La casa sul pizzo
By Enzo Pagano
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La casa sul pizzo - Enzo Pagano
sguardo.
Un viaggio al termine della terra
Quei calzini bianchi, troppo corti, diventarono il punto focale della sua attesa. Li avrebbe voluti più lunghi e di colore scuro; nero, magari. Non sollevava la testa per scrutare il vuoto davanti a lei, si limitava a rivolgere le palpebre verso l’alto tenendo la testa chinata: un doloroso sguardo per le pupille, penoso per l’assenza di qualcuno che avrebbe dovuto esserci e non c’era. Il bidello continuava a tranquillizzarla urlandole dal gabbiotto: Stai tranquilla, qualcuno verrà
. Sì, qualcuno sarebbe pur venuto, ma non era la sua migliore aspettativa. Sarebbe bastato correre verso quello spazio deserto, avrebbe corso tanto da non farsi più ritrovare. Era quello che più desiderava. Niente di più godibile della pena che avrebbe inflitto a chi non l’avrebbe trovata lì dove doveva essere: la vacca puttana e lo stronzo cornuto, così come si chiamavano urlandosi a vicenda. Lì, sotto il tavolo, non giungevano più i loro nomi propri; restava con le mani premute sulle orecchie, un fastidioso quanto inutile rimedio: i suoni rauchi di lui e quelli stridenti di lei oltrepassavano l’inconsistente spessore dei suoi palmi. La testa le si riempiva di parole angoscianti, che nulla sarebbe stato più come prima. Che tutto avrebbe avuto fine col clamore di una porta sbattuta per sempre. E sempre si ripeteva con questo coupe de theàtre, talmente poco credibile che aveva smesso di credere che ciò potesse accadere davvero. Così come sarebbe accaduto quando sarebbe stata lei a uscirsene di scena in punta di piedi, senza clamore, socchiudendo la porta per raggiungere quella parte di mondo che le era piaciuto sentire: De finibus terrae
, come lo aveva descritto la sua maestra, puntando la lunga bacchetta sulla grande carta geografica dello stivale. Era lì che finiva il mondo, ed era quel posto che scelse come regalo al compimento del suo diciottesimo anno. Gli amici le regalarono il solo biglietto di andata, non pretese quello di ritorno.
Sino ad Ancona fu un susseguirsi noioso di case e costruzioni appena illuminate dalla luce giallastra dei lampioni stradali. Giunta a Pescara, le apparve il cielo: era simile a quello azzurrino disegnato da lei con il pennarello. Poi, il mare, che lo aveva dipinto sempre burrascoso e spumeggiante di onde bianche; questo era calmo, piatto, e di un colore appena più azzurro del cielo. Nei pressi di Bari, sentì il profumo della pasta appena scolata: una brezza di grano maturo misto a un soffio umido e salino. Scesa a Lecce, provò la piacevole sensazione di poggiare i piedi su un suolo già caldo di prima mattina. Il salone della stazione rimbombava di suoni ritmati e melodici; erano le voci del personale di servizio, non quelle dei passeggeri. Le pareva che parlassero un’altra lingua: tutte le vocali avevano un suono aperto, le consonanti pronunciate sempre a denti stretti e labbra serrate. Chiese a uno di loro dove dovesse prendere il treno diretto a Santa Maria di Leuca. Quello rispose in un italiano veloce: Questo stesso binario, parte tra venti minuti
. Il garbo e la sollecitudine nel rispondere furono fin troppo eccessivi, sembrava volesse rimanere con lei in attesa che giungesse la littorina. Lo ringraziò, felice che l’uomo parlasse la sua stessa lingua.
Il faro di Santa Maria di Leuca era il punto più estremo della penisola salentina, spiegava una giovane guida a un gruppo di anziani accaldati e vogliosi di entrare quanto prima nella basilica della Madonna. Sulla spianata, a quell’ora, c’era una sola ombra: quella di una colonna posta esattamente al centro del piazzale. La frescura all’interno della chiesa era il luogo più agognato per quel gruppo di attempati in sovrappeso. Che si trovassero anche nel punto più estremo dell’intera penisola, de finibus terrae, com’era definita anche la stessa basilica, gli importava ben poco; avevano la sola fretta di raccogliersi in preghiera all’ombra della Vergine Maria.
Restò sola. Decise di avviarsi sulla scogliera con l’intenzione di posare i piedi sull’ultimo scoglio ed emozionarsi all'idea di essere davvero lì, dove finiva la terra. La brezza termica le carezzò lievemente i capelli: un soffio chiaro, pulito, che odorava di mare; non quello freddo e brumoso del suo lago.
Dormì perlopiù nel sacco a pelo, adagiandolo sotto secolari e rassicuranti ulivi. Le mancava solo l’immagine di Biancaneve dipinta sulla parete della sua cameretta. Quelle turgide tettine che non mancava mai di guardare prima di addormentarsi. Da bambina, immaginava di animarla, così come la ricordava nel cartoon, la rincorreva lungo i sentieri di un fitto bosco eccitandosi al fatto che non riuscisse a raggiungerla, non la voleva raggiungere; quella corsa coincideva con il piacere dello sfregamento delle sue cosce sotto le lenzuola. Da signorina, non permise al padre di ridipingere la parete; la visse come una specie di iconoclastia
, nel tentativo di dissuaderla da quell’orientamento sessuale ancora non del tutto definito. Biancaneve restò lì dov’era, non ebbe più bisogno di rincorrerla, ma quel piccolo seno puntuto continuava a tranquillizzarla del fatto che la sua non fosse una scelta ma una necessità mentale. Si addormentava così, con l’idea che due corpi potevano darsi piacere comunque fossero le fattezze fisiche, bastava solo desiderarsi.
•
Viaggiò su mezzi di trasporto agricoli, i soli che percorressero le strade polverose di una campagna senza prati. Si divertì molto a sedersi stretta accanto al vignaiolo che guidava un’ape/car o osservare le lunghe distese di grano appollaiata in alto su uno strapuntino di un trattore. Scomodità che si compensavano con la lentezza di un viaggiare in lungo, più che in largo. Non l’aveva neanche cercato un passaggio su un’automobile, le poche che passavano non la invogliavano a salirci: troppo comode e veloci, guidate da attempati con cravatta che rallentavano volentieri invitandola a salire: un approccio al contrario, un invito a montare con malcelata cortesia, laddove gli sguardi umidi e vogliosi puntavano solo le sue cosce scoperte. Meglio gli accaldati e più tranquilli guidatori in canottiera, loro non potevano azzardare, data l’esiguità dei mezzi. L’olezzo di sudore, poi, era più rassicurante di un ordinario profumo maschile. Meglio procedere a piedi.
•
Da lontano, le sembrò una stravaganza architettonica; quando fu nei pressi, si ravvide: non c’era stato bisogno di un architetto, e nemmeno di un geometra, per tirare su quattro pareti e intonacarle di bianco. Era, piuttosto, il suo altezzoso isolamento l’unicità di quella costruzione. Non le sarebbe spiaciuto abitarci, pensò, non senza una punta di invidia per chi la possedeva.
«Si è smarrita?» l’accolse la voce di Davide.
«No, gironzolavo» rispose con un tono svagato.
Non le sembrò che avesse l’aria di un ricco possidente, e nemmeno quella di un coltivatore che abitasse in quella casa. Pur avendolo visto uscire da quell’abitazione, le parve che fosse anche lui lì per caso. Teneva le mani nelle tasche di un pantalone di tessuto a coste, sdrucito quel tanto da apparire un abbigliamento casual più che un vestiario di un qualche fattore del luogo. Camminava a passi brevi e ciondolanti di chi non fosse diretto da qualche parte a fare qualcosa di utile. Gli avrebbe volentieri chiesto chi fosse e per quale motivo si trovasse in quel posto talmente originale da sembrare un artificio di un qualche architetto di ritorno da un viaggio al Machu Picchu in Perù. Fu lui ad avviare la conversazione:
«Turista»?
«Sì».
«Italiana»?
«Sì».
«Del nord»?
«Sì».
«Può posare lo zaino, se vuole».
«Grazie».
«Nessun turista si è mai arrampicato quassù».
«Mi chiedevo di questo strano rilievo. Dev’essere stato un monte, un tempo»?
«No. Un semplice ammasso di sassi».
«Vuol dire: un’opera umana»?
«Non propriamente. Sassi dissotterrati dal vomere e accatastati in quest’unico posto. Una sedimentazione di duemila anni».
Sarebbe volentieri restata. Quel tono baritonale, calmo, di chi non impartiva una lezione, era ciò che cercava. Non si limitò a posare lo zaino, si sedette sullo sdraio di tela ruvida con l’intenzione di contemplare il paesaggio che discendeva sin dopo un gelso: una pendenza innaturale, un rigonfiamento fasullo del terreno, come un disegno infantile che si ergeva su un altrettanto improbabile schizzo di un pianoro frazionato in tante piccole proprietà recintate da muretti a secco. Una ragnatela di quadrangoli irregolari, ognuno dei quali conteneva il suo trullo, un certo numero di alberi d’ulivo, mandorli, filari di vite e piccoli orti di terre bruna.
«Davide, l’acqua»!
L’urlo giunse come una supplica straziante, più che una pretesa. Proveniva dall’interno di quel cubo bianco che, d’un tratto, le parve come fosse un sepolcro con dentro un’anima in pena.
L’uomo non rispose. Voltò appena le spalle, come per avviarsi ad esaudire la richiesta. Esitò un attimo, per poi rigirarsi verso la ragazza.
«Le piace questo posto»?
«Tantissimo. Laggiù è così verde e fermo».
«Meglio i giorni ventosi, quando gli ulivi mostrano il dorso delle loro foglie: un ondeggiare grigio-pastello che si armonizza col rosa e il bianco dei mandorli e ciliegi in fiore. Questo, in primavera».
«Mi piacerebbe restare per poterli vedere».
«Può restare, se vuole».
«Mi basterebbe un divano».
«Lì ci dormo io. Potrebbe dormire nel letto grande, accanto a Marta».
«Non le spiacerebbe»?
«Affatto. Sente il bisogno di un’amica accanto».
«Era il suo quel grido»?
«Sì».
«Soffre»?
«Non fisicamente. Si sente sola, se restasse le farebbe compagnia».
«Non certo sino alla prossima primavera» sorrise.
«Lasciamo che decida il tempo. Qui non piove mai, ed è sempre primavera, potrebbe piacerle» ammiccò.
«Allora resto. Ci diamo del tu»?
«Sì».
«Mi chiamo Claudia».
«Io, Davide».
«Un nome antico» …
«Sì, biblico».
«Se vuoi, posso portarle io il bicchiere d’acqua».
«Magari. Marta sarebbe ben lieta di riceverti. La bottiglia è sul lavabo, puoi prelevare il bicchiere dallo scolatoio».
Non sarebbe mai piovuto. Né tanto meno il freddo sarebbe stato quello umido e penetrante della sua valle. Claudia si sollevò, decisa a dissetare la voce di quella femmina.
«Ciao!» l’accolse Marta con un tono esplosivo.
«Ciao!», rispose Claudia con altrettanto vigore.
«Ti aspettavo da tempo. Sei bella».
Claudia non rimase stupita dall’insolita accoglienza. Le sembrava davvero che la stessero aspettando da tempo, che tutto procedesse così come dovesse naturalmente accadere.
«Starai bene qui» allungò la mano, Marta.
Claudia la raccolse. Sentì un gelo secco, simile a un arto di marmo.
«Ne sono certa» volle consolarla.
«Da dove vieni»?
«Da un paesino della Padania» sorrise.
A Marta le bastò il sorriso, senza curarsi di conoscere il nome del paese. Non le importava, d’altronde. Era già bastante la sua presenza giovane e bionda; era quanto attendeva da sempre.
«Davide sarà premuroso anche con te».
Claudia restò a guardarla, in attesa che aggiungesse dell’altro. La lunga pausa la invogliò a continuare il discorso.
«Mi è parso un uomo ben disposto verso il prossimo…» s’interruppe.
«Sì. Non l’avrei sposato se fosse stato differente».
Il volto di Marta s’immalinconì. Un’espressione infantile, come quella di una colpa segreta che la obbligasse ad abbassare le palpebre.
«C’è una bell’aria là fuori, usciamo»?
«Ti prometto che uscirò un giorno. Non oggi».
Claudia si sedette sul bordo del letto, nell’esatto punto dove Marta con una mano la sollecitò ad accomodarsi.
«Dormirai con me?» chiese Marta con un tono infantile.