nuova colla Araldite, visto che l’adesivo Rodux originale si era dimostrato inaffidabile nel clima tropicale. Una volta rimossi armamenti e accessori militari la performance già formidabile del Mosquito era notevolmente migliorata. Nemmeno la Courtney Mining poteva permettersi uno dei nuovi aerei civili con motori a reazione ma il Mosquito rappresentava la migliore alternativa possibile.

    Il magnifico apparecchio era appollaiato sullo spiazzo come un falco pronto a spiccare il volo, i motori gemelli Rolls-Royce Merlin sul punto di accendersi con un ruggito per catapultarlo nel cielo. Azzurro cielo e argento, scintillava nella brillante luce del sole di Cape Town; sulla fusoliera, dove un tempo spiccava lo stemma rotondo della RAF, campeggiava adesso il logo della Courtney Company, un diamante stilizzato color argento le cui sfaccettature si intrecciavano alle iniziali dell’azienda.

    «Come va il magnete del motore di destra?» chiese a Dicky quando lo vide avvicinarsi con la sua tuta unta. L’ometto si adombrò.

    «Ticchetta come una macchina da cucire» rispose. Amava l’aereo persino più di Shasa e rimaneva profondamente ferito da qualsiasi suo difetto, per quanto irrilevante, quindi se la prendeva a male quando lui gliene riferiva uno. Lo aiutò a caricare ventiquattrore, valigia e fodero del fucile nel vano bombe, trasformato in vano bagagli.

    «Tutti i serbatoi sono pieni» annunciò e rimase in disparte con aria di superiorità quando Shasa insistette per controllarli a vista e poi girò platealmente intorno all’aereo per esaminarlo.

    «Può andare» concordò alla fine non riuscendo a resistere alla tentazione di accarezzare l’ala come fosse il braccio di una splendida donna.

    Aprì l’ossigeno a undicimila piedi e si portò in assetto di volo orizzontale a ventimila, o Angels twenty nel gergo dell’aviazione, pensò sorridendo dietro la sua mascherina. Inserì la velocità di crociera controllando attentamente la temperatura dei gas di scarico e il numero di giri dei motori, poi si appoggiò allo schienale per godersi il volo.

    Godersi era un termine troppo blando. Per Shasa volare era una gioia dello spirito e una febbre nel sangue. Lo sconfinato continente fulvo sfrecciava sotto di lui, investito da un milione di soli e riarso dai bollenti venti del Karoo dal profumo di erbe, la sua pelle antica sfregiata, raggrinzita e solcata da gole e canyon e alvei. Soltanto lassù Shasa si rendeva davvero conto di quanto ne facesse parte, di quanto l’amasse profondamente. Eppure era una terra dura e crudele, e generava uomini duri, sia neri che bianchi, e lui sapeva di essere uno di loro. Qui non c’è posto per i deboli, rifletté, soltanto i forti possono prosperare.

    Forse dipendeva dall’ossigeno puro che stava respirando, potenziato dall’estasi del volo, ma gli sembrava di avere la mente più lucida. Questioni che erano parse nebulose divennero chiare, le incertezze si risolsero, e le ore passarono rapide mentre il magnifico bimotore sfrecciava nell’azzurro e quando atterrò nell’aeroporto di Johannesburg sapeva con certezza cosa andava fatto. David Abrahams lo stava aspettando, magro e dinoccolato come sempre. Ormai era leggermente stempiato e portava occhiali dalla montatura dorata che gli conferivano un’espressione perennemente stupita. Non appena Shasa saltò giù dall’ala del Mosquito si abbracciarono felici. Erano più affiatati di due fratelli. Poi David diede una pacca sull’ala dell’aereo.

    «Quand’è che potrò pilotarlo di nuovo?» chiese in tono malinconico. Si era meritato una Distinguished Flying Cross nel deserto occidentale e vi aveva aggiunto una barretta in Italia. Gli erano stati attribuiti nove abbattimenti di aerei nemici e aveva terminato la guerra con il grado di comandante di stormo, mentre Shasa era un semplice comandante di squadriglia quando aveva perso un occhio in Abissinia venendo poi rimandato a casa per invalidità.

    «È un aereo troppo bello per te» gli disse, poi sistemò i bagagli sul sedile posteriore della Cadillac dell’amico.

    Mentre l’auto varcava i cancelli dell’aeroporto si scambiarono notizie sulle rispettive famiglie. David aveva sposato Mathilda Janine, la sorella minore di Tara, quindi loro due erano cognati. Shasa si vantò di Sean e Isabella senza mai menzionare gli altri due figli, poi passarono ai veri motivi del loro incontro.

    Il più importante era la necessità di decidere se esercitare o meno l’opzione sul nuovo prospetto minerario di Silver River nello Stato Libero dell’Orange. Poi c’era il problema con lo stabilimento chimico della compagnia sulla costa del Natal: un gruppo di pressione locale stava provocando un pandemonio in merito alla contaminazione del fondale marino e delle barriere coralline nella zona in cui la fabbrica scaricava in mare. E infine c’era la folle fissazione di David, da cui Shasa trovava difficile smuoverlo, convinto che avrebbero dovuto spendere poco più di un quarto di milione di sterline per uno di quei nuovi e mastodontici calcolatori elettrici.

    «Gli yankee hanno fatto tutti i calcoli per la bomba atomica su uno di essi» sottolineò David. «E li chiamano computer, non calcolatori» precisò correggendo l’amico.

    «Avanti, Davie, cosa abbiamo intenzione di far esplodere?» protestò lui. «Non sto progettando una bomba atomica.»

    «Gli angloamericani ne hanno uno. È l’onda del futuro, Shasa, ci conviene cavalcarla.»

    «È un’onda da un quarto di milione di sterline, vecchio mio» sottolineò lui. «Proprio quando abbiamo bisogno di ogni penny per Silver River.»

    «Se disponessimo di uno di questi computer per analizzare i rapporti sulle trivellazioni geologiche di Silver River avremmo già recuperato quasi l’intero costo dell’operazione e saremmo molto più sicuri della nostra decisione finale di quanto non siamo ora.»

    «Come può una macchina essere meglio di un cervello umano?»

    «Vieni a dare un’occhiata» lo implorò David. «L’università ha appena installato un IBM 701, ti ho organizzato una dimostrazione per oggi pomeriggio.»

    «Okay, Davie» si arrese Shasa. «Darò un’occhiata ma questo non significa che comprerò.»

    Il supervisore del computer IBM nel seminterrato dell’edificio della facoltà di ingegneria era una donna sui venticinque anni.

    «Sono tutti ragazzi» spiegò David. «È una scienza da giovani.»

    Lei strinse la mano a Shasa, si tolse gli occhiali dalla montatura in corno e all’improvviso lui sentì sbocciare l’interesse per i computer. Gli occhi del supervisore erano di un verde limpido e brillante, i capelli avevano il colore del miele di fiori di mimosa selvatica. Portava un attillato maglioncino d’angora verde e una gonna scozzese che le lasciava scoperti i lisci polpacci abbronzati. Si dimostrò subito una vera esperta e rispose a tutte le domande di Shasa senza esitare e con un’ammaliante pronuncia strascicata scozzese.

    «Marylee ha conseguito un master in Ingegneria elettrotecnica al MIT» mormorò David e l’attrazione di Shasa si venò di rispetto.

    «È così dannatamente enorme» protestò lui. «Occupa un intero seminterrato, è grande come una casa con quattro camere da letto.»

    «Raffreddamento» spiegò Marylee. «L’accumulo di calore è enorme e la maggior parte dell’ingombro è dovuto all’impianto di raffreddamento.»

    «Su cosa state lavorando, al momento?»

    «Sul materiale archeologico del professor Dart proveniente dalle caverne di Sterkfontein. Stiamo confrontando circa duecentomila sue osservazioni con più di un milione di quelle che arrivano dai siti nell’Africa orientale.»

    «Quanto impiegherete?»

    «Abbiamo iniziato venti minuti fa e finiremo prima di chiudere, alle cinque.»

    «Ossia fra quindici minuti» disse Shasa ridacchiando. «Mi sta prendendo in giro.»

    «Non mi dispiacerebbe» mormorò lei in tono meditabondo e quando sorrise la sua bocca risultò ampia, umida e attraente.

    «Ha detto che chiudete alle cinque?» chiese lui. «Quando riaprite?»

    «Domattina, alle otto.»

    «E durante la notte la macchina rimane inattiva?»

    Marylee guardò l’estremità opposta del seminterrato, dove David stava osservando i fogli stampati mentre il ronzio del computer copriva le loro voci.

    «Esatto. Non avrà niente da fare per tutta la notte, proprio come me.» Era chiaramente una donna che sapeva cosa voleva e come ottenerlo. Lo guardò dritto in faccia, con aria di sfida.

    «Non possiamo certo permetterlo.» Shasa scosse il capo, serio in volto. «Una delle cose che mi ha insegnato la mamma è che il risparmio è il miglior guadagno. Conosco un locale chiamato Stardust, la band che ci suona è davvero incredibile. Scommetto una sterlina contro un weekend a Parigi che riuscirò a farla ballare finché non implora pietà.»

    «Scommessa accettata» ribatté Merylee, altrettanto seria. «Ma lei imbroglia?»

    «Naturalmente» rispose Shasa. Vedendo che David stava tornando aggiunse in tono disinvolto e professionale: «Cosa può dirmi dei costi di gestione?».

    «Compresi assicurazione e deprezzamento sono leggermente inferiori alle quattromila sterline al mese» replicò Marylee con un’aria altrettanto professionale.

    Mentre si salutavano e si stringevano la mano fece scivolare un biglietto in quella di Shasa. «Il mio indirizzo» bisbigliò.

    «Alle otto?» chiese lui.

    «Ci sarò» disse lei.

    Sulla Cadillac Shasa si accese una sigaretta e soffiò fuori un perfetto anello di fumo che si infranse silenziosamente contro il parabrezza.

    «Okay, Davie, domattina contatta il rettore della facoltà di Ingegneria. Offriti di noleggiare quel mostro durante tutto il suo periodo di inattività dalle cinque del pomeriggio alle otto del mattino, e anche nei weekend. Offrigli quattromila sterline al mese e sottolinea che in questo modo lui potrà usarlo gratuitamente, visto che pagheremo noi tutti i suoi costi.»

    David si voltò a guardarlo con aria sbalordita e rischiò di finire contro il marciapiede, poi riuscì a evitarlo con una sterzata frenetica.

    «Perché non ci ho pensato io?» chiese quando riacquistò il controllo della Cadillac.

    «Devi alzarti prima.» Shasa sorrise e poi aggiunse: «Una volta scoperto quanto tempo ci servirà su quel coso subaffitteremo quello in eccesso a un paio di altre compagnie non concorrenti che si stanno sicuramente chiedendo se comprare un computer o meno. In questo modo recupereremo i costi del nostro utilizzo e quando l’IBM migliorerà il design rendendo più piccolo il dannato affare ce ne compreremo uno tutto nostro».

    «Farabutto.» David scosse il capo, impressionato. «Sei un gran farabutto.» Poi, colpito da un’improvvisa ispirazione, aggiunse: «Assumerò la giovane Marylee…».

    «No» ribatté bruscamente Shasa. «Prendi qualcun altro.»

    L’amico si voltò a guardarlo e sentì svanire l’eccitazione. Conosceva troppo bene il cognato.

    «Non accetterai l’invito di Matty a venire a cena da noi stasera, vero?» chiese, imbronciato.

    «Non stasera» confermò Shasa. «Salutala tanto e chiedile scusa da parte mia.»

    «Stai attento, la città è piccola e tu sei molto noto» lo mise in guardia David mentre lo faceva scendere davanti all’hotel Carlton, dove la compagnia aveva sempre una suite prenotata.

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