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Sei donne a San Siro
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Sei donne a San Siro

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About this ebook

Milano, novantamila persone, uno stadio che è una polveriera e una città divisa da un derby che può valere lo scudetto. È questa la cornice di "Sei donne a San Siro", il noir che Luigi Carletti ambienta nel corso di una partita realmente avvenuta. la sfida tra Inter e Milan del 2008, campionato al termine del quale i nerazzurri di Roberto Mancini vinceranno lo scudetto. Un intreccio di storie che, partendo da punti molto diversi, convergono in un vertiginoso susseguirsi di colpi di scena.
LanguageItaliano
Release dateDec 15, 2020
ISBN9788836260003
Sei donne a San Siro

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    Sei donne a San Siro - Luigi Carletti

    Prologo

    Cinque donne più una

    L’aria è il respiro di un vulcano impaziente. Odore inconfondibile di folla compressa, miscela chimica di commistioni tribali e fibrillazioni corporee. Un tifo assordante che non esita e non va in pausa.

    Un pomeriggio di marzo che ricorda dicembre. San Siro. Stadio così pieno di gente che sembra scoppiare. Gente da spalti, che urla e si agita. Le due squadre si scaldano: esercizi e corsette. Ognuna nella propria metà campo. Manca poco. Pochissimo. È un Milan-Inter che può valere lo scudetto.

    Anno 2008, a Milano.

    La folla dell’arena è lì per la battaglia. La vuole, la battaglia. E invoca i suoi eroi: Kakà e Materazzi, Balotelli e Seedorf. Se potesse si rovescerebbe giù per le gradinate ad abbracciarli, a stringerli tutti, uno dopo l’altro, per assimilarne palpiti e sudore.

    Tra due ore sarà tutto finito. Ma intanto, uomini contro altri uomini. Uomini dai lineamenti tirati e ricurvi come trasfigurati. Pronti a mostrarsi bambini. Incuranti di ogni idea residua di riservatezza e dignità. La dignità, oggi, è vincere.

    E poi le donne. Molte donne.

    La gran parte di loro sono allo stadio come propaggini di maschi con i quali condividere la domenica. Perché condividere è anche questo. Soprattutto questo.

    Altre sono lì per abitudine e passione.

    Ma alcune di quelle donne si trovano lì per tutt’altro. La partita non interessa. La partita è solo un’occasione.

    1

    Lo stadio

    Letizia si guarda intorno. Tirare fuori una pistola, farlo proprio là dentro, sperando di non doverla usare.

    C’è il tutto esaurito, e d’altronde il derby è questo. La partita dell’anno, per i milanesi, e non solo. Ci sono novantamila spettatori. Novantamila anime in questo tempio isterico del calcio. San Siro non è certo il luogo ideale per una caccia all’uomo.

    Non è gente da stadio, quella seduta al tavolo con lei. È gente d’azione: compiti precisi, un obiettivo primario e tanto, tanto sangue freddo. Prendere appunti non serve a granché.

    «Il nostro uomo?» domanda.

    L’agente scelto Calandra allontana appena l’auricolare. Risponde: «È nel parcheggio». E aggiunge: «Ha lasciato l’auto. Tra qualche minuto lui e gli altri saranno in tribuna».

    «Non dobbiamo perderlo di vista. Mai».

    «Chiaro» conferma Calandra. Mascella ferma e voce tenorile: professionale, a parte quel lampo languido negli occhi scuri.

    «Okay, ci muoviamo. Una volta in tribuna lasciate stare la radio e usate i cellulari. Se è possibile solo sms, come delle persone normali. Darete meno nell’occhio».

    Si va.

    Letizia controlla la Beretta nella fondina appoggiata sullo stomaco, sotto la giacca del tailleur nuovo, giacca e pantalone blu petrolio. Non troppo aderente. Comodo come deve essere un tailleur da sbirra. Controlla anche l’altra pistola, la Glock 26 alla caviglia destra. Armi pronte. I colleghi fanno lo stesso con le loro.

    L’ispettore Castro detto Nikon resta lì, nella sala controllo al secondo anello dello stadio: il quartier generale. L’ispettore Vitolo coordina gli agenti all’esterno. Il vice ispettore Pittau, l’agente scelto Calandra e gli altri sanno dove devono sistemarsi.

    Dislocazione strategica nel primo anello, tribuna rossa centrale. La tribuna dei vip.

    È stata un’indagine lunga. Mesi di lavoro ostinato, silenzioso. Ha impegnato alcuni dei migliori investigatori della Dac, la Direzione centrale anticrimine della polizia. Una collezione di risultati deludenti e all’improvviso la svolta. Oggi è il giorno giusto. La partita decisiva.

    C’è solo un problema: il campo di gioco l’ha scelto l’avversario.

    ***

    Dice di chiamarsi Guendalina e come nome non è un granché. Ha il cappuccio in testa e negli occhi un cielo rovesciato. Potrebbe essere slava o americana, forse russa o australiana. Ciglia lunghe e labbra piene, è il disegno di un artista da santi e madonne. Ma in quella voce non c’è niente di grazioso, niente di sottomesso. C’è ben poco di femminile, nella sua voce, forse perché lei parla lentamente, come se di ogni parola dovesse calcolare potere e conseguenze.

    Non è timida, solo consapevole. È prudente. Sa dove si trova.

    Guendalina deve entrare in quello stadio e non può farlo come tutti gli altri. Non è una del pubblico, lei. Deve convincere Zagor, il capogang nero di San Siro, che adesso la guarda come se volesse scherzare. Ma lei non scherza affatto. Ha bisogno di lui. Sa che può decidere il suo destino.

    ***

    Annarosa esce dall’auto e s’incammina a fianco di Ottavio. Lui conosce la strada più breve e guida il gruppetto. A San Siro è di casa.

    Greg e Veronica li seguono a pochi metri. Greg sta rispondendo a un sms e alla moglie non va giù. Non è esattamente una discussione, ma un po’ li rallenta. «Allora, ve la date una mossa?». Il tono non sa d’invito. È un ultimatum, quello di Ottavio. All’inizio del derby ormai non manca molto.

    Si procede in fila indiana, si buca la massa umana di voci e fiati compressi. Sempre più rumorosa, la massa. Sempre più densa. Lo stadio è un pianeta. Luminoso e immenso. Per Annarosa è la prima volta. Alza lo sguardo e non ne vede la fine. Mon dieu, è spaventoso. Non ci riprova neanche. Tiene gli occhi fissi sulla nuca del marito. È la sua bussola nella giungla, la nuca di Ottavio. Ecco i tornelli, si strappano i biglietti, ci si fa controllare dagli addetti con il metal detector e s’imbocca l’ingresso prescritto. Gate 8, verso la tribuna centrale.

    Ci sono cose che una moglie deve fare.

    Anche se la folla le dà la nausea al punto di farla stare male. Anche se soffre di crisi di panico che non ha mai confidato a nessuno. Una brava moglie fa questo e altro per stare insieme al marito. Per capire che cosa sta succedendo a loro due. Alla famiglia. La bella famiglia che aveva sempre sognato nella sua vita ideale.

    ***

    Lola prova a sorridere al fotografo della Gazzetta, stira le labbra e scopre i denti bianchissimi ma non è convinta che sia veramente un sorriso. Teme che sembri più una smorfia a metà tra un dolore di pancia e un ruttino. E infatti il fotografo brontola qualcosa del tipo «vabbe’, chiamiamolo sorriso» e scatta. Scatta a ripetizione mentre lei entra nell’area dei giornalisti, mentre si toglie l’impermeabile e saluta due colleghi vicini alla tribuna stampa. Mentre si ferma davanti al suo box.

    «Okay, mi basta così». Le fa l’occhiolino. «Siamo un po’ tesi, eh?».

    «Appena, appena» ammette lei.

    «Stasera sarai sul sito e domani sul giornale, sempre che i miei capi non cambino idea come fanno quasi sempre». Si stringe nelle spalle. «Ti capisco. È il tuo primo derby, ma ricorda che sei brava e sei bella. Sei pure brasiliana».

    «Già, brasiliana…» sorride lei.

    «Appunto. E ai brasiliani, qui a Milano, perdonano sempre tutto. In campo e fuori».

    Lola annuisce e gli manda un bacio. Vorrebbe potergli credere, ma sa che non funziona così. Lola sa che per lei il perdono non è più possibile.

    ***

    Renata si toglie gli occhiali scuri e aspetta che la vengano a prendere.

    «Va bene, ci siamo ladies and gentlemen: adesso non correte, eh!».

    È spiritoso il responsabile del Servizio trasferimento disabili. Il pulmino è sotto lo stadio. Fermo nel piccolo parcheggio vietato ai tifosi provvisti di gambe funzionanti. Il cartello dice: riservato ai diversamente abili. Accanto ci sono già altri pulmini simili arrivati da poco. Infermieri e accompagnatori si alternano nel trasbordo sulle sedie a rotelle.

    Sa di avere addosso gli sguardi degli altri passeggeri. Le dà fastidio ma fa finta di niente, come sempre. Ha con sé la borsetta e la sua copertina trapuntata. Stavolta si è portata anche un’altra borsa. Una day-bag da viaggio in tela quadrettata finto inglese. L’ha preparata con cura. La tiene agganciata alle maniglie della carrozzella. C’è dentro tutto quel che le serve.

    È arrivato il giorno che aspettava.

    Si è preparata, sa di potercela fare. Non dovrà commettere errori. Certo, ha bisogno di un po’ di fortuna. Deve scegliere il momento giusto, sa che tutto si decide nello spazio di pochi secondi. Ma se sarà determinata e se sarà tempestiva, e se l’Inter vincerà…

    Chiaro, se l’Inter vince è tutto più facile.

    Il suo piano è semplice, dopotutto. Può funzionare, quale che sia il risultato del derby. Ma se l’Inter vince significa che è quasi scudetto, e allora sarà tutto perfetto. Lei farà quel che deve fare e sarà qualcosa di enorme. Di grandioso. Si griderà al miracolo. Un miracolo nel giorno giusto, con la cornice mediatica adeguata. Andrà sui giornali e sulle tv, sui siti e sui blog. Parleranno tutti di lei e della sua storia.

    Sarà un trionfo. Il giusto risarcimento.

    ***

    Gemma scende dal taxi, l’ultimo chilometro se lo sciropperà a piedi, come sempre. Le piace mischiarsi alla gente in marcia. Le piace quell’agitazione che taglia l’aria prima della partita. Se poi c’è il derby, l’aria ha qualcosa di speciale. Le piacciono le trombe e le bandiere. Le sciarpe del Milan e l’odore di carne arrosto che arriva dagli ambulanti della grigliata da stadio. E poi a una certa età camminare fa bene. Aiuta la digestione e riattiva la circolazione. Ormai sta seduta in quella macchina al lemon freshener da quasi mezz’ora. Non ne può più.

    «Quanto fa il tassametro?».

    «Sono trentacinque euro, signora».

    «Hai capito, Attilio? Qui ogni volta si rincara. E noi zitti. Pagare e basta».

    «Non mi chiamo Attilio, signora» sbadiglia il tassista.

    «Infatti non lo sto dicendo a lei».

    «Le serve una ricevuta?».

    «Ma quale ricevuta…».

    Gli dà cinquanta e aspetta il resto. Mangia un’altra liquirizia.

    «Se vuole la porto un po’ più avanti. Per lo stadio c’è ancora un bel pezzo di strada, che se poi viene a piovere…».

    «Io e l’Attilio frequentiamo San Siro da mezzo secolo. Camminare ci fa solo bene».

    «Lei e l’Attilio» annuisce il tassista. La guarda nello specchietto e le allunga il resto.

    «Arrivederci» dice Gemma uscendo dall’auto. «È una Citroën, questa?».

    «Sì, signora» si sorprende lui.

    «Perché non si compra una Citroën Squalo? Noi ce l’abbiamo, io e l’Attilio. Tutta bianca, decappottabile. Gran macchina. Altra classe, rispetto a questa».

    Osserva la stesa d’asfalto che è il cielo di Milano. Fa un passo, si ferma di nuovo. «Tu dici che piove?». Scuote la testa e aggiunge: «Ma infatti: due gocce non hanno mai ammazzato nessuno».

    S’immerge nel fiume di folla con una giacca a vento beige sottobraccio.

    2

    Giubbotto rosso

    Il posto è quello giusto. Letizia ha una visuale perfetta. Il loro uomo è dove deve essere. Lo hanno marcato stretto. Lo hanno seguito in tutti i suoi spostamenti e adesso è lì, a pochi metri da lei. Letizia si siede dopo che lui si è seduto. Cinque file sotto. Può controllarne ogni movimento, può seguirne ogni gesto, quando ride e quando annuisce, perfino quando scuote la testa biondastra scavata nella nuca e discute con l’altro che sta con lui. Quell’altro che urla qualcosa verso il campo di gioco facendoli divertire e facendo divertire quelli che stanno intorno. Le donne, i ragazzi, gli uomini della domenica allo stadio.

    Ridi. Ridi pure. Ridi ora, pensa Letizia mentre si sistema nella poltroncina.

    Lui è la sua preda.

    È l’uomo con il giubbotto rosso. Uno che si nota.

    Letizia prende il cellulare e scrive: In posizione.

    Spedisce. Fatto.

    Il vice ispettore Pittau le fa un cenno: ha appena letto il suo messaggio. Si è acquattato nel settore vicino, sulla destra, anche lui nel primo anello nord dello stadio. Pittau è buffo. Indossa un impermeabile beige e un cappello da gentleman inglese. A vederlo così, in questura, c’era da piegarsi in due. Risate e battute da caserma. Buffo è dire poco. Ma adesso, in tribuna, è uno dei tanti. È perfetto. Non come i due che sono con lui. Quelli purtroppo sembrano esattamente ciò che sono: sbirri. Con quei giacconi neri e lucidi che potrebbero nascondere anche dei fucili a pompa. Con quelle espressioni così poco domenicali. Sbirrissimi. Adesso i due si sistemano più in basso.

    A sinistra, oltre la tribuna d’onore, ce ne sono altri quattro con l’agente scelto Calandra. Che non sembra uno sbirro. Lui no.

    Lui vuol sembrare l’idea altissima che ha di se stesso e talvolta ci riesce.

    Anche adesso, muscoloso e agile, il sorriso vigile e fisso, eccolo che oltrepassa lo steward e viene verso di lei, scavalca il muro di folla nel corridoio, risale i gradini e la

    raggiunge, senza mai incrociarla negli occhi ma tenendo, come tutti, lo sguardo fisso sul campo di gioco e sul mondo intorno. Fino a che non si siede in una poltroncina ancora libera. Accanto. Molto accanto. La sua scia profumata e speziata arriva e colpisce. Raggiunge lo scopo. Letizia si muove appena. Quell’odore, purtroppo, le piace. Le smuove faccende interne, è una password sempre attiva per il suo database ormonale.

    «Stiamo a cena insieme? Poco fa, durante il briefing con gli altri non potevo chiedertelo, ma adesso…».

    «Adesso, nel post-briefing, invece…».

    «Okay, dopo stiamo insieme» fa lui. Un tesoro, quando va per le spicce.

    «Credo che avremo altro da fare, dopo». Il tono di Letizia è appena un po’ abrasivo.

    Lui scuote la testa. Non si smonta per un no. Non è proprio quel tipo d’uomo. Sono stati coppia per tre anni, a seguire hanno vissuto un bienno di quel via vai che non risolve niente se non l’inedia di certe serate. Scopare tra ex che cercano di lasciarsi è un ansiolitico che funziona. Di domenica, poi, è salutare. Dicono.

    ***

    Guendalina sa che all’improvviso tutto può cambiare.

    I nostri piani sono fatti per fallire e per far sorridere gli dei. Per farli divertire. Eppure lei un piano ce l’ha e lo sta seguendo, altrimenti adesso non sarebbe lì.

    Zagor la esamina e non apre bocca. Pensa, semplicemente, che quel nome è ridicolo ma che c’è pure di peggio. Contrabbandare se stessi, per esempio. Perché puzza di marcio la sua pretesa di sembrare un ragazzo del quartiere. È mancanza di rispetto. Puoi anche rasarti il cranio, puoi infilarti pantaloni di tela da uomo e una felpa deformante con il cappuccio, ma se sei femmina è inutile che ci provi. Neppure gli anfibi militari servono a granché.

    «Tu non sei del quartiere» le dice, alla fine. Mentre gli altri, dietro di lui, la fissano immobili.

    «E allora?» fa lei.

    Allora non ci prendi per il culo. Ma la guarda e basta. La guarda e ci siamo capiti.

    «Che vuoi, Guendalina…» biascica lui. Lo fa strofinando quel nome quasi che a ogni sillaba voglia comunicarle quanto avventato, e quanto stupido, e imprudente, e irrispettoso, sia stato arrivare fin lì, da lui e dai suoi amici, fingendo di essere un ragazzo che vuole stare con loro.

    «Te l’ho detto. Voglio entrare là dentro. Voglio farlo come lo fai tu. Con te e con nessun altro».

    E mentre lo dice lancia lo sguardo all’immensa, grandiosa isola spaziale che li sovrasta, luminosa, fosforescente, attorno alla quale convergono file d’insetti umani, e sparse ovunque nei piazzali grigio piombo le formichine dei malinconici commerci domenicali. I venditori di sciarpe e di flosce bandiere, i venditori di panini unti, i venditori di giornali già vecchi e di patetici souvenirs ambrosiani. Bagarini e spacciatori. Hanno tutti da vendere qualcosa. Tranne Zagor. Lui non vende e non compra. Zagor è il capo di lì intorno.

    ***

    Letizia sospira e guarda altrove. «Dov’è Manolo?» chiede.

    «Al suo posto, come deve fare un bravo ragazzino». Calandra sorride e aggiunge: «È pronto».

    «È agitato?».

    «Per niente. Non vede l’ora di cominciare, lui».

    «Dovresti stare lì, anche tu».

    «Prima voglio sentirti dire che stasera stiamo insieme».

    «Sarebbe meglio smetterla» scandisce Letizia.

    «Ne hai uno nuovo. È così, giusto?». C’è, nella sua voce, una nota più stonata delle altre. Una vibrazione tenera e cupa. Perché sarà pure un cazzo di grand’uomo pluridecorato, Ettore Calandra, agente scaltro e scelto, ma quando si sono mollati a sclerare davvero è stato lui.

    «Non ne voglio parlare. Né adesso né mai». La risposta è il sibilo di una frustata lenta.

    «Quindi ce l’hai, un altro».

    No che non c’è, un altro. Ma col cazzo che te lo dico, pensa Letizia. Alza l’indice dentro al cielo. «Ascolta, la senti questa vocina? Sta dando le formazioni, sarebbe meglio che ciascuno di noi…».

    «Ciascuno di noi» sillaba lui aggrottando la fronte, le labbra e perfino la voce. «Ciascuno di noi, cosa?».

    «È un’operazione di polizia, questa, o che altro?».

    Glielo chiede soave, sbattendo e risbattendo gli occhi, e poi spalancandoli, quei fanali verde magnolia che lo sa, gli chiuderanno la gola e gli divaricheranno l’esofago. Gli faranno liquefare le ginocchia quando finalmente si alzerà per tornare al suo posto. L’agente scelto Ettore Calandra.

    «E va bene» fa lui. «Ma stasera?».

    Intanto arriviamoci a stasera, pensa Letizia. Non lo calcola e torna al suo lavoro. Che è: tenere d’occhio una nuca giallastra di biondo diradato, cinque file più sotto. Giubbotto rosso.

    ***

    «Guendalina, Guendalina» ripete Zagor. E finalmente si muove.

    Si alza dalla panchina e le va vicino. Così vicino che sembra toccarla. «Guendalina travestita da uomo» mormora.

    È alto e magro, scolpito nella terra scura. Ha un po’ più di vent’anni, come lei, e come lei ha i capelli a zero.

    Potrebbero sembrare fratelli, se non fosse che è nero. Nero africano vero. Lui canta così quando si dà arie da rapper.

    Lei non dovrebbe essere lì. Un’imprudente. E pure un po’ scema. Guendalina.

    «Che c’è, hai fatto una scommessa? Sei stanca di cinema e pizza alla domenica col tuo stronzetto? O magari ti pagano

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