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Stirpe di uomini
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Stirpe di uomini

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About this ebook

La storia dell'Africa coloniale, dell'aspro conflitto tra bianchi e neri e delle guerre tribali si intreccia con le vicende di una famiglia che lotta per ottenere ricchezza e successo.

Un epico capitolo della saga dei Ballantyne, in una nuova traduzione.


Quella che scorre nel sangue di Zouga Ballantyne è un'implacabile sete di diamanti, un desiderio inarginabile che lo spinge verso i luoghi più remoti e impervi dell'Africa, fino a una miniera dove spera di trovare fortuna. Quando però una delle tante epidemie che imperversano nei campi dei cercatori gli porta via la moglie, non gli resta che un modo per inseguire il suo sogno: aiutare l'Impero britannico a estendere il proprio dominio nonostante la resistenza delle popolazioni locali.
Ma il successo dei Ballantyne ha un prezzo: il sacrificio dell'orgogliosa tribù dei matabele, che hanno tentato di convivere con i coloni ma stanno lentamente perdendo ogni cosa. Tra sfruttamento, violenza e avidità inimmaginabili, chi avrà la meglio in questa terra di uomini spietati?

LanguageItaliano
Release dateJan 28, 2021
ISBN9788830524187
Stirpe di uomini
Author

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    Stirpe di uomini - Wilbur Smith

    1

    Non aveva mai visto la luce del giorno, nemmeno una volta nei duecento milioni di anni da quando aveva preso la sua forma attuale, eppure sembrava una goccia di luce solare distillata.

    Era nato in un calore immenso quanto quello della superficie del sole, negli inimmaginabili abissi sotto la crosta terrestre, nel magma fuso che scaturiva dal cuore della terra.

    A quelle temperature atroci, ogni impurità era stata bruciata, lasciando solo atomi di carbonio purissimo che, sotto pressioni capaci di sgretolare montagne, erano stati rimpiccioliti e compressi fino a una densità superiore a quella di qualunque altra sostanza esistente in natura.

    La bollicina di carbonio liquido era stata trasportata verso l’alto nel pigro fiume sotterraneo di lava fusa, attraverso un cedimento della crosta terrestre, e aveva quasi, ma non totalmente, raggiunto la superficie quando il flusso di magma era prima diminuito e poi cessato.

    Nel millennio successivo, la lava si era raffreddata e aveva cambiato forma, diventando una roccia screziata di blu, fatta di frammenti ghiaiosi variamente cementati in una matrice solida. Questa formazione non aveva nulla in comune con la roccia locale che la attorniava, e riempiva soltanto un profondo pozzo circolare la cui imboccatura a forma di imbuto aveva un diametro di quasi un miglio e la cui coda scendeva in picchiata verso gli insondabili abissi della terra.

    Mentre la lava si raffreddava, la bolla di carbonio purificato subiva una metamorfosi ancora più prodigiosa. Si solidificava in un cristallo a otto facce di geometrica simmetria, delle dimensioni di un fico, e nella fornace infernale del nucleo terrestre veniva talmente ripulita da ogni impurità da risultare limpida e trasparente come i raggi del sole. Le pressioni a cui quel singolo cristallo era stato sottoposto erano state così energiche e costanti, e il raffreddamento così uniforme, che nel suo corpo non c’erano crepe né spaccature.

    Era perfetto, un oggetto di fuoco freddo così bianco che sotto una buona luce sarebbe sembrato blu elettrico. Eppure, quel fuoco non era mai stato svegliato, perché attraverso le epoche era rimasto intrappolato nell’oscurità assoluta e nemmeno un baluginio aveva mai esplorato le sue terse profondità. Ciò nonostante, in quei milioni di anni, la luce del sole non era mai stata molto lontana, questione di duecento piedi o meno, una sottile scorza di terra, dunque, rispetto agli sconfinati abissi da cui era cominciato il suo viaggio verso la superficie.

    Ora, negli ultimi istanti, pochissimi anni in confronto a tutti quei milioni, il suolo sovrastante era stato costantemente scalfito, sgretolato e rivoltato dagli sforzi deboli, inutili ma tenaci di una colonia di creature viventi che sembravano formiche.

    I loro antenati non esistevano nemmeno sulla terra quando quel singolo cristallo purissimo aveva assunto la sua forma attuale, ma ora, ogni giorno, il disturbo arrecato dai loro attrezzi metallici trasmetteva leggere vibrazioni alla roccia, rimasta inattiva per tutto quel tempo; e ogni giorno le vibrazioni diventavano più forti, mentre lo strato tra il cristallo e la superficie si riduceva da duecento piedi a cento e poi a cinquanta, da dieci piedi a due, tanto che ora solo pochi pollici dividevano il cristallo dalla sfavillante luce solare che finalmente avrebbe dato vita ai suoi fuochi sopiti.

    * * *

    Il maggiore Morris Zouga Ballantyne si trovava nei pressi della teleferica, sopra il profondo baratro circolare che si spalancava nel punto in cui, un tempo, una piccola montagnola si stagliava contro il cupo e piatto paesaggio dello scudo continentale africano.

    Nonostante il caldo rovente, intorno al collo aveva una sciarpa di seta con l’estremità infilata sotto l’abbottonatura della camicia di flanella che, seppur lavata e stirata di recente, aveva macchie indelebili di uno spento color ocra rossa.

    Era il pigmento della terra africana, rossa quasi come carne cruda, lì dove le ruote ferrate dei carri l’avevano solcata o le pale degli scavatori ne avevano smosso la superficie. Terra che si sollevava in nuvole di polvere rossa quando i torridi venti asciutti la spazzavano, oppure si trasformava in vischioso fango rosso quando i temporali ne sferzavano gli strati superficiali.

    Il rosso era il colore degli scavi. Macchiava il pelo dei cani e delle bestie da soma, i vestiti degli uomini e le loro barbe, la pelle delle loro braccia e le loro tende di tela, depositandosi sulle baracche di lamiera ondulata dell’insediamento.

    Soltanto nell’enorme voragine ai piedi di Zouga il colore virava verso il giallo chiaro del petto di un tordo.

    La buca era larga quasi un miglio, il bordo era un cerchio pressoché perfetto e in alcuni punti il fondo scendeva già fino a duecento piedi. Gli uomini che lavoravano laggiù sembravano insetti minuscoli, ragni forse, perché solo i ragni avrebbero potuto tessere la gigantesca tela che scintillava in una nuvola argentea sopra lo scavo.

    Zouga si concesse un istante per togliersi il cappello dalla tesa larga, con la cupola appuntita chiazzata di sudore e di polvere rossa. Si asciugò accuratamente la pelle più liscia e pallida all’attaccatura dei capelli, poi studiò l’umida macchia rossa sul fazzoletto di seta e fece una smorfia schifata.

    Il cappello aveva protetto dall’inclemente sole africano i suoi folti ricci, lasciandone inalterato il colore, simile a quello del miele selvatico affumicato. La barba invece si era schiarita fino a tingersi di un pallido giallo oro e, negli anni, aveva acquisito striature d’argento. Anche la pelle era scura, cotta come la crosta del pane appena sfornato, e l’unico punto bianco come la porcellana era la cicatrice sulla guancia, lasciata anni prima dall’esplosione di un fucile da elefanti.

    A forza di scrutare gli orizzonti lontani strizzando le palpebre contro il sole, sotto gli occhi gli erano comparse delle piccole grinze, mentre profonde rughe di fatica e sofferenza gli solcavano le guance dagli angoli del naso fino alla barba. Abbassò lo sguardo sulla voragine e il verde dei suoi occhi si incupì al ricordo delle grandi speranze e dell’incontenibile ambizione che l’avevano condotto laggiù… Quando era successo, dieci anni prima? Sembrava un giorno e un’eternità.

    * * *

    Aveva sentito per la prima volta il nome kopje Colesberg quando era sbarcato dal battello di servizio sulla spiaggia di Rogger Bay, sotto l’imponente massa quadrata e monolitica del monte Table, e il suono era bastato per fargli venire la pelle d’oca.

    «Hanno trovato i diamanti a kopje Colesberg, diamanti grossi come proiettili, e così fitti da consumarti le suole degli stivali se ci cammini sopra!»

    In un lampo aveva intuito che il destino l’avrebbe guidato laggiù. Si era reso conto che gli ultimi due anni, passati nella vecchia Inghilterra alla ricerca disperata di fondi per la sua grande avventura al Nord, erano stati soltanto una preparazione per quel momento.

    La strada verso il Nord iniziava nelle ghiaie diamantifere di kopje Colesberg. L’aveva appreso con certezza appena aveva sentito quel nome.

    Gli erano rimasti solo un carro e un tiro di buoi scheletrici. Di lì a quarantott’ore stavano arrancando sulla profonda sabbia della pista che attraversava le Cape Flats, in direzione nord, a seicento miglia da quella kopje sotto il fiume Vaal.

    Il carro trasportava tutti i suoi averi, che erano ormai pochi e preziosi. Dodici anni dedicati a inseguire un sogno ambizioso avevano eroso tutte le sue sostanze. I cospicui diritti d’autore del libro che aveva scritto dopo i suoi viaggi nelle terre inesplorate sotto lo Zambesi, l’oro e l’avorio che aveva portato con sé da quell’entroterra remoto, l’avorio di altre quattro spedizioni di caccia in quello stesso ammaliante paradiso tristemente imperfetto: tutto finito. Migliaia di sterline e dodici anni di sofferenze e frustrazioni, finché il magnifico sogno si era appannato e dissolto, lasciando come unica prova della sua esistenza una pergamena spiegazzata su cui l’inchiostro cominciava a ingiallire e le pieghe erano così logore che Zouga aveva dovuto incollarla su un foglio per tenerla insieme.

    Quella pergamena era la Concessione Ballantyne, l’atto ufficiale, valido per mille anni, su tutta la ricchezza minerale di una vasta regione dell’inospitale entroterra africano, un territorio grande quanto la Francia, che Zouga aveva sottratto con le lusinghe a un selvaggio re nero. In quell’area sconfinata aveva estratto oro rosso nativo da un filone di quarzo.

    Era una terra ricca ed era tutta sua, ma era necessario un capitale enorme per prenderne possesso e scavare i tesori sottostanti. Per metà della sua vita adulta, Zouga aveva lottato per racimolare quel capitale, ma era stata una battaglia infruttuosa, perché non aveva trovato ancora un solo uomo facoltoso che fosse disposto a condividere la sua visione e i suoi sogni. Alla fine, spinto dalla disperazione, si era rivolto al pubblico britannico. Era tornato ancora una volta a Londra per promuovere la fondazione della Central African Lands and Mining Co. allo scopo di sfruttare la concessione.

    Aveva progettato e stampato un grazioso opuscolo in cui elogiava le bellezze della terra che aveva chiamato Zambesia. Aveva illustrato le pagine con i suoi disegni delle splendide foreste e delle pianure erbose che pullulavano di elefanti e altri animali selvatici. Aveva aggiunto una copia della concessione originale con, in fondo, il grande sigillo con l’elefante di Mzilikazi, sovrano dei matabele, e aveva distribuito l’opuscolo in tutte le Isole britanniche.

    Aveva viaggiato da Edimburgo a Bristol tenendo conferenze e incontri pubblici, e aveva reclamizzato l’iniziativa con annunci a pagina intera sul Times e altri giornali autorevoli.

    Tuttavia gli stessi giornali che avevano pubblicato i suoi annunci a pagamento avevano poi ridicolizzato le sue affermazioni, e nel frattempo l’attenzione degli investitori si era concentrata sulla costituzione delle società ferroviarie sudamericane, che purtroppo aveva coinciso con la sua campagna. Gli erano rimasti da pagare la stampa e la distribuzione dell’opuscolo, gli annunci sui giornali, gli onorari degli avvocati e le spese dei viaggi e, una volta saldato il conto e pagato il ritorno in Africa, la sua cospicua fortuna si era ridotta a qualche centinaio di sovrane.

    La ricchezza non c’era più, ma le responsabilità sì. Zouga si girò verso il tiro di buoi neri pezzati.

    Aletta era seduta in cassetta. Alla luce del sole, i suoi capelli color oro pallido erano lisci come seta, ma i suoi occhi erano duri e le labbra non più dolci e morbide, come fosse preparata alle avversità cui era certa di andare incontro.

    Guardandola ora, sembrava impossibile che un tempo fosse stata una graziosa ragazza spensierata, la figlia prediletta di un padre agiato, con nessuna preoccupazione se non i modelli appena arrivati con il postale da Londra e i preparativi per l’imminente ballo nello sfavillante tourbillon della società di Cape Town.

    Era stata attratta dall’aura romantica del giovane maggiore Zouga Ballantyne, avventuriero ed esploratore delle regioni remote del continente africano, a cui si erano aggiunti la leggenda che lo dipingeva come un grande cacciatore di elefanti e il fascino del libro che aveva da poco pubblicato a Londra. Tutta la società di Cape Town era andata in visibilio per quel giovanotto e invidiava Aletta perché era riuscita a suscitare il suo interesse.

    Questo era successo molti anni prima, ormai la leggenda si era offuscata.

    Al di là del clima mite e temperato del litorale, l’educazione raffinata di Aletta non era stata all’altezza dei rigori dell’entroterra selvaggio, e i territori rozzi e gli abitanti che lo erano ancor di più l’avevano spaventata. Era caduta rapidamente vittima delle febbri e delle pestilenze, che l’avevano indebolita al punto da causarle diversi aborti.

    Tutta la sua vita matrimoniale sembrava scandita dal puerperio, dalla nebbia della febbre malarica o dall’interminabile attesa che quell’uomo con la barba dorata che Aletta venerava come un dio tornasse dall’altra parte di un oceano o dal caldo e malsano entroterra dove lei non poteva più seguirlo.

    Prima di quel viaggio ai giacimenti di diamanti, Zouga aveva dato per scontato che sua moglie restasse ancora una volta a casa del padre, a Cape Town, per curarsi la salute precaria e accudire i due figli nati dalle uniche gravidanze che era riuscita a portare a termine. Invece, d’un tratto, la donna aveva mostrato un’insolita determinazione, e nessuna delle argomentazioni usate per farle cambiare idea era servita a qualcosa. Forse aveva avuto una premonizione di ciò che stava per accadere: «Sono rimasta sola troppo a lungo» aveva detto a Zouga con voce bassa ma decisa.

    Ralph, il figlio maggiore, era ormai abbastanza grande per cavalcare davanti al carro con suo padre e per sparare alle mandrie di springbok, che attraversavano le pianure coperte di arbusti del vasto Karoo come una nuvola di fumo marrone chiaro. Cavalcava già il suo piccolo e robusto pony basuto con la spavalderia di un ussaro e sparava come un uomo.

    Jordan, il figlio minore, a volte guidava i primi buoi, altre si allontanava dai carri per rincorrere una farfalla o per raccogliere un fiore selvatico, ma perlopiù si accontentava di sedere a cassetta accanto a sua madre, che gli leggeva ad alta voce un volumetto di poesia romantica rilegato in cuoio. Gli occhi verdi del bambino brillavano al suono emozionante di quelle parole, che era ancora troppo piccolo per capire fino in fondo, e il sole abbagliante del Karoo tramutava i suoi ricci dorati nell’aureola di un angelo.

    Dal Capo di Buona Speranza ai giacimenti c’erano seicento miglia, un viaggio che richiese alla famiglia otto settimane. Ogni notte si accampavano nel veld e il cielo buio era freddo e limpido, trapunto di stelle bianche e splendenti come i diamanti che – ne erano certi – li aspettavano alla fine del viaggio.

    Seduto accanto al fuoco tra i due figli, Zouga parlava con quel tono magnetico e avvincente che catturava tutta la loro attenzione. Si dilungava nelle descrizioni della caccia al grande elefante e delle antiche città in rovina, degli idoli scolpiti e dell’oro rosso nativo della terra del Nord, lì dove li avrebbe condotti un giorno.

    Sull’altro lato del fuoco, Aletta ascoltava in silenzio, avvolta in uno scialle contro il freddo della notte, affascinata da quel sogno romantico come lo era stata da ragazza. Per l’ennesima volta si stupiva di se stessa e della sua inspiegabile attrazione per quell’uomo forte, dalla barba dorata, che era suo marito da anni, ma che spesso le sembrava ancora un estraneo.

    Lo ascoltava mentre diceva ai ragazzi che avrebbe riempito i loro berretti di grossi diamanti lucenti e che poi si sarebbero diretti verso il Nord per il loro ultimo viaggio.

    Si ritrovava a credere di nuovo a ogni cosa, anche se la prima disillusione risaliva a molto tempo prima. Zouga era così persuasivo, così vitale, forte e credibile che i fallimenti e le frustrazioni sembravano non avere importanza ed essere solo un ostacolo temporaneo al destino che lui aveva scelto per tutti loro.

    I giorni, che scorrevano al ritmo lento delle ruote del carro, diventarono settimane dedicate ad attraversare un vasto altopiano soleggiato, solcato da ripidi corsi d’acqua asciutti e punteggiato di fitte acacie verde scuro dai cui rami pendevano gli enormi nidi coloniali di migliaia di uccelli tessitori – ciascun nido, delle dimensioni di un cumulo di fieno, cresceva fino a spezzare il ramo robusto da cui era sostenuto.

    La linea monotona dell’orizzonte era interrotta qua e là da basse montagnole, le kopje del continente africano, e la pista si snodava direttamente verso una di loro.

    Kopje Colesberg. Solo settimane dopo il loro arrivo, Zouga venne a sapere la storia della scoperta di quella collinetta diamantifera.

    Qualche miglio più a nord, la pianura era interrotta dall’alveo di un ampio fiume poco profondo, sulle cui rive gli alberi erano più alti e più verdi. I boeri l’avevano chiamato Vaal, che in afrikaans significa il fiume grigio, dal colore delle sue acque stagnanti. Nel suo letto e tra la ghiaia delle pianure alluvionali lungo il suo corso, una piccola colonia di cercatori di diamanti raccoglieva da anni qualche pietra scintillante.

    Un lavoro noioso, faticosissimo, tanto che dopo la prima ondata di cercatori speranzosi erano rimasti solo gli irriducibili. Da anni queste anime tenaci sapevano che nel terreno asciutto trenta miglia a sud del fiume era possibile trovare qualche piccolo diamante di qualità inferiore. E in effetti, quel vecchio boero burbero di De Beer, che possedeva le terre di quella regione, vendeva licenze per concessioni diamantifere nella sua proprietà, benché prediligesse i cercatori della sua razza e fosse notoriamente contrario a concedere briefies agli inglesi.

    Per questi motivi, e anche per le migliori condizioni di vita lungo il fiume, i cercatori non si erano mostrati troppo interessati agli scavi all’asciutto del Sud.

    Poi, un giorno, il servitore ottentotto di un cercatore si era sbronzato con il Cape Smoke, il fortissimo brandy di Cape Town, e aveva incendiato per sbaglio la tenda del padrone, bruciandola completamente.

    Quando era tornato sobrio, il cercatore l’aveva frustato con lo sjambok, lo scudiscio di pelle di rinoceronte conciata, finché non era più riuscito a reggersi in piedi. Quando si era ripreso dalla punizione, il padrone gli aveva ordinato di avventurarsi, sempre coperto di disonore, nella regione oltre il fiume e di scavare «finché non trovi un diamante».

    Mortificato e ancora instabile, l’ottentotto si era messo in spalla la pala e lo zaino e si era incamminato barcollando. Di lì a poco il padrone si era dimenticato di lui finché, due settimane dopo, il servitore era ricomparso inaspettatamente e gli aveva messo in mano cinque o sei bellissime pietre bianche, la più grande delle quali aveva le dimensioni della falangetta d’un mignolo di donna.

    «Dove?» aveva domandato Fleetwood Rawstorne, che non era riuscito ad aggiungere altro a causa della gola secca e chiusa dall’emozione.

    Qualche minuto dopo, Fleetwood si era allontanato al galoppo dall’accampamento, abbandonando un carro di detriti raschiati dall’alveo e lasciando la culla di diamanti a metà del processo di setacciatura della ghiaia diamantifera più pesante. Daniel, il servitore ottentotto, era aggrappato alla cinghia della staffa, e con i piedi nudi che sfioravano la terra asciutta alzava piccoli sbuffi di polvere, mentre il berretto di lana rossa, tratto distintivo della squadra di Fleetwood, gli svolazzava dietro la testa calva come una bandiera, invitando gli altri a seguirlo.

    Quel comportamento aveva fatto immediatamente dilagare il panico nella piccola e competitiva comunità di cercatori lungo il fiume. Di lì a un’ora, un’alta colonna di polvere rossa si era sollevata dal terreno piatto e secco; un’impetuosa fila di uomini frustava i cavalli mentre, dietro di essa, i carri procedevano rumorosamente e i meno fortunati incespicavano e scivolavano sul terreno sabbioso, correndo per miglia verso sud, in direzione della piccola e arida fattoria del vecchio De Beer, dove si ergeva un’altra modesta kopje spoglia e sassosa, identica alle diecimila che punteggiavano la pianura.

    In quello stesso giorno del cupo e secco inverno del 1871, la kopje era stata chiamata Colesberg, perché Colesberg era il luogo di nascita di Fleetwood Rawstorne, e verso quel punto, da distanze polverose e riarse, era arrivato sciamando il New Rush, la nuova ondata di cercatori di De Beer.

    Era quasi buio quando, precedendo di poco coloro che lo seguivano, Fleetwood aveva raggiunto la kopje. Il cavallo era esausto, bagnato di sudore e bava bianca, ma l’ottentotto era ancora aggrappato alla cinghia.

    Smontando dall’animale ansimante e malfermo, padrone e servitore si erano lanciati verso il pendio. I berretti scarlatti che ballonzolavano sopra i rovi si vedevano da mezzo miglio di distanza e dalla colonna cenciosa alle loro spalle si alzò rauco un urlo emozionato.

    Sulla sommità della collina, il servitore aveva scavato un pozzo di dieci piedi nella terra dura, un minuscolo graffio rispetto a ciò che sarebbe venuto dopo. In preda alla fretta, lanciando occhiate timorose all’orda che dal basso saliva nella sua direzione, Fleetwood aveva delimitato con i picchetti la linea centrale della sua concessione attraverso l’angusta imboccatura dello scavo.

    La notte era calata su un autentico campo di battaglia in cui cercatori nerboruti imprecavano gli uni contro gli altri e agitavano pugni e manici di piccone per sgombrare il terreno e piantare i loro picchetti. A mezzogiorno dell’indomani, quando De Beer era arrivato dal suo primitivo alloggio di due stanze per iniziare a scrivere briefies – la parola afrikaans per licenze – l’intera kopje, come anche la pianura tutt’intorno per un quarto di miglio, era coperta di picchetti.

    Ogni concessione misurava trenta piedi quadrati, con il centro e gli angoli segnati da un palo di legno appuntito, tagliato da un ramo di acacia. Pagando a De Beer una quota annuale di dieci scellini, il cercatore riceveva una briefie scritta che lo autorizzava a detenere e a sfruttare la concessione per sempre.

    Prima che calasse il buio su quel primo giorno, i cercatori fortunati che avevano picchettato il centro della nuova area avevano a malapena scalfito il terreno sassoso, ma avevano raccolto più di quaranta pietre della prima acqua, mentre altri uomini a cavallo erano già partiti verso sud, portando al mondo la notizia che kopje Colesberg era una montagna di diamanti.

    Quando il carro cigolante di Zouga Ballantyne percorse le ultime miglia della pista di terra rossa, l’altura era già stata intaccata per metà, come un formaggio marcio mangiato dai vermi, e gli uomini sciamavano ancora su ciò che ne rimaneva. Sulla polverosa pianura sottostante erano accampate quasi diecimila anime, nere, marroni e bianche. Il fumo dei loro fuochi tingeva di grigio sporco l’alto cielo azzurro e, per alimentare le fiamme, i cercatori avevano quasi spogliato la pianura delle sue bellissime acacie per intere miglia, in ogni direzione.

    L’insediamento si estendeva sotto sporchi teli consumati dalle intemperie, anche se alcuni pannelli dell’onnipresente lamiera ondulata erano già stati trasportati faticosamente dalla costa e uniti a formare rozze baracche simili a scatole. Con notevole senso dell’ordine, alcune erano state disposte su una specie di linea retta, formando così le prime strade rudimentali.

    Appartenevano ai kopje wallopers, i compratori di diamanti, ex nomadi che fino a poco tempo prima avevano vagato tra gli scavi, ma che ora avevano pensato valesse la pena aprire bottega ai piedi dell’ormai franosa kopje Colesberg. Secondo le leggi sui diamanti da poco introdotte nel Libero stato boero, ciascun compratore in possesso di una licenza doveva esporre il proprio nome in modo ben visibile. Lo facevano affiggendo insegne scritte alla bell’e meglio sopra i roventi uffici di lamiera, ma la maggior parte di loro si spingeva oltre, mettendo sul tetto un’enorme e sgargiante bandiera dai motivi fantasiosi per comunicare ai cercatori che il titolare era in sede e pronto a fare affari. Le bandiere conferivano all’insediamento l’aspetto di un luna park.

    Zouga Ballantyne camminava a destra del bue guida, seguendo una delle anguste e tortuose piste piene di solchi che attraversavano la colonia. Di tanto in tanto doveva farlo spostare per evitare gli sterili riversati sul sentiero da uno degli impianti di recupero o per scansare un profondo pantano formato dalle acque di scarico e dai lavaggi sulle tavole di cernita.

    L’insediamento era molto affollato: fu quella la prima impressione di Zouga. Era uomo delle pianure e delle savane, abituato a lunghi orizzonti ininterrotti, e la calca gli urtava i nervi. I cercatori vivevano stipati l’uno accanto all’altro, e ciascuno tentava di avvicinarsi il più possibile alla propria concessione in modo da non dover portare la ghiaia troppo lontano per la lavorazione.

    Zouga aveva sperato di trovare uno spazio aperto in cui togliere il giogo ai buoi e montare la sua grande tenda, ma non esistevano spazi aperti nel raggio di un quarto di miglio dalla kopje.

    Si voltò a guardare Aletta. Sedeva immobile, muovendosi solo quando il carro sobbalzava, con lo sguardo puntato davanti a sé, come se non vedesse quegli uomini mezzi nudi, molti dei quali con indosso soltanto uno scampolo di tela intorno ai lombi, che facevano roteare i grumi scricchiolanti di ghiaia gialla e poi li trasferivano nelle culle. Lavorando, imprecavano o cantavano, unti di sudore sotto il sole inclemente.

    La sporcizia colpì persino Zouga, che aveva visto i kraal dei mashona al Nord e vissuto in un insediamento di boscimani, quelle piccole creature che non hanno mai fatto un bagno in vita loro.

    L’uomo civilizzato produce rifiuti particolarmente ripugnanti, e ogni pollice quadrato della polverosa terra rossa tra le tende e le baracche sembrava coperto da scatole di latta arrugginite, frammenti di bottiglie e porcellane che scintillavano sotto il sole, una tempesta di cartacce, carcasse decomposte di gatti randagi e cani indesiderati, avanzi di cibo raschiati dalle pentole, escrementi di chi era troppo pigro per scavare una latrina nella terra dura e coprirla con uno schermo di argentea erba del Karoo, e tutti gli altri scarti di cui si erano circondati diecimila esseri umani senza controllo né regolamenti sanitari.

    Zouga incrociò lo sguardo di Aletta e le sorrise con fare rassicurante, ma lei non lo ricambiò. Aveva le labbra strette in un’espressione coraggiosa, ma i grandi occhi brillavano delle lacrime che le erano affiorate alle palpebre inferiori.

    Passarono accanto a un vetturale che, viaggiando per seicento miglia, aveva portato dalla costa un carico di merci, trasformando il pianale del carro in una bottega ed esponendo un cartello su cui aveva scritto il listino prezzi con il gessetto:

    CANDELE: £1/CONFEZIONE

    WHISKY: £12/CASSA

    SAPONE: 5/- PEZZO

    Zouga non si voltò di nuovo verso Aletta, i prezzi erano venti volte superiori a quelli più diffusi sulla costa. In quel momento, probabilmente, il New Rush di De Beer era il luogo più costoso sulla faccia della terra. All’improvviso le sovrane rimaste nella cintura di cuoio portamonete intorno alla vita di Zouga sembrarono leggere come piume.

    Prima di mezzogiorno, ai margini dell’enorme accampamento circolare, trovarono un punto in cui staccare i buoi. Mentre Jan Cheroot, il servitore ottentotto di Zouga, pascolava e abbeverava gli animali, il maggiore si affrettò a montare la pesante tenda di tela, con Aletta e i ragazzi che tenevano i cavi mentre lui piantava i picchetti.

    «Devi mangiare» borbottò Aletta, sempre evitando di guardarlo. Accovacciata davanti al fuoco, mescolava nella pentola di ghisa gli avanzi di uno springbok a cui Ralph aveva sparato tre giorni prima.

    Avvicinandosi, Zouga si piegò e la tirò su mettendole le mani sulle spalle. Si muoveva rigida come una vecchia, il viaggio lungo e faticoso era costato caro al suo fragile corpo.

    «Andrà tutto bene» disse mentre lei continuava a non guardarlo. Forse aveva sentito troppo spesso quella rassicurazione. Prendendole il mento, le sollevò il viso e finalmente le lacrime sgorgarono e le rigarono le guance, tracciando piccoli solchi nella polvere rossa che le copriva la pelle. Inspiegabilmente, quelle lacrime irritarono Zouga, come fossero un’accusa. Lasciò cadere le mani e fece un passo indietro.

    «Tornerò prima che faccia buio.» Girandosi, si allontanò verso il profilo della kopje franata, che si stagliava nitida anche tra i miasmi puzzolenti del fumo e la polvere che aleggiavano sopra l’accampamento.

    Zouga avrebbe potuto essere uno spettro, una creatura fatta d’aria, invisibile all’occhio umano. Lo superavano frettolosi sulla pista stretta o, mentre passava, restavano chini sui setacci e sulle culle senza muovere la testa o anche solo lanciare un’occhiata noncurante. Un’intera comunità che viveva per una sola cosa, completamente assorbita e ossessionata.

    Per esperienza Zouga sapeva che c’era un luogo in cui avrebbe potuto stabilire un contatto umano, ottenendo così le informazioni di cui aveva un disperato bisogno. Stava cercando una mescita in cui vendessero superalcolici.

    Sotto la kopje c’era uno spazio aperto, l’unico dell’accampamento. Era più o meno quadrato, attorniato da baracche di tela e lamiera e ingombro dei carri dei vetturali.

    Scelse una delle baracche che si presentava pomposamente come The London Hotel e, sullo stesso cartello, reclamizzava:

    WHISKY: 7/6. MIGLIOR BIRRA INGLESE: 5/- BOCCALE

    Si stava facendo strada attraverso quella piazza del mercato piena di solchi e di rifiuti quando una serie di acclamazioni fragorose e un coro di Perché è un bravo ragazzo provenienti dalla kopje lo costrinsero a fermarsi. Un gruppo eterogeneo di cercatori, con i visi arrossati dalla polvere e dall’emozione, arrivò cantando, urlando e pestando i piedi, con uno di loro sulle spalle. A spallate entrarono nello sgangherato bar davanti a Zouga mentre dalle altre mescite e dai carri parcheggiati altri uomini accorrevano per scoprire la ragione di tutto quell’entusiasmo.

    «Cosa succede?» gridarono.

    «Black Thomas ha trovato una scimmia» fu la risposta.

    Zouga avrebbe imparato il gergo dei cercatori solo in seguito. Una scimmia era un diamante di cinquanta carati o più, mentre un pony era il sogno impossibile di ogni cercatore, una pietra da cento carati.

    «Black Thomas ha trovato una scimmia.» La notizia si diffuse nella piazza e in tutto l’accampamento, e di lì a poco la folla si riversò fuori dal bar, così che i boccali di birra schiumosa dovettero essere passati sopra le teste degli avventori fino agli uomini che si trovavano più in là.

    Zouga non riusciva a vedere il fortunato Black Thomas, nascosto dalla calca che gli si stringeva intorno. Tutti cercavano di avvicinarsi, come se la buona sorte fosse contagiosa.

    Udendo il trambusto, i kopje wallopers si affrettarono ad ammainare le bandiere e si precipitarono attraverso la piazza, avventandosi come avvoltoi sui resti della preda di un leone. I primi arrivarono trafelati ai margini della ressa e iniziarono a saltellare su e giù per intravedere Thomas.

    «Dite a Black Thomas che Werner Cuor di Leone gli fa un’offerta aperta. Riferitegli il messaggio.»

    «Ehi, Blackie, Cul di Leone apre.» La cifra mutò forma a mano a mano che veniva urlata attraverso la porta della mescita gremita. Un’offerta aperta era fissa e il cercatore era libero di rivolgersi agli altri compratori. Se non riceveva proposte migliori per il suo diamante, aveva il diritto di tornare dal primo offerente e concludere l’affare.

    Black Thomas fu issato di nuovo sulle spalle dei compagni perché vedesse sopra le teste. Era un piccolo gallese scuro come uno zingaro, con i baffi bianchi di schiuma. Con la sua dolce inflessione gallese gridò in tono di sfida: «Ascolta, Cul di Leone, piuttosto che lasciarlo alle grinfie d’un ladro come te preferirei…» e ciò che avrebbe preferito fare con il diamante fece strabuzzare gli occhi persino agli uomini lì intorno, che si misero a sghignazzare.

    Nella sua voce echeggiava il ricordo di cento umiliazioni e affari ingiusti che era stato costretto ad accettare fino a quel momento. Quel giorno, con la sua scimmia, Black Thomas era il re degli scavi e, se anche il suo regno fosse stato effimero, era determinato a raccoglierne tutte le delizie.

    Zouga non posò mai gli occhi sulla gemma né rivide più Black Thomas, perché prima di mezzogiorno dell’indomani il piccolo gallese aveva venduto il diamante e le sue briefies e aveva imboccato la lunga strada verso il Sud per tornare a casa, in una terra più bella e più verde.

    Nella ressa di corpi caldi e sudati che affollavano la mescita, Zouga si prese del tempo per scegliere con cura uno di quegli uomini; nel frattempo, ascoltava le voci diventare sempre più alte e il linguaggio più volgare a mano a mano che i boccali si vuotavano.

    La sua scelta ricadde su un tipo che, dal comportamento e dai discorsi, sembrava più un gentiluomo che un locale. Stava bevendo un whisky e, quando Zouga vide che il suo bicchiere era vuoto, si avvicinò e ordinò che glielo riempissero.

    «Molto gentile da parte vostra, vecchio mio» lo ringraziò l’altro. Aveva meno di trent’anni ed era di bell’aspetto, con una chiara carnagione inglese e morbidi favoriti. «Mi chiamo Pickering, Neville Pickering.»

    «Ballantyne, Zouga Ballantyne.» Zouga gli strinse la mano.

    L’uomo cambiò espressione. «Santo cielo, voi siete il cacciatore di elefanti.» Pickering alzò la voce. «Ehi, ragazzi, questo è Zouga Ballantyne. Sapete, quello che ha scritto Odissea di un cacciatore

    Zouga dubitava che metà di quegli uomini sapesse leggere, ma essere l’autore di un libro lo rendeva degno di ammirazione. Scoprì che l’interesse generale si era spostato da Black Thomas a lui.

    Si incamminò verso il carro solo dopo l’imbrunire. Aveva sempre avuto una buona resistenza all’alcol e la luna era luminosa, perciò riuscì a evitare di calpestare le porcherie di cui era disseminata la pista.

    Alla mescita aveva speso qualche sovrana, ma in compenso aveva scoperto diversi dettagli sugli scavi. Aveva ascoltato le speranze e le paure dei cercatori. Ormai conosceva il prezzo corrente delle briefies, i criteri politici ed economici dietro la determinazione dei prezzi dei diamanti, la composizione geologica della vena e altre cento sue caratteristiche. Aveva anche stretto un’amicizia che gli avrebbe cambiato la vita.

    Mentre Aletta e i ragazzi dormivano sotto la tenda del carro, Jan Cheroot lo aspettava accovacciato davanti al fuoco, una piccola figura simile a uno gnomo sotto i raggi argentei della luna.

    «Niente acqua gratis» annunciò cupamente. «Il fiume è a un giorno di marcia da qui, e quel ladro di boero che possiede i pozzi vende l’acqua allo stesso prezzo a cui, in questo posto infernale, vendono il brandy.» Si poteva stare certi che, dieci minuti dopo essere arrivati in una nuova città, Jan Cheroot conoscesse il prezzo corrente dei liquori.

    Zouga si arrampicò sul carro, facendo attenzione a non svegliare i ragazzi, ma Aletta era rigidamente distesa sulla branda angusta. Lui si sdraiò al suo fianco e tacque per diversi minuti.

    Poi Aletta sussurrò: «Sei deciso a restare in questo…». Fece una pausa, poi aggiunse con pacata veemenza: «In questo posto orribile».

    Zouga non rispose e, nel giaciglio dietro il drappo di tela che attraversava il carro, Jordan piagnucolò e poi tacque. Zouga aspettò che si calmasse prima di parlare.

    «Oggi un gallese di nome Black Thomas ha trovato un diamante. Si mormora che un compratore gli abbia offerto dodicimila sterline.»

    «Mentre eri via, una donna è venuta a vendermi un po’ di latte di capra.» Aletta sembrava non averlo sentito. «Dice che nell’accampamento c’è un’epidemia di tifo. Una donna e due bambini sono già morti e altri sono malati.»

    «Con mille sterline, un uomo può comprare una buona concessione sulla kopje.»

    «Ho paura per i ragazzi» bisbigliò Aletta. «Torniamo indietro. Potremmo smettere per sempre con questa vita nomade. Papà ha sempre desiderato che tu entrassi nell’azienda…»

    Il padre di Aletta era un ricco mercante di Cape Colony, ma al pensiero di una scrivania nel tetro ufficio contabilità della Cartwright and Company, Zouga rabbrividì al buio.

    «È ora che i ragazzi frequentino una scuola valida, altrimenti cresceranno come selvaggi. Ti prego, torniamo indietro.»

    «Una settimana» disse Zouga. «Concedimi una settimana… Siamo arrivati fin qui.»

    «Non credo di riuscire a sopportare le mosche e il sudiciume per un’altra settimana.» Aletta sospirò e gli voltò le spalle, attenta a non sfiorarlo.

    A Cape Town, il medico di famiglia che aveva visto nascere Aletta e l’aveva assistita durante entrambi i parti e i numerosi aborti, li aveva avvertiti in tono sinistro: «La prossima gravidanza potrebbe essere l’ultima, Aletta. Non mi assumo alcuna responsabilità per ciò che potrebbe accadere». Da quel giorno erano passati tre anni e, nelle rare occasioni in cui avevano diviso il letto, Aletta aveva sempre dormito girata dall’altra parte.

    Prima dell’alba, quando ancora Aletta e i ragazzi riposavano, Zouga scivolò giù dal carro. Nell’oscurità che precede il giorno, riattizzò le ceneri e, accovacciato lì, bevve un caffè. Quindi, al primo roseo chiarore dell’aurora, si unì alla fiumana di carri e uomini frettolosi che si apprestavano all’assalto quotidiano della collina.

    Tra i vortici di polvere, nella luce e nel calore sempre più intensi, si spostò da una concessione all’altra, osservando e valutando. Da tempo ormai era un geologo dilettante. Aveva letto ogni libro che era riuscito a trovare sull’argomento, spesso a lume di candela durante le cacce solitarie nel veld, e durante gli infrequenti ritorni in patria aveva passato giorni e settimane nel Museo di storia naturale a Londra, soprattutto nella sezione Geologia. Aveva addestrato gli occhi e affinato l’istinto in modo da riconoscere la configurazione delle formazioni rocciose e la grana, il peso e il colore di un campione di filone.

    In quasi tutte le concessioni, i suoi approcci furono accolti con scrollate di spalle o con schiene girate, ma un paio di cercatori si ricordarono di lui – il cacciatore d’elefanti e lo scrittore – e usarono la sua visita come pretesto per appoggiarsi alle pale e chiacchierare per qualche minuto.

    «Io ho due briefies» disse un certo Jock Danby, «ma per me sono Opere del diavolo. Con queste due mani» – sollevò gli enormi palmi callosi, con le unghie sporche e rosicchiate, «con queste mani ho spostato quindicimila tonnellate di roba e la pietra più grossa che ho trovato era di due carati. Quella lì» – indicò l’area accanto – «era la concessione di Black Thomas. Ieri ha trovato una scimmia, una maledetta, grossa scimmia schifosa, a soli due piedi dal mio picchetto. Cristo santo! Una cosa del genere ti spezza il cuore.»

    «Vi offro una birra.» Zouga accennò alla mescita più vicina e Jock si leccò le labbra, ma poi scrollò mestamente il capo. «Mio figlio ha fame. Al piccoletto si vedono le costole, ed entro domani a mezzogiorno devo pagare i salari.» Indicò una decina di neri mezzi nudi che, come lui, sgobbavano con piccone e secchio sul fondo di uno scavo rigorosamente diviso in quadrati. «Questi bastardi mi costano una fortuna ogni giorno.»

    Si sputò sui palmi e sollevò la pala, ma Zouga riprese con calma: «Dicono che il filone si abbasserà al livello della pianura». Ormai la kopje era ridotta a soli venti piedi sopra la spianata circostante. «Cosa ne pensate?»

    «Signore, porta sfortuna anche solo parlarne.» Fermando la pala a mezz’aria, Jock scoccò un’occhiata torva a Zouga, che si trovava sulla carreggiata sovrastante, ma il suo sguardo era pieno di paura.

    «Avete mai pensato di vendere?» domandò Zouga, e la paura fu subito sostituita dalla diffidenza.

    «Perché, signore? Pensate di comprare?» Jock si raddrizzò. «Permettetemi di darvi un consiglio spassionato. Non pensateci neppure, a meno che non abbiate seimila sterline in tasca.» Lo guardò speranzoso.

    Zouga lo fissò imperturbabile. «Grazie per il vostro tempo, signore. Vi auguro che la ghiaia duri.»

    E sfiorandosi la falda del cappello, si allontanò. Jock Danby lo seguì con lo sguardo, quindi sputò sulla terra gialla ai suoi piedi e vi conficcò la pala come se fosse un nemico mortale.

    Mentre si allontanava, Zouga provò una strana euforia. C’era stato un periodo in cui aveva vissuto grazie alle vincite a carte e ai dadi, e ora sentiva dentro di sé l’istinto del giocatore. Sapeva che la ghiaia non si sarebbe esaurita. Sapeva che, pura e ricca, affondava nelle viscere della terra. Lo sapeva con assoluta certezza ed era altrettanto sicuro di un’altra cosa.

    «La strada per il Nord inizia qui.» Parlò ad alta voce, sentendo il sangue fremere nelle vene. «È qui che inizia.»

    Aveva bisogno di compiere un atto di fede, di affermazione totale, e sapeva quale. Sugli scavi, i prezzi del bestiame erano esorbitanti e abbeverare i buoi gli costava una ghinea al giorno. Sapeva come lasciarsi tutto alle spalle.

    A metà pomeriggio aveva già venduto i buoi: cento sterline l’uno, e cinquecento per il carro. Ormai era fatta: quando posò la moneta d’oro sul banco di legno grezzo della baracca che ospitava la filiale della Standard Bank ebbe un brivido di eccitazione in tutto il corpo.

    Non si poteva più tornare indietro. Stava scommettendo tutto sulla ghiaia gialla e sulla strada verso il Nord.

    «Zouga, avevi promesso» mormorò Aletta quando il compratore si presentò all’accampamento per portare via i buoi. «Avevi promesso che tra una settimana…» Poi tacque quando vide la sua espressione. La conosceva bene. Tirò a sé i due ragazzi e li tenne stretti.

    Jan Cheroot si avvicinò a ciascun animale e gli sussurrò qualcosa all’orecchio, tenero come un amante, e quando l’acquirente li condusse via, scoccò a Zouga un’occhiata di rimprovero.

    Nessuno dei due parlò e, alla fine, l’ottentotto abbassò lo sguardo e si allontanò, piccolo gnomo esile, scalzo e con le gambe arcuate.

    Pensando di averlo perso, Zouga fu assalito da un’ondata di tristezza, perché quell’ometto era un amico, un maestro e un compagno da dodici anni. Era stato Jan Cheroot a trovare le tracce del suo primo elefante, restando al suo fianco quando l’aveva abbattuto. Insieme avevano marciato e cavalcato in tutto quel continente selvaggio, bevendo dalla stessa bottiglia e mangiando nella stessa pentola davanti a mille fuochi. Eppure non se la sentì di richiamarlo. Sapeva che l’altro doveva decidere da solo.

    Non avrebbe dovuto preoccuparsi. Quella sera, quando arrivò l’ora del dop, Jan Cheroot era lì con la sua tazza di smalto scheggiata. Zouga sorrise e, ignorando la tacca che indicava la sua razione giornaliera di brandy, la riempì fino all’orlo.

    «È stato necessario, vecchio mio» spiegò.

    Jan Cheroot annuì solennemente. «Erano delle buone bestie. Ma d’altro canto ho visto uscire molte ottime bestie dalla mia vita, a due e a quattro zampe.» Assaggiò il liquore. «Dopo un po’ di tempo e un paio di goccetti non ha più importanza.»

    Aletta non parlò più finché i ragazzi non si furono addormentati sotto la tenda. «Vendere i buoi e il carro è stata la tua risposta.»

    «Abbeverarli costava una ghinea al giorno e non ci sono più pascoli nel raggio di miglia.»

    «Ci sono state altre tre morti nell’accampamento. Oggi ho contato trenta carri che andavano via. Il campo è contaminato.»

    «Sì.» Zouga annuì. «Alcuni titolari delle concessioni si stanno innervosendo. Una concessione che ieri mi era stata offerta a millecento sterline oggi è stata venduta a novecento.»

    «Zouga, non è giusto nei miei confronti e in quelli dei ragazzi» protestò Aletta, ma lui la interruppe.

    «Posso trovare un passaggio per voi tre sul carro di un vetturale. Ha esaurito le scorte e parte nei prossimi giorni. Vi riporterà a Cape Town.»

    Si spogliarono al buio, senza parlare, e quando Aletta lo seguì nel giaciglio duro e angusto, il silenzio si prolungò, finché Zouga pensò si fosse addormentata. Poi sentì la sua mano, liscia e morbida, accarezzargli la guancia.

    «Mi dispiace, tesoro.» La sua voce era lieve come il suo tocco, e il suo respiro gli mosse la barba. «Ero molto stanca e depressa.»

    Zouga le prese la mano, portandosi i polpastrelli alle labbra.

    «Sono stata una pessima moglie per te, sempre debole e malata, mentre avresti avuto bisogno di una donna veramente forte.» Gli sfiorò timidamente il corpo con il proprio. «E ora, quando dovrei confortarti, mi limito a frignare.»

    «No. Non è vero.» In passato, però, per quegli stessi motivi, Zouga aveva provato rancore nei suoi confronti, arrivando a considerarla un peso.

    «Eppure ti amo. Ti ho amato dal primo giorno che ti ho visto e non ho mai smesso.»

    «Anch’io ti amo» sussurrò Zouga di riflesso. Poi, per rimediare alla poca spontaneità, le mise il braccio intorno alle spalle e, tirandola a sé, le premette la guancia contro il proprio petto.

    «Odio me stessa perché sono così debole e cagionevole» disse Aletta con voce esitante, «e perché non so più essere una buona moglie.»

    «Ssst! Non angustiarti.»

    «Vedrai, d’ora in poi sarò forte.»

    «Dentro di te sei sempre stata forte.»

    «Non è vero, ma in futuro lo sarò. Insieme troveremo molti diamanti e dopo andremo al Nord.» Vedendo che Zouga non rispondeva, Aletta proseguì: «Voglio fare l’amore con te. Subito».

    «Sai che è rischioso.»

    «Subito. Subito. Ti prego.» E staccandogli la mano dal proprio viso, gliela infilò sotto l’orlo della camicia da notte, sulla pelle calda e liscia della coscia. Non l’aveva mai fatto prima e Zouga provò un misto di stupore ed eccitazione, immediatamente seguito da una tenerezza e una compassione per lei che non sentiva da anni.

    Quando Aletta riprese a respirare normalmente, sgusciò via dalle sue mani e dal giaciglio.

    Puntellato su un gomito, Zouga la guardò accendere la candela e inginocchiarsi davanti al baule, legato alla branda con una fune. Si era intrecciata i capelli fissandoli con un nastro, e il suo corpo era snello come quello di una ragazzina. Il chiarore della candela la rendeva più bella, cancellando i segni della malattia e delle preoccupazioni. Zouga ricordò quanto fosse stata attraente.

    Alzato il coperchio del baule, Aletta prese qualcosa e glielo portò. Era uno scrigno con una serratura d’ottone riccamente decorata. La chiave era nella toppa.

    «Aprilo.»

    Alla luce della candela, Zouga vide che dentro c’erano due grossi rotoli di banconote da cinque sterline, ciascuno chiuso con uno scampolo di nastro, e un sacchetto di velluto verde scuro con la chiusura a cordoncino. Sollevando il sacchetto, si rese conto che era pieno di pesanti monete d’oro.

    «Le ho messe da parte» sussurrò Aletta, «per il giorno in cui ne avessimo avuto davvero bisogno. Sono quasi mille sterline.»

    «Dove le hai prese?»

    «Mio padre, il giorno delle nostre nozze. Prendile. Compra la concessione. Questa volta andrà bene. Filerà tutto liscio.»

    * * *

    Il mattino successivo, l’acquirente andò a prendere il carro. Aspettò impaziente che la famiglia trasferisse i suoi pochi averi sotto la tenda a campana.

    Una volta spostati i giacigli da sotto la metà coperta del carro, Zouga poté sollevare le tavole dall’angusto scomparto sopra la ruota posteriore. Lì, per tenere basso il centro di gravità del veicolo, si sistemavano gli oggetti più pesanti: la catena di scorta, il piombo da fondere per fare i proiettili, teste d’ascia, una piccola incudine e poi l’idolo a forma di uccello, che Zouga e Jan Cheroot sollevarono con notevole fatica e posarono sul terreno accanto al carro.

    Insieme, lo trasportarono dritto fino alla tenda e lo appoggiarono contro il telo in fondo a essa.

    «Ho portato questo maledetto coso dal Matabeleland a Cape Town, e da lì fino a qui» borbottò Jan Cheroot, schifato, allontanandosi dall’uccello scolpito sul suo piedistallo di pietra.

    Zouga sorrise indulgente. L’ottentotto odiava la scultura fin dal giorno in cui l’avevano scoperta insieme tra le rovine di un’antica città murata, in cui si erano imbattuti mentre andavano a caccia di elefanti in quella remota e inospitale regione del Nord.

    «È il mio portafortuna» disse Zouga divertito.

    «Quale fortuna?» domandò Jan Cheroot in tono amaro. «È una fortuna dover vendere i buoi? È una fortuna vivere in una tenda invasa dalle mosche in mezzo a una tribù di selvaggi bianchi?» Continuando a lamentarsi, Jan Cheroot uscì dalla tenda e portò i due cavalli rimasti ad abbeverarsi tenendoli per le cavezze.

    Zouga si fermò un istante davanti alla statua, che si ergeva sulla sua colonna lucida di steatite verde e gli arrivava fino alla testa. Riproduceva la figura stilizzata di un falco sul punto di spiccare il volo e la curva crudele del becco lo affascinava. Come suo solito, Zouga ne accarezzò la pietra levigata, e gli occhi dell’uccello, vacui e insondabili, ricambiarono il suo sguardo.

    Stava per sussurrare qualcosa al falco quando Aletta lo colse di sorpresa infilando la testa nell’apertura triangolare della tenda.

    Svelto, spinto da una sorta di rimorso, Zouga abbassò la mano e si voltò. Aletta, che detestava la statua ancor più di Jan Cheroot, restò immobile. Aveva le braccia cariche di lenzuola e vestiti piegati con cura e un’espressione preoccupata.

    «Zouga, dobbiamo proprio tenere qui quel coso?»

    «Non occupa spazio.» Zouga si avvicinò e, prendendo le lenzuola, le posò sulla branda, quindi si girò per abbracciarla.

    «Non dimenticherò mai ciò che hai fatto ieri notte.» La sentì rilassarsi. Aletta si appoggiò al suo corpo, sollevando il viso verso il suo. Ancora una volta, Zouga provò una stretta al cuore e un impeto di compassione quando vide le rughe agli angoli dei suoi occhi e della sua bocca: sua moglie era stanca, malata e preoccupata.

    Piegò la testa per baciarle le labbra, provando un certo imbarazzo per quell’insolita manifestazione di affetto, ma in quell’istante, tra risa e urla emozionate, i ragazzi entrarono di corsa nella tenda, trascinandosi dietro un cucciolo legato a una corda. Aletta si affrettò a sciogliersi dall’abbraccio e, rossa di vergogna, si raddrizzò il grembiule rimproverando teneramente i figli.

    «Portatelo fuori! È pieno di pulci.»

    «Per favore, mamma!»

    «Fuori, ho detto!»

    Aletta guardò Zouga addentrarsi nell’insediamento, lungo il sentiero polveroso, con le spalle diritte e la solita andatura disinvolta. Poi, sospirando, si girò verso la campana di tela sudicia montata sull’arida pianura sotto lo spietato cielo azzurro d’Africa. Ondate di stanchezza tornarono ad assalirla.

    Quando era ragazza, erano i servitori a svolgere le umili mansioni della cucina e delle pulizie. Lei invece non si era ancora abituata alle fiamme fumose e irrequiete del fuoco da campo e, tutt’intorno, un sottile strato di polvere rossa aveva già coperto ogni cosa, persino la superficie del latte di capra nella brocca di terracotta. Con un enorme sforzo, fece appello alle proprie energie e, piegandosi, entrò con determinazione nella tenda.

    Ralph aveva seguito Jan Cheroot ai pozzi per aiutarlo con i cavalli. Aletta sapeva che non sarebbero tornati fino al pasto successivo. Erano una coppia improbabile, il vecchio rugoso e il bel ragazzo spericolato, già più alto e robusto del suo inseparabile protettore e tutore.

    Jordan era rimasto con lei. Non aveva ancora compiuto dieci anni, ma Aletta dubitava che senza di lui sarebbe riuscita a sopportare le miglia estenuanti, le opprimenti giornate polverose e le notti gelide.

    Il bambino era già capace di cucinare le semplici pietanze da campo e, a ogni pasto, la famiglia mangiava di gusto il suo pane senza lievito e le sue focaccine tostate. Aletta gli aveva insegnato a leggere e a scrivere, trasmettendogli l’amore per la poesia e per le cose belle e raffinate. Jordan sapeva rammendare le camicie e stirarle con il pesante ferro pieno di carbone. La sua vocina acuta e la sua bellezza angelica erano una fonte costante di gioia per Aletta, che gli aveva fatto crescere i ricci dorati benché Zouga volesse tagliarglieli corti come aveva fatto con Ralph.

    Ora Jordan era al suo fianco e la aiutava a posizionare il telo che avrebbe diviso la zona giorno dalla zona notte. D’un tratto Aletta sentì l’impulso di chinarsi ad accarezzargli i bei ricci soffici.

    Il bambino stava sorridendo dolcemente quando, all’improvviso, sua madre ebbe un capogiro. In piedi sulla branda traballante, Aletta vacillò e cercò di tenersi in equilibrio e, quando cadde, Jordan provò a sostenerla. Ma non era abbastanza forte e il peso della madre li inchiodò entrambi a terra.

    Jordan la fissò con gli occhi sgranati e colmi di terrore, poi, un po’ strisciando, un po’ barcollando, la aiutò a raggiungere la branda e a crollarvi sopra.

    Aletta fu colta dalla nausea e dalle vertigini.

    * * *

    Quando l’impiegato aprì la porta affacciata su Market Square, Zouga fu il primo cliente a entrare nella sede della Standard Bank. Dopo che ebbe depositato il contenuto dello scrigno di Aletta e l’impiegato lo ebbe chiuso nella grande cassaforte di ferro verde sulla parete opposta, Zouga era titolare di un conto di quasi duemilacinquecento sterline.

    Quella consapevolezza lo riempì di determinazione. Si sentiva alto e potente mentre camminava sulla rampa della strada rialzata centrale.

    Le carreggiate erano larghe sette piedi. Dopo la lezione degli scavi a Bultfontein e a Dutoitspan, il commissario alle miniere aveva insistito affinché quegli accessi restassero aperti per servire le concessioni al centro della fossa sempre più grande. Gli scavi erano un mosaico di piattaforme quadrate, ciascuna di trenta piedi quadri. Alcuni cercatori, più ricchi e meglio organizzati, scavavano più rapidamente degli altri, tanto che i più lenti erano isolati su torri di terra gialla, alte sopra le concessioni vicine, mentre i più veloci avevano costruito profondi pozzi quadrati in fondo ai quali lavoravano gli operai neri nudi.

    Spostarsi da una concessione all’altra costituiva ormai un viaggio complicato, se non addirittura pericoloso. Occorreva camminare su traballanti passerelle di assi sopra il pozzo vertiginoso di una concessione profonda, arrampicarsi lungo dondolanti scale di corda o scendere scalette formate da due pali di legno locale uniti da pioli che scricchiolavano e spesso cedevano sotto il peso di un uomo.

    Fermo sulla strada che si sbriciolava, con i pozzi spalancati ai suoi piedi, Zouga si domandò cosa sarebbe successo se la vena si fosse estesa in profondità. Scendere in quel pozzo irregolare richiedeva sangue freddo e stomaco forte, e si stupì di nuovo della determinazione umana ad accumulare ricchezze contro qualsiasi avversità, davanti a qualunque pericolo.

    Rimase a guardare mentre dal fondo di uno degli scavi, dondolando all’estremità di una lunga fune, un secchio di cuoio, pieno di ghiaia gialla compatta, veniva issato da due neri sudati, chini sull’argano, con i muscoli che si gonfiavano e si rilassavano sotto l’abbagliante luce del sole.

    Il recipiente raggiunse il bordo della strada e, afferratolo, i due lo portarono verso il carro che aspettava con la sua paziente coppia di muli e lo rovesciarono sul pianale mezzo pieno. Quindi uno di loro lo calò vuoto oltre il lato della strada, agli altri uomini che si trovavano cinquanta piedi più in basso. La stessa operazione si ripeteva in centinaia di altri punti lungo le quattordici strade rialzate; i secchi carichi venivano tirati su, svuotati e calati senza sosta.

    Di tanto in tanto, spezzando il ritmo monotono, la cucitura di un secchio cedeva e gli uomini venivano investiti da una pioggia di ghiaia e frammenti di roccia. Oppure una fune consunta si rompeva di colpo e, avvisati dalle urla dei compagni, gli uomini al fondo del pozzo si affrettavano a spostarsi per non essere colpiti.

    Un’impazienza vibrante avvolgeva l’intera area degli scavi. Gli ordini urgenti tra il pozzo e la strada, i cigolii delle carrucole, i tonfi scricchiolanti dei picconi e delle pale e il coro cantilenante di una squadra di basuto – piccoli e muscolosi montanari del Dragon Range – che cantava mentre lavorava.

    Chiassosi e prepotenti, i cercatori bianchi andavano su e giù lungo le scale vacillanti oppure sorvegliavano le loro squadre in fondo ai pozzi, tenendo gli occhi ben aperti per impedire qualunque prelievo, l’eventualità che un diamante prezioso venisse estratto e rapidamente nascosto nel palmo della mano da un operaio nero, pronto a infilarselo in bocca o in un altro orifizio del corpo appena fosse stato possibile.

    La vendita e l’acquisto illegali dei diamanti erano già un flagello per i cercatori. Ai loro occhi, qualunque nero era sospetto. Soltanto gli uomini con meno di un quarto di sangue nero avevano il diritto di detenere e sfruttare una concessione. Quella legge semplificava l’attribuzione delle colpe, perché una faccia nera con un diamante in suo possesso era colpevole senza appello. La legge, tuttavia, non riusciva a impedire che alcuni bianchi dall’aria losca si aggirassero intorno agli scavi, spacciandosi per venditori ambulanti, attori o proprietari di famigerate bettole, ma in realtà tutti CID, Compratori Illegali di Diamanti. I cercatori li odiavano con una ferocia che sfociava in notti di sommosse, pestaggi e incendi, durante le quali i mercanti innocenti, insieme ai colpevoli, perdevano tutti i loro averi, mentre la folla di cercatori danzava intorno alle baracche in fiamme gridando: «CID! CID!».

    Zouga procedeva con prudenza lungo il ciglio della strada, a tratti spinto pericolosamente vicino all’orlo dall’arrivo di un carro carico di terra diamantifera.

    Quindi raggiunse il punto sopra le concessioni da cui il giorno precedente aveva parlato con Jock Danby.

    Le due concessioni erano deserte, la corda arrotolata e il secchio di cuoio abbandonati e, sotto il livello della strada, il manico di un piccone si innalzava con la punta conficcata nel terreno.

    Un cercatore alto e barbuto stava lavorando nella concessione vicina. Quando Zouga lo salutò, si voltò a guardarlo con espressione contrariata.

    «Cosa volete?»

    «Sto cercando Jock Danby.»

    «State cercando nel posto sbagliato.»

    L’uomo si voltò, sferrando un calcio all’operaio più vicino. «Sebenza, stupida scimmia nera!»

    «Dove posso trovarlo?»

    «Dall’altra parte di Market Square, dietro il Lord Nelson» rispose l’uomo senza girare neppure la testa.

    Lo spazio aperto, polveroso e costellato di buche, era disseminato di rifiuti quanto il resto dell’accampamento e affollato dai carri dei vetturali e dei contadini, che erano andati fin lassù per vendere latte o ortaggi, e dei venditori d’acqua, che distribuivano il prezioso liquido a secchi.

    Il Lord Nelson era una struttura di legno sormontata da un telo macchiato e impolverato di rosso. Tre degli avventori della sera prima erano stesi come cadaveri imbalsamati nell’angusto vicolo accanto alla mescita, mentre l’unica sala della stessa si stava già riempiendo di clienti mattinieri.

    Un cane randagio fiutò l’alito di un ubriacone svenuto e di colpo si tirò indietro, poi si allontanò per andare a frugare nel bidone della spazzatura dietro il tugurio.

    Zouga scavalcò i corpi, avanzando nel vicolo sudicio e rumoroso. Dovette chiedere ad altre cinque o sei persone prima di individuare la baracca di Jock Danby. I cercatori di diamanti erano così ossessionati dallo scintillio nascosto della ricchezza, e la popolazione degli scavi così provvisoria, che ciascuno sembrava conoscere soltanto i nomi dei suoi vicini. Era una comunità di sconosciuti in cui ognuno pensava a se stesso, interessandosi agli altri esseri umani solo nella misura in cui potevano aiutarlo o ostacolarlo nella ricerca delle pietre sfavillanti.

    La baracca di Jock Danby era identica ad altre mille. Due stanze fatte di mattoni in terra cruda, coperte di paglia e tela sbrindellata. A un’estremità c’era un annesso con un fuoco fumante sopra il quale si trovava una fuligginosa pentola a tre piedi.

    Nel cortile caotico e polveroso davanti alla baracca c’era l’immancabile tavola di cernita, una struttura bassa con gambe di legno resistenti e un ripiano rivestito da un foglio di metallo laminato, reso lustro dai ciottoli diamantiferi che avevano strofinato la sua superficie. I raschietti di legno erano abbandonati sul ripiano, al cui centro un mucchio di ghiaia setacciata e lavata formava una piramide scintillante.

    Davanti alla porta c’era un carro a due ruote con una coppia di asini sonnolenti che, ancora legati alle stanghe, agitavano le orecchie per dissipare il nugolo nero di mosche ronzanti. Sul pianale c’erano mucchi di terra gialla, ma il cortile era deserto.

    Ai lati dell’uscio, in netto contrasto con il resto della scena, c’erano alcuni stentati gerani scarlatti piantati in latte da un gallone. All’unica finestra si vedevano graziose tendine di pizzo che dovevano essere state lavate molto di recente, perché non si erano ancora tinte di rosso ocra né erano macchiate dagli escrementi degli sciami di mosche.

    Una mano femminile, senza dubbio. A conferma di quell’ipotesi, dall’interno arrivava il pianto flebile ma straziante di una donna.

    Mentre Zouga esitava perplesso, un omone riempì il vano della porta e, sbattendo le palpebre contro il sole, si schermò gli occhi con una mano nodosa in cui la sporcizia si era insinuata fin sotto la pelle.

    «Chi siete?» domandò Jock Danby con scortesia ingiustificata.

    «Abbiamo parlato ieri. Su, agli scavi.»

    «Cosa volete?» L’altro non diede segno di riconoscerlo, con i lineamenti contratti in un’espressione da cui trapelavano crudeltà e anche qualcos’altro, un’emozione che Zouga non seppe decifrare immediatamente.

    «Avete manifestato l’intenzione di vendere le vostre briefies» gli rammentò Zouga. La faccia di Jock Danby sembrò dilatarsi tingendosi di un orrendo rosso scuro, e anche le vene del collo si gonfiarono quando rovesciò il capo sulle spalle muscolose.

    «Lurido avvoltoio» disse con voce strozzata, uscendo sotto il sole con l’energia irrefrenabile di un bufalo che carica dopo essere stato colpito da un proiettile.

    Superava Zouga di una testa e aveva dieci anni in meno e cinquanta libbre in più. Colto totalmente di sorpresa, Zouga tardò un centesimo di secondo a piegarsi e a schivare l’aggressione. Un pugno lo colpì alla spalla con la violenza di una palla di cannone, un colpo inferto alla cieca ma con forza sufficiente per mandarlo a sbattere contro la tavola di cernita. La ghiaia si sparse ovunque sul cortile polveroso.

    Jock Danby tornò alla carica, con il viso gonfio, gli occhi folli e le grosse dita macchiate pronte a stringersi alla gola dell’avversario. Zouga allora si ripiegò su se stesso e, teso come il collo di una vipera sul punto di attaccare, affondò i tacchi degli stivali nel torace dell’uomo.

    Senza fiato, Jock Danby si fermò come fosse stato centrato in

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